Caffeina ai prematuri: non migliora la sopravvivenza

I neonati fortemente prematuri sono soggetti ad apnee e sono a maggior rischio di morte o disabilità. In questi casi, il trattamento con caffeina si è mostrato in grado di ridurre la probabilità di paralisi cerebrale e ritardo cognitivo all’età di 18 mesi, ma ora uno studio multicentrico – coordinato da Barbara Schmidt della McMaster University di Hamilton (Canada) – indica che questa terapia non si associa a un miglioramento della sopravvivenza senza disabilità rilevata a 5 anni. I 1.936 partecipanti sono stati scelti in 31 ospedali universitari in Canada, Australia, Europa e Israele, sono stati randomizzati e suddivisi in un gruppo placebo e un gruppo sottoposto a terapia con caffeina. I risultati dello studio si riferiscono a 1.640 di questi bambini, con peso alla nascita compreso tra i 500 e 1.250 g, per i quali si sono raccolti tutti i dati richiesti per l’analisi statistica. Oltre alla sopravvivenza a 5 anni, i ricercatori hanno verificato la presenza nei bambini di danni motori, ritardi cognitivi, problemi comportamentali, cattivo stato di salute generale, cecità o sordità. Le percentuali combinate dei decessi e delle disabilità non sono state molto diverse tra gli 833 bambini assegnati al gruppo di intervento e gli 807 che avevano ricevuto una sostanza placebo. Si è verificato un decesso o almeno una disabilità nel 21,1% di coloro che erano stati trattati con caffeina, rispetto al 24,8% in coloro che avevano ricevuto una sostanza placebo. La differenza nelle percentuali di disabilità tra i due gruppi è stata considerata dagli autori non statisticamente significativa. 

JAMA, 2012; 307(3):275-282

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Le alterazioni lipidiche in corso di ipotiroidismo “lieve” o subclinico

Pochi mesi orsono è stato pubblicato (e riportato anche su Medicina Interna 33) l’ultimo dei numerosi lavori (Tagami T et al. Multi-center study on the prevalence of hypothyroidism in patients with hypercholesterolemia. Endocr J 2011 Apr 20) i quali ricordavano che in una piccola, ma non trascurabile, percentuale dei casi una ipercolesterolemia poteva essere espressione di una ridotta funzionalità tiroidea anche solo “lieve” o subclinica. Del tutto recentemente una ricercatrice sempre molto attenta a queste problematiche, Elizabeth N. Pearce, ha puntualizzato l’argomento dei rapporti fra ipotiroidismo subclinico ed alterazioni lipidiche con un update pubblicato sull’ultimo numero del 2011 del JCEM. Dopo aver ricordato i meccanismi fisiologici attraverso i quali gli ormoni tiroidei possono interferire sul metabolismo del colesterolo (Fig. 1) e le conseguenze che possono derivare in corso di franco ipotiroidismo (Tab. I), l’autrice – oltre ad affermare che si stima che fino all’11% dei pazienti con dislipidemia possano essere ipotiroidei subclinici – sottolinea anche che i risultati degli studi osservazionali inerenti le possibili alterazioni del colesterolo totale, LDL, HDL e dei trigliceridi nei pazienti con ipotiroidismo subclinico sono contraddittori (Tab. II). Alcuni degli studi riportano un aumento del colesterolo totale ed LDL correlato al deficit funzionale subclinico tiroideo, altri lo negano. Lo stesso dicasi per i trigliceridi, per la frazione ossidabile dell’LDL-C e per l’Apolipoproteina B, mentre la Lipoproteina (a) non parrebbe venire influenzata. Di estremo interesse il dato che il fumo e la resistenza insulinica possono influenzare in senso peggiorativo gli eventuali negativi influssi sul metabolismo lipidico dell’ipotiroidismo subclinico. A sostegno della non ancora risolta problematicità vi sono anche i risultati di numerosi trials che non hanno evidenziato in modo costante un significativo effetto benefico sulle alterazioni lipidiche della terapia con l-tiroxina nei pazienti con ipotiroidismo subclinico. Sulla scorta di tutti questi dati non univoci, nelle sue conclusioni l’autrice afferma che in caso di appropriate indicazioni cliniche per il trattamento della dislipidemia, la terapia dovrebbe essere iniziato indipendentemente dal contemporaneo inizio della terapia sostitutiva.

Pearce EN. Update in Lipid Alterations in Subclinical Hypothyroidism. The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism December 28, 2011 jc.2011-2532

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Anemia e bassa funzione tiroidea: un rapporto molto stretto

Fra le cause di una anemia di incerta etiologia difficilmente si pensa ad una ridotta funzione tiroidea. Un recentissimo articolo uscito sull’ultimo numero del 2011 di Endocrine Journal – nel puntualizzare gli stretti rapporti fisiopatologici fra ormoni tiroidei ed ematopoiesi mediati dall’eritropietina – evidenzia come nei soggetti con ridotta funzione tiroidea (sia subclinica che manifesta) la frequenza di una anemia sia significativamente superiore (43% e 39% rispettivamente negli ipotiroidei conclamati ed in quelli subclinici) rispetto a quella (26%) osservata nei controlli (Fig. 1). Riguardo alla individuazione delle cause dell’anemia, gli AA dell’articolo riferiscono di non aver evidenziato una correlazione fra deficit funzionale tiroideo e carenza di ferro o di vitamina B12, ma hanno osservato che la maggior parte delle anemie, tanto nei controlli quanto nei pazienti ipotiroidei, rientrano fra quelle etichettabili come “da disordine cronico”. Ne deriva pertanto che i test funzionali tiroidei dovrebbero entrare nell’algoritmo diagnostico di una anemia di incerta etiologia (ndr).

Mehmet E et al  Characteristics of anemia in subclinical and overt hypothyroid patients. Endocr J. 2011 Dec 27

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Escrezione urinaria di sodio e rischio cardiovascolare

Rispetto a un valore basale di 4-5.99 g/die, un’escrezione urinaria di sodio superiore a 7 g/die si associa a un accresciuto rischio di eventi cardiovascolari (cv), ma se l’escrezione dell’elettrolita diventa inferiore a 3 g/die aumenta il rischio di mortalità cv e di ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Vi è dunque tra escrezione di sodio e rischio di eventi cv una correlazione “a forma di J”. È quanto hanno scoperto Martin O’Donnell, della McMaster University di Hamilton (Canada) e collaboratori. I ricercatori hanno coinvolto 28.880 pazienti con diagnosi accertata di malattia cardiovascolare o diabete mellito provenienti dai trial Ontarget e Trascend, dai cui campioni di mitto mattutino a digiuno sono state effettuate stime dell’escrezione urinaria di sodio e potassio lungo le 24 ore, applicando la formula di Kawasaki. Gli outcomes di interesse, valutati a un follow-up medio di 56 mesi, erano costituiti da mortalità cv, infarto miocardico, ictus e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Rispetto a un gruppo di riferimento con un valore basale di escrezione di sodio di 5-5.99 g/die, livelli superiori al basale sono risultati associati a un rischio maggiore di morte cv. In particolare il rischio era quasi raddoppiato nei soggetti con escrezione basale superiore a 8 g/die, ma aumentava solo del 15% in quanti avevano un’escrezione iniziale di 7-8 g/die. Comunque, un basso livello al basale di escrezione di sodio è apparso associato ad un rischio superiore di un outcome composito, comprendente morte cv, infarto miocardico, ictus e ricovero per scompenso cardiaco. Quanti mostravano un valore basale inferiore a 2 g/die avevano un rischio per quest’ultimo esito aumentato del 21%, cifra che scendeva al 16% nel caso di valori compresi tra 2 e 2.99 g/die. Da notare infine che rispetto a un valore di riferimento di 1.5 g/die, valori superiori di escrezione urinaria di potassio si sono accompagnati a riduzioni crescenti del rischio di ictus (da 23% fino a 32%).

O’Donnel MJ et al. JAMA 2011; 306(20):2229-38

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Biomarker urinari per diagnosi di danno renale acuto

3 Feb 2012 Urologia

Una serie di molecole proposte recentemente come biomarker urinari di danno renale intrinseco acuto consentono di effettuare affidabili stratificazioni prospettiche diagnostiche e prognostiche in fase di triage nei dipartimenti di emergenza. La loro validazione è stata compiuta mediante uno studio di coorte prospettico multicentrico da Thomas L. Nickolas, della Columbia University di New York (Usa) e collaboratori. In 1.635 pazienti non selezionati, al momento dell’ammissione nel dipartimento di emergenza, sono stati misurati 5 biomarcatori urinari: lipocalina associata alla gelatinasi neutrofila urinaria (Ngal), molecola-1 di danno renale (Kim-1), proteina urinaria legante gli acidi grassi di tipo epatico, interleuchina-18 urinaria, cistatina-C. Tutti i biomarcatori sono risultati elevati in caso di danno renale acuto intrinseco, ma la Ngal si è dimostrata la più utile (con l’81% di specificità e il 68% di sensibilità al cutoff di 104 ng/ml) e la piùpredittiva in termini di gravità e durata della lesione renale. A sua volta il danno intrinseco renale si è rivelato fortemente associato ad outcome avverso intraospedaliero. La Ngal e la Kim-1 si sono inoltre rivelate efficaci nel predire un outcome composto da inizio della dialisi o morte durante il ricovero, ed entrambi i biomarcatori hanno migliorato la riclassificazione netta del rischio rispetto alle valutazioni convenzionali. Questi marker, infine, hanno identificato una significativa sottopopolazione caratterizzata da bassi livelli sierici di creatinina al momento del ricovero, ma che erano a rischio di eventi avversi.

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Eccesso polinsaturi e attività fisica: menopausa precoce

Alti livelli di attività fisica e l’assunzione di acidi grassi polinsaturi risultano associati a una più precoce insorgenza di menopausa. Lo rivela uno studio condotto in Giappone su 3.115 donne in premenopausa (età: 35-56 anni) da Chisato Nagata, dell’università di Gifu. L’attività fisica è stata stimata al basale tramite un questionario validato, con calcolo dell’equivalente punteggio metabolico. Le assunzioni di alimenti con la dieta sono state misurate anch’esse al basale mediante un questionario validato sulla frequenza dei pasti e aggiustato sulla energia totale. Lo stato menopausale è stato definito dall’assenza di mestruazioni per 12 mesi o più. Mediante modello di rischio proporzionale di Cox si è valutato l’hazard ratio della comparsa di menopausa dopo correzione per età, parità, indice di massa corporea, fumo, grado di istruzione, irregolarità mestruali. A un follow-up di 10 anni, 1.790 donne sono andate incontro a menopausa naturale. Un elevato livello di attività fisica e un alto consumo di grassi polinsaturi sono apparsi moderatamente ma significativamente associati a un inizio più precoce della menopausa; considerando l’attività fisica, l’hazard ratio del quartile più alto verso il più basso è risultato di 1,17, mentre lo stesso rapporto in relazione agli acidi grassi polinsaturi si è attestato a 1,15. Nessun altro degli alimenti analizzati, potenzialmente correlati ai livelli degli estrogeni endogeni (grassi totali, altri tipi di lipidi, fibre alimentari, isoflavoni della soia, alcol) è apparso associato all’insorgenza della menopausa.

Menopause, 2012;19(1):75-81

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Spondilite anchilosante: maggior rischio aterosclerosi subclinica

La spondilite anchilosante (As) si associa a un rischio aumentato di aterosclerosi in modo indipendente dai tradizionali fattori di rischio; i più probabili, in questo caso, sono invece l’attività di malattia, le limitazioni funzionali, e l’infiammazione. La conferma viene da uno studio prospettico – effettuato da Wafa Hamdi, dell’università di El Manar a Manouba (Tunisia) e colleghi – su 60 pazienti consecutivi (48 uomini; età media: 36 anni) con diagnosi di As secondo i criteri di New York modificati, messi a confronto con 60 controlli abbinati per età e genere. Come marker non invasivo di aterosclerosi subclinica si è utilizzato l’aumento di spessore dell’intima-media (Imt) dell’arteria carotide comune. La valutazione dell’Imt è stata condotta dallo stesso radiologo, mediante la stessa apparecchiatura e la medesima sonda nelle arterie carotide comuni di destra e sinistra, considerando la media delle due misure. I ricercatori hanno riscontrato valori di Imt significativamente aumentati nel gruppo As (0,51 mm in media) rispetto ai controlli (0,39 mm). Dopo correzione per fattori confondenti, lo spessore dell’Imt è rimasta superiore. Una serie di fattori si sono dimostrati correlati all’elevato valore di Imt nei pazienti con As: l’età di insorgenza della malattia, il punteggio di attività di malattia (Asdas), un’alta velocità di eritrosedimentazione, un elevato livello sierico di proteina C-reattiva, la scala global spine Vas per il dolore, e altri indici funzionali (Bath, Stoke, Schober, etc). Al contrario lo stato dell’artrite, dell’entesite e l’antigene Hla-B27 è sembrato che non esercitassero influssi.

J Rheumatol, 2012 Jan15.

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Lesioni intrauterine e neonatali: sequele a lungo termine

30 Gen 2012 Neurologia

Le lesioni neonatali e intrauterine comportano un elevato rischio di causare morbilità neurologiche gravi a lungo termine, secondo una revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricercatori keniani, sudafricani e inglesi coordinati da Michael K. Mwaniki, del Kenya Medical Research Institute di Kilifi. Gli studi pubblicati sul tema sono molti: dopo una prima identificazione di oltre 28.000 articoli, gli autori ne hanno inclusi nell’analisi 153, che documentano un totale di 22.161 sopravvissuti a insulti intrauterini o neonatali. Ne risulta che il rischio medio di sviluppare almeno un disturbo neurologico in questi soggetti è del 39,4% (distinto in 18,5% per sequele severe, 5% per  conseguenze di media gravità, e 10% per deficit lievi). Il danno più comune tra quelli riportati è costituito da difficoltà di apprendimento, difetti di sviluppo cognitivo o ritardo generale dello sviluppo, riscontrati in 4.039 soggetti, corrispondenti al 59% di quanti hanno avuto una conseguenza patologica dall’insulto subito. Seguono, nell’ordine, paralisi cerebrale (21%), sordità o difficoltà nell’udito (20%), cecità o disturbi della vista (18%). Solo un sottoinsieme di 40 studi ha incluso dati relativi a danni multipli, per un totale di 2.815 soggetti analizzati. Ne emerge che in un’elevata percentuale di casi lo stesso soggetto presenta più di un disturbo: se in 1.048 casi si evidenza almeno un danno (37%), il 32% di questi risente di danni multipli.

Lancet, 2012 Jan 12.

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Elevata IgM-uria: marker di nefropatia diabetica

30 Gen 2012 Nefrologia

I pazienti con nefropatia diabetica di tipo 2 che presentano tassi elevati di escrezione urinaria di IgM alla prima visita hanno un rischio elevato di morte renale e cardiovascolare. Lo ha dimostrato una ricerca condotta dal gruppo di Rafid Tofik, del dipartimento di Nefrologia dell’università di Lund (Svezia), su una coorte prospettica di 106 pazienti con diabete 2 (74 maschi e 32 femmine) reclutati tra il 1992 e il 2004, e poi seguiti fino al 2009. Come endpoint principali sono stati considerati la morte cardiovascolare e la malattia renale allo stadio finale. Il tempo medio di follow-up è stato di 5 anni e i partecipanti sono stati suddivisi in base al livello di albuminuria e IgM-uria. Durante il follow-up, 28 soggetti (di cui 19 di sesso maschile) sono deceduti a causa di eventi cardiovascolari mentre 41 (26 uomini) sono andati incontro a malattia renale allo stadio terminale. Il rischio di mortalità cardiovascolare e di insufficienza renale è risultato, rispettivamente, 2,4 e 4,9 volte superiore nei pazienti con aumentata escrezione urinaria di IgM rispetto a soggetti con IgM-uria normale. L’analisi stratificata, infine, ha dimostrato che l’aumento di escrezione urinaria di IgM costituisce un fattore predittivo di morte renale e cardiovascolare indipendente rispetto al grado di albuminuria (hazard ratio, Hr: 3,6).

Diabetes Res Clin Pract, 2012; 95(1):139-44

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Papillomavirus, un problema anche per gli uomini

Il papillomavirus umano (Hpv) e le patologie a esso correlate non rappresentano un problema solo per la donna, ma anche per l’uomo. Dai dati raccolti dal Sistema di sorveglianza sentinella delle infezioni sessualmente trasmesse che fa capo all’Istituto superiore di sanità, emerge che in Italia il 73% circa degli uomini, con un’età media di 33 anni, sviluppa una condilomatosi, in oltre 90% dei casi provocata da papillomavirus.  Non solo: “Si stima che fra l’88 e il 94% dei tumori dell’ano – ha aggiunto Vincenzo Gentile, ordinario di Urologia all’Università Sapienza di Roma – sia correlato a questo virus, così come il 40% di quelli al pene, il 25% di quelli alla faringe, il 10% di quelli alla cavità orale. Questo virus, quindi, è la causa di numerose patologie nel maschio, causate dai tipi 6, 11, 16 e 18”.Riguardo i condilomi, sebbene non costituiscano un problema in termini di mortalità, sono associati a una sintomatologia clinica quali bruciore, dolore, sanguinamento e a importanti conseguenze psicologiche che possono essere riassunte in imbarazzo, ansia, perdita di sicurezza e fiducia nel rapporto con il partner. I tipi di Hpv principalmente coinvolti sono il 6 e l’11, che sono responsabili del 90% delle manifestazioni condilomatose. “Lo strumento della vaccinazione – ha aggiunto Vincenzo Mirone, ordinario di Urologia all’Università Federico II di Napoli – è la misura di prevenzione più efficace da implementare per prevenire le infezioni da Hpv e salvaguardare la salute del maschio. Risultati di studi clinici, pubblicati sul ‘New England Journal of Medicine’, mostrano per il vaccino quadrivalente un’efficacia del 90,4% nella prevenzione delle lesioni genitali esterne (condilomi genitali, lesioni peniene, perianali e perineali) nei maschi dai 16 ai 26 anni”.

 

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