Prostata, troppa vitamina E aumenta il rischio di cancro

28 Gen 2012 Oncologia

Assumere vitamina E puo’ far aumentare il rischio di cancro alla prostata. E’ questo il risultato di un ampio studio pubblicato oggi sul Journal of the American Medical Association (Jama). La ricerca era iniziata nel 2001 per testare studi precedenti che suggerivano che il selenio e la vitamina E potessero ridurre il rischio di sviluppare alcuni tumori. I ricercatori responsabili del Selenium and Vitamin E Cancer Prevention Trial (SELECT) hanno monitorato lo sviluppo del cancro in 35.533 uomini che hanno assunto selenio, vitamina E o una combinazione di entrambe le molecole. Solo la vitamina E e’ risultata aumentare significativamente il rischio di tumore. ”Per l’uomo medio non sembra esserci nessun beneficio dall’assunzione di vitamina E e, di fatto si e’ rivelata potenzialmente molto nociva”, ha detto il dottor Klein, un esperto di fama internazionale del cancro alla prostata che ha lavorato come coordinatore dello studio. Il cancro alla prostata e’ la piu’ comune forma di cancro negli uomini, dopo i tumori della pelle.

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Un intervento contro l’incontinenza migliora la sessualità

Un intervento contro l’incontinenza da urgenza, la neuromodulazione sacrale, puo’ avere effetti positivi sulla sessualita’ femminile. E’ appena rientrato da una conferenza in Cina l’urologo altoatesino Diego Signorello, che alla Lanzhou University ha presentato alcuni aspetti di un suo studio a tale riguardo, pubblicato recentemente dalla prestigiosa rivista americana ”The Journal of Sexual Medicine”. Signorello prossimamente sara’ anche negli Usa, a Omaha nel Nebraska e a Las Vegas, invitato per delle conferenze sul tema. C’e’ infatti grande interesse nel mondo scientifico per l’urologia funzionale, ovvero lo studio e la cura dei disturbi legati alla fase di riempimento e svuotamento della vescica che hanno un grande impatto negativo sulla qualita’ di vita e di conseguenza anche sulla sessualita’. ”Da tempo mi occupo anche di questo aspetto dell’urologia e ho da poco concluso una ricerca durata circa tre anni”, spiega Signorello, dirigente urologo dell’ospedale di Bressanone. ”Lo studio – aggiunge – ha evidenziato un collegamento fra il miglioramento dei sintomi urologici, quali l’urgenza minzionale e l’incontinenza da urgenza, e il miglioramento della sessualita’ femminile dopo intervento di neuromodulazione sacrale”. Questa tecnica, minimamente invasiva, consente la stimolazione continua di radici nervose preposte al controllo della funzione vescicale. Le cause degli effetti positivi di questa terapia sulla sessualita’ potrebbero derivare dal miglioramento della qualita’ della vita, ma non si esclude un effetto diretto della neuromodulazione sui nervi che controllano la sessualita’. ”Sono comunque necessari ulteriori studi con un maggiore numero di pazienti per arrivare a conclusioni piu’ approfondite”, ha detto Signorello.

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Screening del tumore alla prostata. pubblicati i risultati su The New England Journal Of Medicine

26 Gen 2012 Oncologia

Nel 2011 il cancro alla prostata si è rivelato il tumore più frequentemente diagnosticato, con circa 240.000 casi èla seconda causa di morte. Dopo un picco nei primi anni 1990, nel 2007 l’incidenza
del cancro alla prostata sembrava diminuita a 165,8 casi per 100.000 uomini e il tasso di mortalità
a 23,5 decessi per 100.000. Tra il 1999 e il 2006, circa il 80% delle diagnosi riguardavano il tumore della prostata. Uno studio pubblicato su “The New  England Journal Of Medicine” ha riconosciuto tra i fattori di rischio più rilevanti: l’età avanzata e una positiva storia familiare, inoltre lo studio ha rilevato che tale forma tumorale è più comune  nella popolazione di colore. L’età media in cui viene fatta la prima diagnosi è intorno ai 67 anni, a 81 anni, invece, insorge  in media la morte tra i pazienti. Tra i dati riportati dallo studio Hoffman nel suo lavoro di screening  evidenzia che il rischio di cancro alla prostata è due volte superiore tra coloro che hanno un parente di primo grado in cui è stato diagnosticato un tumore prostatico. Da recenti studi di autopsie si evince che il 30% degli uomini di età superiore ai 50 anni e il 70% di quelli con più di 70 anni hanno un cancro prostatico non ancora diagnosticato. Il rischio di morte varia da circa l’8% tra gli uomini con tumori ben differenziati al 26% tra quelli con tumori scarsamente differenziati. Negli Stati Uniti la popolazione di colore manifesta un tasso di incidenza più alto e si riscontra una maggiore probabilità di effettuare una diagnosi di cancro alla prostata in fase avanzata rispetto agli uomini di altra etnia. Circa il 90% di questi tumori vengono rilevati mediante attenti screening e si riscontra che dopo l’introduzione dell’ antigene prostatico specifico (PSA), la qualità e l’affidabilità di questi test è cresciuta esponenzialmente.

Bibliografia: Richard M. Hoffman, M.D., M.P.H. Screening for Prostate Cancer. N Engl J Med 2011; 365:2013-2019November 24, 2011

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I composti fitoattivi possono ridurre la mortalità per carcinoma prostatico

Esiste una correlazione diretta tra fattori di rischio dietetici e  l’insorgenza di un carcinoma prostatico. I risultati sono stati inseriti in una importante revisione della letteratura scientifica, nella quale si legge che  i fattori di rischio dietetici sono associati al 35% di mortalità per cancro e al 10-20% di mortalità per il carcinoma prostatico. Numerosi elementi dietetici, presenti soprattutto nella dieta mediterranea, mostrano un effetto protettivo a livello della ghiandola prostatica e sono in grado di contrastare lo sviluppo di un cancro prostatico. E’ probabile che in parte il ruolo protettivo sia da attribuire alla presenza di composti fitoattivi che hanno importanti proprietà antitumorali anche e soprattutto a livello prostatitco.

Bibliografia: Ferrís-Tortajada J. et al. Dietetic FactorsAssociated With Prostate Cancer. Protective Effects of Mediterranean Diet. Actas Urol Esp.2011 Sep 27.

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La deprivazione androgenica per il trattamento del cancro alla prostata non aumenta il rischio di morte indotta da problemi cardiovascolari

Pubblicata su JAMA una metanalisi per valutare l’utilizzo terapeutico della terapia da deprivazione androgenica (TDA) per il trattamento del cancro alla prostata, i risultati dicono che non aumenta il rischio di morte indotta da problemi cardiovascolari.
L’ipotesi che questa terapia per il cancro prostatico aumentasse la mortalità dovuta a patologie cardiache aveva richiesto un avviso di sicurezza da parte della FDA. Tuttavia le conclusioni dello studio  condotto da Paul L. Nguyen pongono una nuova base per future osservazioni.

L’obiettivo della sperimentazione è stato la valutazione dell’eventuale collegamento tra la TDA e la mortalità per cause cardiovascolari nonché la mortalità per la malattia oncologica in atto. Sono stati selezionati 8 trials randomizzati che hanno arruolato  4141 pazienti con cancro prostatico non metastatico e prognosi sfavorevole.
Tra i 2200 pazienti trattati con TDA, 255 sono stati i decessi per problemi cardiovascolari, corrispondenti a un’incidenza dell’11%; nel  gruppo di controllo, composto da 1941 pazienti, i casi di decessi  causati da eventi cardiovascolari sono stati 252 con un’ incidenza del 11,2%. Tra i pazienti trattati per un breve periodo i decessi per problemi cardiovascolari sono stati del 10,5% per pazienti tratti con TDA contro il 10,3 % dei controlli. Per i trattamenti di lungo periodo si ha la stessa incidenza di morti cardiovascolari (11,5 %) sia nei trattati che nei controlli.
I casi di decessi specificamente legati al cancro prostatico, sono legati alla patologia con percentuale maggiore nei pazienti del gruppo di controllo rispetto ai trattati con TDA, rispettivamente con un’ incidenza del 22,1% contro il 13,5% del gruppo in trattamento attivo con TDA , con una riduzione del rischio di morte del 31%. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri casi di decesso non assimilabili a problemi cardiovascolari o legati alla malattia.

Bibliografia: Paul L. Nguyen. Association of Androgen Deprivation Therapy With Cardiovascular Death in Patients With Prostate Cancer: A Meta-analysis of Randomized Trials JAMA. 2011;306(21):2359-2366.doi:10.1001/jama.2011.1745

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Acido folico riduce difetti da diabete materno

Nelle madri diabetiche, la carenza di uso periconcezionale di vitamine o integratori alimentari contenenti acido folico può associarsi a un eccesso di rischio per difetti alla nascita dovuti al diabete. È giunto a questa conclusione il National birth defects prevention study, uno studio multicentrico di popolazione caso-controllo sui difetti congeniti che ha interessato 14.721 casi e 5.437 controlli tra il 1997 e il 2004. I ricercatori, coordinati da Adolfo Correa dei Centers for disease control and prevention di Atlanta, hanno suddiviso i casi in 18 tipi di difetti cardiaci e in 26 difetti congeniti non cardiaci. Quindi hanno calcolato gli odds ratio per gli effetti indipendenti e congiunti del diabete preesistente e della mancata assunzione di supplementi di acido folico. I pattern di odds ratio rilevati sono apparsi altamente suggestivi di un rischio aumentato di difetti associati al diabete in assenza piuttosto che in presenza di una supplementazione in acido folico. L’effetto di protezione del feto dal diabete materno esercitato dall’acido folico, anche se non spiegato, non è casuale, e non è osservato con altri integratori. Quanto ai meccanismi attraverso i quali il diabete della madre provoca difetti congeniti, si pensa che i livelli anormali di glucosio possano alterare  l’espressione di geni regolatotri dell’embrione, portando a modificazioni cellulari apoptosiche embriotossiche.

Am J Obstet Gynecol, 2011 Dec 29.

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I fattori di sopravvivenza nella malattia di Parkinson

22 Gen 2012 Neurologia

La demenza ha un’alta prevalenza nei pazienti affetti da malattia di Parkinson (Pd) ed è associata a un incremento significativo della mortalità. È una delle conferme derivate da un ampio studio retrospettivo – condotto da Allison W. Willis e collaboratori della Washington university school of medicine, St Louis (Usa) – in cui sono stati coinvolti 138.000 pazienti con l’obiettivo di indagare le variabili cliniche e demografiche in grado di influenzarne la sopravvivenza. Si è analizzata la storia clinica dei partecipanti nel periodo 2002-2008, per determinare come il rischio di decesso fosse associato a tre gruppi di fattori: il primo comprendente origine etnica, genere ed età alla diagnosi; il secondo costituito da variabili ambientali e geografiche, e l’ultimo dalle condizioni cliniche dei pazienti. Tra i pazienti studiati, il 35% ha vissuto per più dei sei anni del periodo dello studio. Rispetto agli uomini di razza bianca, hanno evidenziato un rischio di decesso inferiore i pazienti di sesso femminile (Hr: 0,74), gli ispanici (Hr: 0,72) e gli asiatici (Hr: 0,86). Rilevante è stata la demenza, associata a un rischio di decesso più alto e diagnosticata nel 69,6% dei casi, con percentuali superiori nei pazienti afro-americani (78,2%) e nelle donne (71,5%). Il Pd ha presentato una mortalità superiore a quella di altre frequenti patologie causa di pericolo di vita. Inoltre, i soggetti con Pd in fase terminale sono risultati spesso ospedalizzati per patologie cardiovascolari (18,5%) o infezioni (20,9%), raramente per Pd (1%). I pazienti con Pd residenti in zone urbane e industriali hanno mostrato un rischio di decesso leggermente superiore alla media (Hr: 1,19).

Arch Neurol, 2012 Jan 2. [Epub ahead of print]

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Caso clinico: edema caviglia destra di incerta natura

Il nostro lettore Claudio Lolli, specialista in endocrinologia e malattie del ricambio e in cardiologia, porta all’attenzione dei colleghi medici un caso clinico in attesa di soluzione. La paziente in questione, donna 45enne con un’anamnesi remota di colecistite acuta nel 1992, di polmonite nel 1994 e artralgie diffuse nel 2004, ha avuto una diagnosi di sospetta algodistrofia alla caviglia. Gli esami, rx caviglia, rm caviglia e ginocchio, rm lombosacrale, ndr eco doppler arto inferiore, ndr emocromo,ves, pcr, risultano normali, ma la paziente presenta questo disturbo dal mese di agosto, è costretta a casa perché non può lavorare e mostra segni di insofferenza per il suo stato. E’ stato consultato un reumatologo ,che ha escluso patologie reumatiche. In attesa di consultare un internista, la paziente ha provato un ciclo con bisfosfonati senza ottenere benefici

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Un nuovo score per predire il rischio di emorragie associate al warfarin: lo studio ATRIA

Gli anticoagulanti orali come il warfarin (W) possono ridurre in maniera sostanziale le complicanze tromboemboliche della fibrillazione atriale (FA) ma sono di difficile gestione soprattutto per il rischio emorragico che comportano. Sono stati elaborati vari sistemi per stratificare questo rischio nei pazienti in trattamento, e proprio confrontandosi con 6 di questi sistemi pubblicati in precedenza Fang e coll. hanno pensato di elaborarne uno semplificato, da applicare ai singoli pazienti: è lo score ATRIA (Anticoagulation and Risk Factors in Atrial Fibrillation). Nella coorte dello studio ATRIA vi erano 9.186 soggetti (32.888 anni/persona) esposti al trattamento con warfarin (durata mediana del trattamento con warfarin di 3,5 anni [range interquartile 1.2 – 6.0 anni]). Si sono analizzati i loro dati dal database clinico e sono stati convalidati gli eventi emorragici utilizzando le cartelle cliniche. Su 461 eventi emorragici maggiori (1.4% all’anno) verificatisi, cinque variabili indipendenti sono state incluse nel modello finale e valutate in base ai coefficienti di regressione (vedi figura)

  • anemia 3 punti
  • insufficienza renale severa (velocità di filtrazione glomerulare <30 ml/min o dialisi) 3 punti
  • età > 75 anni 2 punti
  • precedente sanguinamento 1 punto
  • ipertensione arteriosa 1 punto.

Suddividendo lo score di rischio in tre categorie, i tassi di emorragie maggiori erano dello 0.8% nei pazienti a basso rischio (0-3 punti), 2.6% in quelli a rischio intermedio (4 punti) e 5.8% i quelli ad alto rischio (5-10 punti). Il c-index per lo score di rischio continuo era di 0.74 e 0.69 per le tre categorie, maggiore che negli altri sistemi di predizione del rischio. Vi è stato un netto miglioramento nella riclassificazione del rischio mediante questo sistema se confrontato con quello degli altri 6 precedenti (dal 27% al 56%). In conclusione, un semplice sistema di predizione del rischio a 5 variabili si è dimostrato efficace nel quantificare il rischio di emorragie associate al W in un’ampia coorte di pazienti con fibrillazione atriale. 

Fang M et al. J Am Coll Cardiol 2011; 58: 395-401

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Satavaptan nella cirrosi epatica con ascite: solo una speranza, ma più fondata

Da anni si attende la possibilità di impiego terapeutico dei vaptani, farmaci antagonisti dei recettori della vasopressina (ADH). Nel 2007 i risultati favorevoli di 2 studi in pazienti euvolemici con SIADH e di 2 studi in pazienti ipervolemici con cirrosi epatica avevano indotto un’azienda farmaceutica multinazionale a richiedere all’EMEA l’autorizzazione all’immissione in commercio del satavaptan (antagonista selettivo dei recettori V2 dei dotti collettori renali) per la terapia dell’iponatriemia diluizionale euvolemica e ipervolemica. Nel maggio 2008, per le perplessità sul rapporto sicurezza/efficacia ed i quesiti formulati dal CHMP, l’azienda ha ritirato la sua richiesta. Sono perciò da considerare interessanti i risultati, pubblicati sul Journal of Hepatology, di un RCT in doppio cieco multicentrico internazionale sugli effetti del satavaptan sulla ricorrenza dell’ascite dopo paracentesi nella cirrosi. È noto che il trattamento dell’ascite “difficile” o refrattaria impone spesso il ricorso a ripetute e ampie paracentesi con rilevanti disagi per il paziente, elevati costi e non trascurabile incidenza di effetti indesiderati. Lo studio è stato condotto su 151 pazienti con cirrosi epatica, ascite ricorrente da più di un anno, iponatriemia o normonatriemia, funzione renale normale o lievemente alterata. I pazienti sono stati randomizzati in 4 gruppi da trattare – oltre che con 100 mg di spironolattone – con satavaptan per os a dosi singole/die di 5 mg, 12.5 mg e 25 mg o con placebo. Il giorno prima dell’inizio del trattamento a tutti i pazienti sono state eseguite una paracentesi ≥ 4 litri e un’infusione di 6-8 g di albumina/l di liquido rimosso. Il periodo di trattamento programmato era di 12 settimane, con adeguato controllo di elettroliti sierici e funzione renale, osmolarità sierica ed urinaria, volume urinario. I decessi (12) e i drop-out (57), anche quelli dovuti a mancanza di risultati e ad eventi avversi, non sono stati sensibilmente differenti tra i 3 gruppi e il gruppo placebo e sono stati provocati da varie cause, talora non correlate alla malattia epatica e alla terapia con satavaptan. L’analisi dei risultati relativi agli obiettivi primari dello studio ha documentato che, rispetto al gruppo placebo, in tutti i 3 gruppi trattati vi è stato un aumento dell’intervallo di tempo atteso per la successiva paracentesi e una riduzione dell’incremento medio settimanale del versamento ascitico, senza però raggiungere una significatività statistica. Significativa è stata invece la riduzione della frequenza delle paracentesi nell’arco delle 12 settimane. Nella sottopopolazione con ascite refrattaria ha dato differenze significative l’impiego del satavaptan solo alle posologie più basse (5 e12.5 mg). Gli eventi avversi maggiori, in particolare le eventuali alterazioni della funzione renale, hanno avuto una frequenza simile in tutti i gruppi. Gli autori hanno concluso che nei cirrotici con ascite il satavaptan, a dosi comprese tra 5 e 25 mg ed associato a 100 mg di spironolattone, ha la potenziale capacità di ridurre la ricorrenza dell’ascite dopo una paracentesi di ampio volume. Nello stesso numero del Journal of Hepatology è pubblicato un editoriale che rivede sinteticamente le possibilità terapeutiche dell’ascite refrattaria e, alla luce dei risultati di questo studio, gli autori concludono che l’efficacia degli antagonisti dei recettori V2 appare modesta, pur ritenendo che il satavaptan possa rappresentare un farmaco utile per la correzione dell’iponatriemia. Necessita invece di ulteriore dimostrazione, mediante RCTs, l’ipotesi che il farmaco, in associazione con i diuretici, possa avere un ruolo nel trattamento dell’ascite ricorrente o refrattaria. In particolare vanno chiariti i seguenti aspetti: 1) i possibili risultati dell’associazione con dosi più elevate di antialdosteronico o con la combinazione dell’antialdosteronico e la furosemide, provvedimento terapeutico molto frequente nei cirrotici con ascite grave (ma non refrattaria); 2) i possibili risultati con posologie < 5 mg che riducono il rischio degli effetti collaterali, sembrando l’azione del satavaptan non dose-dipendente; 3) l’influenza che ha potuto avere sui risultati dello studio l’alto numero dei drop out; 4) i risultati ottenibili con l’impiego del satavaptan per un più lungo periodo di tempo.

Doc. Ref. EMEA/CHMP/277714/2008
Wong F et al. J Hepatol 2010; 53: 283-90
Salerno F et al. J Hepatol 2010; 53: 225-7

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