Radioterapia post-chirurgia conservativa del seno

2 Gen 2012 Oncologia

Dopo chirurgia conservativa del seno, la radioterapia dimezza il tasso di recidiva della malattia e riduce di circa un sesto i decessi da cancro mammario. Questi benefici possono variare poco in proporzione tra differenti gruppi di pazienti, ma i benefici assoluti possono cambiare sostanzialmente in base alle caratteristiche della singola donna ed essere predetti in fase di decisione terapeutica. Sono le conclusioni di una metanalisi condotta dall’Early Breast Cancer Trialists’ Collaborative Group (Ebctcg) – sostenuto dai britannici Cancer Research e Medical Research Council – sui dati di 10.801 donne, ricavati da 17 trial randomizzati riguardanti il confronto radioterapia vs non radioterapia dopo chirurgia conservativa. La radioterapia nel complesso ha ridotto il rischio a 10 anni di qualsiasi tipo di recidiva (per esempio, locoregionale o a distanza) dal 35,0% al 19,3% e ha diminuito il rischio di morte da ca mammario a 15 anni da 25,2% a 21,4%. In 7.287 donne con malattia linfonodo-negativa confermata istologicamente (pN0) la radioterapia ha ridotto questi rischi da 31,0% a 15,6% e da 20,5% a 17,2%, rispettivamente. In questo gruppo pN0 la riduzione assoluta di recidive variava a seconda di età, grado del tumore, stato dei recettori per gli estrogeni, uso di tamoxifene, estensione della chirurgia; tali caratteristiche sono state usate per predire grandi (=/>20%), intermedie (10%-19%), o basse (<10%) riduzioni assolute di rischio di recidiva a 10 anni. Le riduzioni assolute di morte da cancro mammario a 15 anni in queste 3 categorie predittive sono state 7,8%, 1,1% e 0,1%, rispettivamente. Su 1.050 donne con malattia linfonodo-positiva (pN+) confermata istologicamente, la radioterapia ha ridotto il rischio di recidiva a 10 anni da 63,7% a 42,5% e quello di decesso da ca mammario da 51,3% a 42,8%. Globalmente, si è evitato un decesso entro i 15 anni per ogni 4 recidive evitate entro i 10 anni, e la riduzione di mortalità non si è allontanata in modo sostanziale da questa relazione generale in nessuna delle 3 categorie predittive per malattia pN0 e pN+.

Lancet, 2011; 378(9804):1707-16

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Aborti spontanei ricorrenti, in causa autoanticorpi tiroidei

Gli autoanticorpi tiroidei (Ata), e in particolare quelli antitireoglobulina (Tg-Ab), sono associati ad aborto spontaneo ricorrente e possono essere espressione di una più generale anomalia del sistema immunitario materno che porta alla perdita del feto, ovvero potrebbero svolgere un ruolo nell’aborto ricorrente in modo indipendente dallo stato ormonale tiroideo. Sono i dati che emergono da un studio caso-controllo – condotto su 160 donne con pregressi aborti spontanei e 100 donne sane – da Carlo Ticconi e collaboratori dell’Università Tor Vergata di Roma, inseme a colleghi dell’Università Cattolica del S. Cuore di Roma. In tutte le partecipanti è stata valutata, sia mediante chemiluminescenza sia mediante radioimmunometria, la presenza di Ata, e in particolare dei Tg-Ab, degli autoanticorpi diretti contro la perossidasi tiroidea (Tpo-Ab) e di recettori Tsh (Tshr-Ab). Si sono riscontrati autoanticorpi tiroidei in 46 donne (28,75%) con aborti ricorrenti e in 13 donne (13%) del gruppo controllo. Le frequenze per Tg-Ab e Tpo-Ab erano maggiori nel gruppo aborto ricorrente rispetto alle donne di controllo. Tra le donne del gruppo aborto ricorrente, il 91,3% di quelle  positive agli Ata lo erano anche per altri autoanticorpi. La maggior parte delle partecipanti allo studio, comunque, era eutiroidea. 
  
Am J Reprod Immunol, 2011; 66(6):452-9

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Ccsvi e sclerosi multipla: il rapporto rimane ancora da provare

Continua il dibattito sulla correlazione tra insufficienza venosa cerebrospinale cronica (Ccsvi) e sclerosi multipla. Una metanalisi di 8 studi conferma un’associazione statisticamente significativa tra le due condizioni ma, soprattutto, mostra una forte variabilità tra i risultati conseguiti che non consente di trarre conclusioni definitive. Lo studio, condotto da Andreas Laupacis del Keenan research centre di Toronto (Canada) e colleghi, ha preso in considerazione i trial che prevedessero una diagnosi ecografica dell’insufficienza cerebrospinale venosa cronica e che avessero comparato la prevalenza del disturbo in pazienti con sclerosi multipla e in pazienti sani o che fossero affetti da altre patologie. In generale, la Ccsvi è risultata più frequente (odds ratio: 13,5) nei malati di sclerosi multipla rispetto ai controlli sani, ma è stata riscontrata anche un’ampia e ingiustificata variabilità nei risultati dei trial considerati (intervallo di confidenza al 95% compreso tra 2,6 e 71,4). Ancora più ampia la forbice quando si è comparata la prevalenza di Ccsvi in soggetti con sclerosi multipla con quella in pazienti affetti da altre patologie: in tal caso a un odds ratio di 32,5 si affianca un intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0,6 e 1775,7.

CMAJ, 2011 Oct 3. [Epub ahead of print]

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Batteri della saliva per la diagnosi di patologie pancreatiche

C’è un’associazione tra la tipologia di microbiota che popola la saliva e la presenza di cancro del pancreas o di pancreatite cronica, secondo uno studio condotto da James J. Farrell e colleghi della School of medicine presso la university of California Los Angeles (Ucla). Il team ha rilevato l’aumento dei livelli di 31 specie o cluster batterici (e il decremento di altre 25 popolazioni batteriche) nei pazienti con cancro al pancreas rispetto al gruppo di controllo. Due batteri, in particolare, sono stati validati come indicatori del tumore della ghiandola (Neisseria elongata e Streptococcus mitis). L’utilizzo di un test che misuri i livelli di questi due batteri, secondo il team, consente di discernere i pazienti con cancro al pancreas da quelli sani con una sensibilità del 96,4% e una specificità dell’82,1%. La coesistenza di Granulicatella adiacens e Streptococcus mitis, invece, è caratteristica dei pazienti con pancreatite cronica. I numeri dello studio non consentono di trarre conclusioni definitive (sono stati arruolati 28 pazienti con cancro al pancreas, 27 con pancreatite cronica e 28 controlli), ma se i risultati fossero confermati in studi più ampi si disporrebbe di agevoli biomarker per queste patologie.

Gut, 2011 Oct 12. [Epub ahead of print]

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Viti riassorbibili prima scelta nelle fratture del calcagno

2 Gen 2012 Ortopedia

Nella stabilizzazione delle fratture del calcagno, le viti riassorbibili presentano pari efficacia e minori effetti collaterali rispetto alle placche metalliche. È quanto emerge da uno studio condotto da Zhang Jingwei, del Sesto ospedale di Ningbo nello Zhejiang (Cina), e colleghi. Il trial clinico randomizzato ha valutato l’esito degli interventi di stabilizzazione in pazienti con fratture intra-articolari del calcagno operati tra il 2007 e il 2009. In 52 pazienti sono state impiegate placche metalliche, mentre nei rimanenti 47 viti riassorbibili. A un anno dall’intervento, la funzionalità dell’articolazione è risultata perfettamente sovrapponibile nei due gruppi. Misurata con l’American orthopaedic foot and ankle society ankle-hindfoot score, una scala che combina le valutazioni del paziente con l’esame obiettivo del chirurgo, ha dato 71,6 per i pazienti che avevano subito l’impianto della placca, 72,3 per quelli in cui erano state impiegate le viti riassorbibili. Analoghi risultati sono stati ottenuti dalle misurazioni con il Foot function index (21,4 per il primo gruppo, 22,7 per il secondo) e con il calcaneal fracture scoring system (73,5 vs 75.1). Differenze significative sono state riscontrate invece nell’incidenza di effetti avversi. Nel primo gruppo si sono registrati sei casi di difficoltà nella cicatrizzazione della ferita, un’infezione profonda e quattro tendiniti. Nel secondo, soltanto un’infezione superficiale della ferita. Dati, che fanno concludere agli autori che le viti riassorbibili siano da preferire nella stabilizzazione delle fratture sia per la minore incidenza di effetti avversi, sia perché non necessitano di rimozione chirurgica.

J Trauma, 2011 Oct 13. [Epub ahead of print]

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Rischio Cv ridotto negli over70 con testosterone elevato

Negli uomini di età ≥70 anni, elevati livelli sierici di testosterone (correlati a ridotta adiposità e minore sviluppo di aterosclerosi) sono predittivi di un minore rischio di episodi cardiovascolari (Cv) a 5 anni. Lo rivela uno studio di Claes Ohlsson, dell’università di Göteborg (Svezia), e collaboratori, svolto su 2.416 soggetti di età compresa tra 69 e 81 anni. In ogni partecipante, oltre alla valutazione dei livelli di testosterone al basale mediante gascromatografia-spettrometria di massa, si sono misurati anche quelli di Shbg (sex hormone binding protein), glicoproteina di traporto degli ormoni sessuali già associata al rischio di diabete di tipo 2 ma poco studiata come fattore predittivo di rischio Cv. Nel corso di 5 anni sono avvenuti 485 episodi Cv. Sia il testosterone totale sia l’Shbg sono apparsi inversamente associati al rischio di tali eventi. Più in dettaglio, negli uomini con i valori più elevati dell’ormone (≥550 ng/dl) si è calcolato un rischio inferiore del 30% rispetto a chi ne mostrava livelli più contenuti nel siero. Questa associazione non si è modificata dopo aver apportato correzioni per i tradizionali fattori di rischio Cv e non è sostanzialmente cambiata nelle analisi che escludevano gli uomini con malattia Cv nota alla visita iniziale. Nei modelli che tenevano conto sia del testosterone sia dell’Shbg, solo il primo si è rivelato in grado di predire il rischio Cv.

J Am Coll Cardiol, 2011; 58(16):1674-81

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Contraccettivi ormonali, cresce rischio trasmissione Hiv

Le donne che assumono contraccettivi ormonali presentano un rischio quasi doppio di acquisire un’infezione da Hiv-1 e di trasmetterla al partner. È quanto emerge da uno studio prospettico – svolto per conto del Prevention Hsv/Hiv transmission study team da Jared M. Baeten, dell’università di Wahington a Seattle – nel quale sono state seguite 3.790 coppie discordanti in 7 Paesi africani. Dall’analisi è emerso che nelle 1.314 coppie nelle quali il partner sieronegativo era di sesso femminile, i tassi di infezione sono risultati essere di 6,61 per 100 persone ogni anno nel gruppo di donne che ricorreva ai contraccettivi ormonali e del 3,78 per 100 in quelle che non lo facevano. Nelle 2.476 coppie, in cui il partner sieronegativo era invece maschio, i tassi di trasmissione dalla donna all’uomo sono stati di 2,61 per 100 persone nel caso di donne che usavano il contraccettivo e di 1,51 per 100 nelle coppie in cui le donne non facevano uso dei farmaci. Per gli autori i dati sottolineano l’importanza del counselling sia sul potenziale rischio di un aumento di infezione e trasmissione per le donne che impiegano contraccettivi ormonali sia sull’efficacia della doppia protezione (preservativo e contraccezione ormonale).

Lancet Infect Dis, 2011 Oct 4. [Epub ahead of print]

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Ncslc in stadio precoce, sempre meglio la lobectomia

Vi sono evidenze (non conclusive ma suggestive) che la lobectomia, rispetto alla resezione parziale, si associ a una maggiore sopravvivenza a lungo termine nei casi di cancro polmonare in stadio precoce. Sembra dunque confermarsi la prima tecnica come gold standard rispetto alla seconda, comunemente praticata. In ogni caso, la scelta del tipo di operazione è determinata da fattori clinici, chirurgici ed socioeconomici. Sono le conclusioni di uno studio – condotto da Sarah E. Billmeier, del Brigham and women’s hospital di Boston, e collaboratori – nel quale sono stati esaminati i fattori dipendenti dal paziente e dal chirurgo associati alla scelta tra resezione lobare o sublobare, e i relativi esiti a lungo termine. I soggetti arruolati nello studio erano pazienti con nuova diagnosi di Nsclc di stadio I o II ricevuta tra il 2003 e il 2005, seguiti per un tempo mediano di 55 mesi, fino al 2010. 155 partecipanti (23%) furono sottoposti a resezione parziale, 524 (77%) a lobectomia. Analizzando i fattori paziente-specifici, gli elementi risultati maggiormente associati alla scelta della resezione limitata sono risultati: i tumori di minori dimensioni, la copertura dei costi dai sistemi Medicare o Medicaid, l’assenza di un’assicurazione oppure la copertura assicurativa con una compagnia sconosciuta, una malattia polmonare di maggiore gravità e una storia di ictus. Secondo l’analisi delle caratteristiche del chirurgo, i fattori associati a una maggiore probabilità di resezione parziale sono stati: specializzazione in chirurgia toracica, retribuzione non a prestazione (non-fee-for-service), designazione di un centro del National cancer institute. La mortalità non aggiustata a 30 giorni è apparsa superiore con la resezione parziale rispetto alla lobectomia (7,1% vs 1,9%), mentre le complicanze postoperatorie non sono risultate diverse con l’una o l’altra tecnica. Nel corso dello studio si è reso evidente un trend statisticamente non significativo verso una migliore sopravvivenza a lungo termine dopo lobectomia, rispetto alla resezione parziale.

J Natl Cancer Inst, 2011 Sep 29. [Epub ahead of print]

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Anziani, rischio declino cognitivo e depressione da Fa

30 Dic 2011 Geriatria

La fibrillazione atriale (Fa) non soltanto è associata al rischio di sviluppare declino cognitivo nell’anziano, ma può anche essere considerata come un fattore di rischio per demenza e depressione, anche in assenza di storia medica di pregressi ictus. Lo rivela uno studio condotto da un’équipe del policlinico Umberto I di Roma (università La Sapienza) coordinata da Vincenzo Marigliano. Nella ricerca sono stati coinvolti 26 pazienti con diagnosi di fibrillazione atriale (parossistica, persistente, permanente) e 31 soggetti in ritmo sinusale, arruolati come controlli. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti al Multidimensional geriatric assessment allo scopo di valutarne le funzioni cognitive e comportamentali. L’analisi statistica dei dati ha dimostrato una maggiore frequenza di decadimento cognitivo latente nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, anche in assenza di disturbi della memoria. In particolare i pazienti con fibrillazione atriale ottenevano, alla Mini mental state examination (Mmse), punteggi significativamente inferiori a quelli dei controlli in ritmo sinusale e, sulla Geriatric depression scale (Gds), score superiori a quelli dei soggetti senza fibrillazione atriale, evidenziando inoltre un maggiore rischio di depressione. Questi risultati, dunque, dimostrano che nell’anziano esiste un’associazione statisticamente significativa tra fibrillazione atriale, depressione e decadimento cognitivo in fase precoce.

Arch Gerontol Geriatr, 2011 Sep 20. [Epub ahead of print]

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