L’impiego di integratori a base di sostanze antiossidanti in gravidanza dovrebbe essere evitato, in quanto pericoloso per il feto. Lo ha affermato a Palermo Giulia Dante, del dipartimento materno-infantile dell’Università di Modena e Reggio-Emilia, nel corso dei lavori dell’87° Congresso nazionale Sigo. «La gravidanza è associata a un aumento della suscettibilità allo stress ossidativo, legato a un disequilibrio tra radicali liberi e scavengers, correlato a sua volta a complicanze quali preeclampsia, minaccia di parto pretermine e ritardo di crescita intrauterino» premette. «Non vi sono però sufficienti evidenze che supportino l’utilità dell’assunzione di antiossidanti, quali le vitamine C ed E, durante la gestazione. Anzi, vari studi randomizzati e controllati, basati sul loro impiego ad alte dosi, ne dimostrano l’assoluta inefficacia preventiva rispetto alla preeclampsia. Un altro studio ha evidenziato la nascita di una maggiore percentuale di feti con ritardo di crescita intrauterino nelle madri che avevano assunto antiossidanti ad alte dosi rispetto a un gruppo placebo. Inoltre un recente trial è stato sospeso a un quarto del numero programmato di arruolamenti in seguito all’aumento dei casi di rottura pretermine delle membrane e di mortalità perinatale nel gruppo trattato con vitamine antiossidanti rispetto al placebo». Tutti questi dati sono stati confermati da una recente review pubblicata sull’American journal of obstetrics & gynecology, dove si segnala anche un accresciuto rischio di ipertensione gestazionale. Recentemente l’interesse si è rivolto su altre due sostanze: il licopene e il coenzima Q10. «I dati preliminari, contenuti in 3 studi, sono contraddittori, e ottenuti in popolazioni molto particolari, come le gravide adolescenti» prosegue Dante. «In ogni caso, sono segnalati importanti effetti avversi associati al licopene, quali l’aumento del rischio di parto pretermine e di basso peso alla nascita (<2.500 g)».
87° Congresso Nazionale SIGO, Palermo 25-28 settembre 2011
La presenza di frequenti vampate in menopausa si associa al rilievo di elevati livelli di proconvertina (fattore VIIc) e di antigeni dell’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA-ag). Si ritiene pertanto che le vie dell’emostasi possano aiutare a comprendere meglio la fisiologia degli “hot flashes” e costituiscano un ponte tra questi ultimi e il rischio cardiovascolare. Lo sostengono Rebecca C. Thurston, dell’Università di Pittsburgh, e collaboratori, in uno studio longitudinale di coorte effettuato su 3.199 donne partecipanti allo Study of women’s health across the nation, di età compresa tra 42 e 52 anni al reclutamento. Obiettivo di questa ricerca: analizzare le associazioni tra vampate e/o sudori notturni, da un lato, e biomarker infiammatori e della coagulazione, dall’altro, tenendo in considerazione i fattori di rischio cardiovascolare e le concentrazioni sieriche di estradiolo. Ogni 12 mesi, per 8 anni, le donne sono state sottoposte a interviste dettagliate sulla sintomatologia (assenza di disturbi vasomotori, presenza di vampate variabile da 1 a 5 giorni oppure da 6 giorni in su nelle precedenti 2 settimane), rilevazioni fisiche (peso, altezza, pressione arteriosa) e prelievi ematici (sono stati dosati anche: proteina C-reattiva, inibitore-1 dell’attivatore del plasminogeno, fibrinogeno e glucosio). Rispetto a chi dichiarava assenza di vampate, coloro che lamentavano sintomi vasomotori sono risultate associate ai maggiori livelli sia di tPA-ag (variazione del 3,88% in caso di 1-5 giorni su 14 interessati da hot flashes, e di 4,11% nei casi di disturbi più frequenti) sia di fattore VIIc (2,13% con 6 o più giorni interessati in 2 settimane). Questi risultati non sono stati alterati dall’introduzione di correzioni per il dosaggio di estradiolo.
Aumenta il numero delle donne che riesce a sconfiggere il tumore al seno: a 5 anni dalla diagnosi sopravvive l’85% delle pazienti, anche se nelle regioni del Sud Italia la mortalità resta ancora alta. La differenza si riflette anche nel tasso di adesione allo screening mammografico che è molto basso: il 37,9% al Sud, a fronte dell’88,9% al Nord e del 76,6% al Centro. Sono questi alcuni dei dati raccolti dal progetto Impatto, promosso dall’Osservatorio Nazionale Screening e presentati al II meeting internazionale sui nuovi farmaci per questa patologia, organizzato dall’Istituto Nazionale dei Tumori Regina Elena di Roma. Nel quadro disegnato dagli esperti, risulta che nelle regioni settentrionali, nelle aree in cui esiste un programma di screening, circa il 50% dei tumori viene scoperto in fase precoce rispetto al 30% del meridione. «A partire dal 2007, tutte le regioni hanno avviato un progetto di screening mammografico» ha spiegato Francesco Cognetti, direttore di Oncologia medica A all’Ire «ma attualmente, l’estensione effettiva è solo del 69,2%, con grandi differenze tra le aree geografiche». Aumentare l’offerta attiva e migliorare l’informazione, sono le direttrici lungo le quali orientare l’azione dei prossimi anni, perché, dicono gli esperti, riuniti a Roma, il calo della mortalità è il frutto della convergenza di due fattori: l’aumento delle diagnosi precoci che individuano il tumore in una fase iniziale e la più ampia disponibilità di farmaci. Gli oncologi italiani hanno anche lanciato un allarme su alcuni casi, per ora, «confinati numericamente», in Italia di carenza dei farmaci oncologici ad alto e basso costo negli ospedali. «Abbiamo riscontrato alcuni scricchiolii» dice Cognetti «sulla disponibilità di farmaci, per il trattamento dei tumori ovarici, della mammella ed ematologici». Ma a preoccupare gli oncologi è anche la carenza di quelli che agli ospedali costano poco: «per oncologici a bassissimo costo e per farmaci usati in caso di trapianto in pazienti ematologici» specifica .
I Personal Computer (PC) e le cartelle cliniche elettroniche (EHR) dovrebbero consentire ai medici percorsi più facili e rapidi nei processi di diagnosi e cura. Nell’ambito dei sistemi informatici applicati alla medicina sempre di più vengono implementati dei Sistemi di Supporto alla Decisione Clinica (SSDC), che sono programmi per computer interattivi in grado di assistere direttamente i medici e altri operatori sanitari con compiti decisionali. Queste applicazioni rappresentano un potente strumento in grado di promuovere la medicina basata sull’evidenza e l’appropriatezza delle cure erogate, ma spesso l’analisi della realtà clinica si rivela molto lontana dalle premesse.
Alcuni spunti di riflessione sono riportati in un articolo apparso sul News England Journal of Medicine 1 in cui viene descritto il caso clinico di una donna di 51 anni con una sepsi da pneumococco complicata da una coagulazione intravascolare disseminata. Dieci anni prima, aveva subito la splenectomia, dopo un incidente automobilistico e non c’era alcuna prova che avesse ricevuto la vaccinazione pneumococcica dopo l’intervento chirurgico. La paziente, terminata la convalescenza, ha presentato una denuncia contro il suo medico di fiducia per malpractice .
Il caso in analisi presenta aspetti familiari e non controversi. La splenectomia chirurgica è spesso il risultato comune di un trauma e porta ad un’incidenza di sepsi variabile dal 0,9 al 4,4%. I soggetti splenectomizzati sono suscettibili di infezioni gravi da molti patogeni, tra cui il più comune è lo Streptococcus pneumoniae. La sepsi post-splenectomia ha un decorso progressivo e ingravescente, associato a coagulazione intravascolare disseminata, shock e spesso morte. Le regole di buona pratica clinica raccomandano nei soggetti splenectomizzati la somministrazione di due dosi di vaccino pneumococcico polisaccaridico purificato a 5 anni di distanza.
La EHR utilizzata dal medico della paziente disponeva di un promemoria in grado di raccomandare la vaccinazione ogni 5 anni nei soggetti splenectomizzati, ma nella cartella della paziente la splenectomia non era registrata tra i “problemi”. Questo non modificava comunque le scarse probabilità di essere vaccinata. Infatti i dati sulle EHR del sistema sanitario analizzato dagli autori era in linea con i dati disponibili in letteratura, che documentavano la vaccinazione antipneumococcica solo nel 60% dei pazienti splenectomizzati con “problema” registrato in cartella e il fallimento nel 40% dei casi dell’impatto del promemoria computerizzato. Un’ulteriore analisi del caso hanno rivelato che il medico della paziente aveva adottato la EHR un anno dopo il suo incidente automobilistico, per cui la splenectomia non avrebbe potuto essere incluso nella sua lista elettronica dei problemi. Questo ha indotto il team di controllo e verifica del caso alla analisi delle registrazioni ambulatoriali di più di 1,7 milioni di pazienti del sistema sanitario. Il termine “splenectomia” era evidenziabile in 7125 pazienti, ma non registrato come problema in 5028 pazienti (71%). Tra questi ultimi il tasso di vaccinazione pneumococcica era del 17%, rispetto al 54% tra i pazienti in cui la splenectomia era nella lista “problemi”. Quindi c’erano almeno due problemi che contribuivano a cure incomplete e interventi inappropriati: molti pazienti avevano registrata la splenectomia come problema, ma il promemoria appropriato non era stato seguito dai medici; in molti soggetti operati la splenectomia non era mai stata inserita in EHR tra i problemi.
Una soluzione potrebbe essere nell’inserimento del vaccino preoperatorio nei protocolli e nelle checklist integrate nei flussi di lavoro in modo che, quando i pazienti sono prenotati per la splenectomia elettiva, i medici possono richiedere il vaccino con due settimane di anticipo, ma comunque rimane aperto il problema di strategie post-operatorie più efficaci per chi non riesce a fare il vaccino. Un’altra possibilità potrebbe essere l’educazione e la formazione di chirurghi, ematologi, medici di famiglia e altri clinici circa l’importanza di mantenere aggiornate le liste dei problemi sulle EHR dei propri pazienti, aderendo alle raccomandazioni di vaccinazione. Infine gli autori ipotizzano la creazione di collegamenti tra le note operative dei chirurghi e le EHR dei medici di famiglia, che dovrebbero essere maggiormente attenti alle informazioni provenienti da altri operatori della rete assistenziale.
In conclusione dall’analisi del processo di cura di questo caso clinico è emerso che, sebbene la tecnologia informatica offra strumenti apparentemente semplici per risolvere problemi nell’erogazione delle cure e nel miglioramento della qualità e sicurezza dei pazienti, può essere sorprendentemente complesso riprogettare i sistemi e processi di cura, in particolare nelle loro componenti umane, per evitare gli errori più comuni. La creazione di metodi per identificare una popolazione di pazienti e fornire assistenza di alta qualità può migliorare migliorando la percezione nei medici del valore dei dati registrati nelle EHR dei propri pazienti, ma anche sviluppando sistemi di comunicazione e di trasmissione dei dati più efficaci nel mettere in condivisione tra i medici e tutti gli altri operatori sanitari le informazioni, i percorsi diagnostici e le raccomandazioni utili ad una migliore sicurezza e qualità delle cure.
Bibliografia
Gandhi TK, Zuccotti G, and Lee TH. Incomplete Care – On The Trail of Flaw in the System N Engl J Med 2011; 365:486-488
Il tasso di demineralizzazione del collo femorale negli uomini con diabete di tipo 1 è simile a quello delle donne in postmenopausa con diabete di tipo 2. Inoltre, i cambiamenti nei marker biochimici suggeriscono che, negli uomini con diabete di tipo 1, coesistono una scarsa capacità di formazione ossea con un processo di riassorbimento accelerato, oltre che una bassa biodisponibilità di ormoni sessuali. È quanto rivelato da uno studio condotto da Emma J. Hamilton dell’university of western Australia di Fremantle (Australia), e colleghi, che hanno esaminato per 5 anni gli effetti del diabete sulla struttura e sul metabolismo ossei in 26 individui con diabete di tipo 1 (età media 49 anni) e 27 con diabete di tipo 2 (età media 65 anni). Perfettamente sovrapponibile la riduzione di densità minerale ossea del collo femorale nei 17 maschi con diabete di tipo 1 e nelle 11 donne con diabete di tipo 2: nei primi è passata 0,804 a 0,769 g/cm2; nelle seconde da 0,779 a 0,742 g/cm2. Nessuna riduzione è stata registrata invece nelle donne con diabete di tipo 1 e negli uomini con diabete di tipo 2. I dati dello studio, secondo i ricercatori, potrebbero ritornare utili nella gestione clinica dei giovani adulti con diabete di tipo 1.
Il fatto Il direttore sanitario di una struttura privata, pur avendo svolto l’attività a titolo di collaborazione professionale, ha impugnato il licenziamento e ha chiesto l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con la condanna del datore di lavoro alle differenze retributive.
Il diritto Relativamente alla individuazione del rapporto di lavoro subordinato e alla distinzione di esso dal rapporto di lavoro autonomo, proprio con riferimento alla posizione del direttore sanitario di una clinica privata, è stato precisato che elemento caratterizzante è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, idonei anche a prevalere sull’eventuale volontà contraria manifestata dalla parti, ove incompatibili con l’assetto previsto dalle stesse.
Esito del giudizio Anche la Corte di Cassazione, come i precedenti giudici di merito, ha ritenuto rigettare il ricorso proposto dal direttore sanitario.
Un nuovo test, semplice ed effettuabile al letto del paziente, permette di controllare l’effettivo stato cognitivo e di consapevolezza di soggetti che, sotto il profilo comportamentale, sono apparentemente in coma. La sperimentazione, coordinata da Damian Cruse dell’università dell’Ontario occidentale di London (Canada), è avvenuta in Europa, presso le università di Liegi (Belgio) e Cambridge (UK). La condizione di stato vegetativo è caratterizzata da periodi in cui il paziente si sveglia ma sembra inconsapevole di sé e dell’ambiente circostante. Anche se alcuni studi condotti sfruttando la risonanza magnetica funzionale avevano evidenziato un certo grado di consapevolezza, problemi di costo e di accessibilità impediscono l’uso sistematico di questa metodica. La nuova tecnica supera queste difficoltà e prevede la misurazione diretta dell’attività della corteccia motoria attraverso l’elettroencefalografia, fornendo una misurazione oggettiva e affidabile. I ricercatori hanno utilizzato la metodica su 16 pazienti e ne hanno confrontato i risultati con 12 soggetti inseriti in un gruppo di controllo. Tre dei sedici pazienti con diagnosi di stato vegetativo hanno ripetutamente generato risposte appropriate ad alcuni comandi, registrate dall’Eeg ma non da comportamenti rilevabili esternamente. La capacità di rispondere agli stimoli non si è associata a fattori quali l’età, la durata o le cause dello stato vegetativo, ma indica un insospettabile grado di consapevolezza. Gli autori ne deducono che, «malgrado controlli clinici rigorosi, molti pazienti in stato vegetativo risultano diagnosticati in modo erroneo» e ritengono che un utilizzo estensivo della metodica proposta potrebbe riconoscere le funzioni cognitive che ancora sono attive in questi soggetti.
Il dolore toracico è comune nei bambini ma molto raramente ha una causa cardiaca. Tanto che una revisione di 10 anni di visite cardiologiche (quasi 18.000 anni-paziente) effettuate al Children’s Hospital di Boston da Susan F. Saleeb e collaboratori, evidenzia che non si è avuto alcun decesso a causa di una cardiopatia. I dati si riferiscono a 3.700 pazienti con dolore toracico (età media: 13,4 anni) visitati all’ospedale americano tra il gennaio del 2000 e il dicembre del 2009, con un follow-up di 4,4 anni, per un totale di 17.886 anni-paziente. Nel 33% dei casi (n=1.222) è occorso un dolore toracico da sforzo, con 15 episodi di sincope. È stata identificata un’eziologia cardiaca in 37 casi; nei rimanenti 3.663 pazienti (99%) il dolore toracico era di origine sconosciuta (n=1.928), muscoloscheletrica (n=1.345), polmonare (n=242), gastrointestinale (n=108), correlato all’ansia (n=34) o a farmaci (n=4). Sono state comunque documentate visite al dipartimento di medicina di emergenza per 670 pazienti (18%) e 263 soggetti (7%) hanno avuto visite di follow-up cardiologiche per dolore toracico.
Una quota elevata di pazienti europei affetti da sindrome metabolica e ad alto rischio cardiovascolare non raggiunge gli obiettivi dei trattamenti ipolipemizzanti. Esiste infatti un “gap” sostanziale tra le linee guida e la loro applicazione nella pratica clinica. Lo rivela un’analisi dello studio Eurika (European study on cardiovascular risk prevention and management in daily practice), condotto tra il 2009 e il 2010 in 12 nazioni su pazienti non ricoverati di età =/>50 anni, senza malattie cardiovascolari. L’équipe di José R. Banegas, dell’universidad Autónoma de Madrid (Spagna), ha valutato, tra i partecipanti all’Eurika, il raggiungimento degli obiettivi di trattamento lipidico secondo la definizione dell’American diabetes association e dell’American college of cardiology foundation (Ada/Accf). Tutti i soggetti considerati avevano una sindrome metabolica ed erano ad altissimo rischio (diabete più >1 fattori di rischio cardiovascolare maggiore oltre le anomalie lipidiche) o ad alto rischio (assenza di diabete ma >2 fattori addizionali di rischio cardiovascolare maggiore). Tra i 1.431 pazienti ad altissimo rischio, soltanto il 64,6% era in terapia con ipolipemizzanti. Di questi, solo il 13,4% raggiungeva tutti e tre i target terapeutici (Ldl <70 mg/dL, non-Hdl <100 mg/dL, e apolipoproteina B <80 mg/dL). Tra gli 832 soggetti ad alto rischio, il 38,7% era trattato con ipolipemizzanti e di questi solamente il 20,5% aveva Ldl <100 mg/dL, nonHdl <130 mg/dL e apolipoproteina B <90 mg/dL. Circa il 96% e il 94% dei pazienti, rispettivamente, ad altissimo e ad alto rischio aveva ricevuto almeno una volta una consulenza sullo stile di vita (riduzione del peso, attività fisica, dieta sana, cessazione del fumo). Ciononostante solo l’1,3% dei primi e il 4,9% dei secondi ha raggiunto i tre obiettivi terapeutici, evidenziando che il counselling sui comportamenti è scarsamente implementato.
Tra i pazienti infettati dall’Hiv la tubercolosi (Tb) rimane un’importante causa di morte. Una delle questioni aperte riguarda la tempistica ideale dell’inizio della terapia antiretrovirale in relazione all’inizio di quella antitubercolotica. Un vasto team internazionale, coordinato da François-Xavier Blanc dell’Harvard medical school di Boston e comprendente medici cambogiani, ha condotto uno studio prospettico, randomizzato e multicentrico per rilevare gli effetti di una somministrazione precoce di antiretrovirali sulla sopravvivenza di adulti sieropositivi con difese immunitarie già molto compromesse. Lo studio, denominato Camelia, è stato effettuato tra il 2006 e il 2009 in alcuni centri ospedalieri in Cambogia, su un totale di 661 pazienti adulti Hiv-positivi non trattati in precedenza con antiretrovirali, con CD4 < 200 per mm3 e con Tb di nuova diagnosi. Dopo l’inizio della terapia standard contro la Tb, i pazienti sono stati assegnati in modo randomizzato a due gruppi trattati con stavudina, lamivudina ed efavirenz. Il primo gruppo ha iniziato l’assunzione degli antiretrovirali dopo due settimane e l’altro dopo otto settimane. Al termine di un follow-up durato mediamente 25 mesi, si è verificato che la mortalità è stata inferiore nel gruppo trattato più precocemente, con 59 decessi su 332 pazienti (18%) contro i 90 decessi su 329 (27%) verificatisi nell’altro gruppo.