Integratori alimentari e mortalità nelle donne anziane

Negli Stati Uniti e in Europa l’assunzione di integratori alimentari è aumentata in modo significativo negli ultimi anni. Spesso l’obiettivo dei consumatori è la prevenzione di patologie croniche, tuttavia permangono numerose lacune sulle conseguenze a lungo termine di molte di queste sostanze. Uno studio su un campione molto ampio di pazienti è stato condotto da un gruppo di ricercatori coordinato da Jaakko Mursu dell’università della Finlandia orientale, a Kuopio. Nell’ambito dello Iowa women’s health study, iniziato nel 1986, i ricercatori hanno controllato la mortalità di 38.772 donne di età compresa tra i 55 e i 69 anni. L’assunzione di integratori alimentari è stata comunicata dalle stesse partecipanti all’inizio dello studio e poi ancora nel 1997 e nel 2004. Dopo 22 anni, alla fine del 2008, risultavano decedute 15.594 donne (il 40,2%). Un’analisi statistica effettuata attraverso un modello di regressione ha mostrato che l’assunzione di alcuni tipi di supplementi si è associata a una possibilità leggermente più alta di morire prima. Magnesio, zinco, acido folico, rame, ferro, vitamina B12 e integratori multivitaminici hanno evidenziato questo tipo di correlazione, mentre soltanto tra le partecipanti che hanno assunto supplementi di calcio la mortalità è stata inferiore rispetto a quella delle donne che non hanno fatto uso di alcun tipo di integratore. 

Arch Intern Med, 2011; 171(18):1625-33

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Fa, la funzione renale migliora dopo l’ablazione

I pazienti con fibrillazione atriale (Fa), spesso affetti anche da disfunzione renale di grado lieve o moderata, dopo risoluzione dell’aritmia mediante ablazione transcatetere con radiofrequenza mostrano un miglioramento della funzionalità renale (predittiva di morbilità e mortalità cardiovascolare) fino a un follow-up di 1 anno. La dimostrazione proviene da uno studio prospettico condotto da Yoshihide Takahashi, dell’ospedale Kyousai di Yokosuka (Giappone) e collaboratori, su 386 pazienti con fibrillazione atriale (parossistica in 135 casi, persistente in 106, persistente di lunga durata in 145) avviati ad ablazione transcatetere. In tutti i soggetti arruolati nel trial si è stimato il tasso di filtrazione glomerulare (eGfr) prima dell’intervento e 1 anno dopo l’ablazione. I valori basali di eGfr erano compresi tra 60 e 89 mL min-1 1,73 m-2 nel 66% dei pazienti, e fra 30 e 59 mL min-1 1,73 m-2 nel 26% dei casi. Al follow-up di 1 anno, in tutto 278 pazienti (72%) non erano più aritmici. In questi soggetti, l’eGfr era aumentato 3 mesi dopo l’ablazione e si era mantenuto elevato per un anno, mentre nei pazienti con recidive l’eGfr era diminuito nel corso dei 12 mesi. Qualunque fosse il valore basale di eGfr, le sue modificazioni in 1 anno dopo ablazione erano maggiori nei soggetti senza aritmia rispetto a quelli con recidive.

Circulation, 2011 Oct 31. [Epub ahead of print]

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Asa protegge dal carcinoma colorettale ereditario

L’assunzione di 600 mg/die di acido acetilsalicilico (Asa) per un periodo medio di 25 mesi ha determinato una sostanziale riduzione di incidenza di cancro dopo 55,7 mesi in soggetti portatori di mutazioni associate alla sindrome di Lynch, la principale forma di cancro colorettale ereditario. Il dato emerge dai risultati del trial internazionale in doppio cieco Capp2 – coordinato da John Burn, dell’istituto di Genetica medica dell’università di Newcastle (UK) – nel quale sono stati coinvolti 861 pazienti, assegnati in modo randomizzato a un trattamento con Asa o con placebo. A un follow-up medio di 55,7 mesi, 48 partecipanti avevano sviluppato 53 forme di cancro colorettale primario (18 in 427 pazienti assegnati al gruppo Asa, 30 in 434 inseriti nel gruppo placebo) e l’analisi intent-to-treat del tempo al primo cancro colorettale ha evidenziato un hazard ratio (Hr) di 0,63. Per i partecipanti che hanno completato i due anni di intervento (258 con Asa, 250 con placebo), l’analisi per-protocol ha portato l’Hr a un valore di 0,41. Nel corso del trial, non si sono avute differenze tra gruppi in relazione agli eventi avversi. Ulteriori studi – concludono gli autori – sono necessari per stabilire il dosaggio e la durata ottimali del trattamento con Asa. 

Lancet, 2011 Oct 27. [Epub ahead of print]

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Tumore polmonare, inefficace lo screening radiografico

7 Dic 2011 Oncologia

Tra i diversi tipi di tumori, quello al polmone rappresenta la principale causa di decessi nel mondo. Si è a lungo ipotizzato che uno screening regolare attraverso radiografia del torace potesse costituire un’efficace strategia di prevenzione. Ma un ampio studio condotto negli Stati Uniti indica che uno screening annuale non riduce il tasso di mortalità di questo tumore. Nell’ambito del trial Plco (Prostate, lung, colorectal and ovarian), sono stati sono stati inclusi 154.901 soggetti di età compresa tra i 55 e i 74 anni. La metà dei partecipanti è stata assegnata in modo randomizzato al gruppo sperimentale ed è stata sottoposta per quattro anni consecutivi a radiografia toracica in uno dei dieci centri ospedalieri statunitensi che hanno aderito alla ricerca. Gli individui inseriti nel gruppo di controllo hanno invece ricevuto le normali cure mediche. La sperimentazione è avvenuta tra il 1993 e il 2001, con un successivo follow-up durato tredici anni o comunque fino al 2009, da quando si è iniziata l’analisi dei dati raccolti. I risultati – comunicati dal board coordinato da Martin M. Oken dell’università del Minnesota, a Minneapolis – hanno evidenziato che l’incidenza cumulativa di cancro al polmone è stata di 20,1 su 10.000 per anno-persona nel gruppo sperimentale, con 1.213 decessi, contro il 19,2 e 1.230 decessi del gruppo di controllo. In sostanza non è stata osservata nessuna differenza significativa dal punto di vista statistico.

JAMA, 2011; 306(17):1865-73

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Metastasi di ca ovarico, il target è un carrier di acidi grassi

6 Dic 2011 Oncologia

Grande e piccolo omento, le due pliche formate dal peritoneo viscerale, sono caratterizzati da una presenza consistente di adipociti e sono spesso sede di metastasi dei tumori addominali, in particolare del carcinoma ovarico. I dati epidemiologici lo indicano come il sesto più frequente cancro femminile a livello mondiale, ma la sua mortalità è elevata. Uno studio condotto da un team dell’università di Chicago, guidato da Kristin M. Nieman, indica che gli adipociti forniscono acidi grassi che portano a una rapida crescita tumorale. Gli autori hanno mostrato che gli adipociti promuovono homing, migrazione e invasione delle cellule del tumore ovarico e che le adipochine, in particolare l’interleuchina-8 (Il-8), mediano queste attività. La co-coltura di adipociti e di cellule tumorali ha portato al trasferimento diretto di lipidi verso queste ultime, promuovendo – in vitro e in vivo – la crescita del tumore. Inoltre si sono osservati fenomeni di lipolisi negli adipociti e di â-ossidazione nelle cellule cancerose, che hanno indotto i ricercatori a ritenere che gli adipociti forniscano energia per la crescita tumorale. I ricercatori hanno infine identificato il coinvolgimento in questo processo di una proteina che lega gli acidi grassi, la Fabp4, che si candida così a possibile bersaglio terapeutico. L’inibizione di questa proteina ha comportato infatti una riduzione del trasferimento di nutrienti verso le cellule neoplastiche.

Nat Med, 2011 Oct 30. [Epub ahead of print]

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Microalbuminuria e rigidità arteriosa

Dati epidemiologici dimostrano che esiste un’associazione tra rigidità arteriosa e microalbuminuria, indici di danno d’organo subclinico in soggetti non ipertesi e non diabetici. Questa evidenza suggerisce che un simile meccanismo fisiopatologico sia coinvolto nello sviluppo dei due biomarcatori. Sono le conclusioni di una ricerca condotta da Byung Jin Kim, della Scuola medica universitaria Sungkyunkwan di Seul (Corea del Sud), e collaboratori, su un campione di 3.826 soggetti non ipertesi non diabetici. I pazienti sono stati classificati in due gruppi, in base al rapporto albumina/creatinina nelle urine raccolte al mattino: normoalbuminuria (<30 ug/kg) e microalbuminuria (30-300 ug/mg). A tutti i partecipanti è stata inoltre misurata la velocità dell’onda di polso braccio-caviglia (baPwv). La prevalenza della preipertensione e della microalbuminuria è risultata pari a 52,5% e 4%, nell’ordine. Valori anormali sia di baPwv sia di microalbuminuria hanno determinato un profilo cardiometabolico sfavorevole. I valori assoluti di baPwv sono risultati correlati a quelli del rapporto albumina/creatinina nelle urine. All’analisi di regressione multivariata, il gruppo microalbuminuria ha mostrato, rispetto al gruppo normoalbuminurico, un’associazione indipendente di aumento di baPwv non influenzata da potenziali fattori confondenti.

J Hypertens. 2011 Nov;29(11):2091-8

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Se aumenta il Bmi si riduce l’effetto delle insuline basali

L’adiposità attenua la farmacodinamica di tutte le insuline basali nei pazienti con diabete di tipo 2. In ogni caso, se l’adiposità aumenta, l’effetto della detemir risulta inferiore rispetto alla Nph e alla glargine. La dimostrazione è stata ottenuta da un team del dipartimento di Medicina interna (sezione di Endocrinologia e metabolismo) dell’univeristà di Perugia, coordinato da Francesca Porcellati. Il gruppo di ricercatori ha esaminato, con metodica crociata, le variabili che risultavano predire meglio la velocità di infusione del glucosio (Gir) e quello di produzione endogena di glucosio (Egp) durante studi di clampaggio di 32 ore dopo trattamento con iniezioni sottocutanee di 0,4 unità/kg di insulina Nph, detemir e glargine, effettuato su 18 pazienti con diabete di tipo 2. L’analisi di regressione multipla ha dimostrato che l’indice di massa corporea (Bmi) era il miglior fattore predittivo di variazioni del Gir durante il clampaggio. Più in dettaglio, il Bmi era correlato inversamente al Gir con tutti e tre i trattamenti insulinici, ma tale correlazione era statisticamente significativa solamente con l’insulina determir. Il Bmi, inoltre, era correlato positivamente con la soppressione residua di Egp con detemir, ma non con i trattamenti a base di glargine e Nph.

Diabetes Care, 2011 Oct 4. [Epub ahead of print]

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Linee guida italiane sulla prevenzione e gestione della malattia renale cronica dell’adulto

Il 27 gennaio 2012 saranno presentate presso l’Istituto Superiore di Sanità le Linee Guida ‘Identificazione, Prevenzione e Gestione della Malattia Renale Cronica nell’adulto’ a cura del Sistema Nazionale Linee Guida, dell’Istituto Superiore di Sanità, della Società Italiana di Nefrologia, del Ministero della Salute e con la collaborazione di alcune Società Scientifiche. L’Istituto Superiore della Sanità ha promosso questa iniziativa finalizzata ad adattare le preesistenti linee guida specifiche per la Malattia Renale Cronica – prodotte nel 2008 dal National Institute of Clinical Excellence (NICE) – al contesto italiano. Per selezionare le basi conoscitive utili per la prevenzione e il trattamento della Malattia Renale Cronica (MRC) sono stati chiamati a partecipare tutti gli attori e le figure professionali coinvolte in via diretta o indiretta con la diagnosi e la cura delle malattie renali: dai metodologi dell’ISS, ai rappresenti delle varie società scientifiche a partire dalla Medicina Interna. Queste linee guida sono quindi un documento aggiornato e con una visione non esclusivamente specialistica, grazie anche al contributo di FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Internisti Ospedalieri), rappresentata da Filippo Salvati. Sulla base di una revisione sistematica della letteratura posteriore alla pubblicazione delle linee guida inglesi, con uno sforzo collegiale di aggiornamento che comprende le ultime novità della letteratura sino al luglio 2011, il panel di esperti ha deciso di focalizzare l’attenzione su 29 quesiti specifici relativi alla Malattia Renale Cronica. I quesiti coprono un vasto raggio di problemi connessi al controllo di questa patologia a livello di popolazione, problemi che vanno dalla diagnostica alla gestione territoriale da parte dei medici di famiglia. Il paziente presente nelle corsie ospedaliere è come sappiamo un paziente polipatologico. L’approccio diagnostico, clinico e terapeutico deve quindi basarsi su una visione necessariamente globale e olistica, con particolare riferimento alle comorbidità. Si registra pertanto con favore l’avvio di un percorso di interdisciplinarietà tra le varie società scientifiche nella produzione di documenti condivisi, con la consapevolezza che la Medicina Interna ospedaliera rappresentata da FADOI, sta assumendo sempre più un ruolo importante di interfaccia tra i vari attori coinvolti nella attività clinica.

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Terapia antibiotica procalcitonina guidata: minore esposizione antibiotica senza modifica della mortalità

Precedenti studi controllati e randomizzati avevano suggerito che l’utilizzo di algoritmi clinici basati sui livelli di procalcitonina, un marker di infezioni batteriche, comporta una riduzione dell’uso di antibiotici senza un effetto deleterio sugli esiti clinici. Ora, alcuni ricercatori statunitensi hanno rivisto tutto quanto pubblicato in letteratura sull’argomento per verificare l’efficacia di una tale impostazione ai fini di una eventuale proposta di un algoritmo condiviso e utilizzabile nella pratica clinica. Hanno pertanto effettuato una ricerca sistematica che includeva 14 studi clinici randomizzati e controllati (n = 4.467 pazienti) che avevano indagato gli algoritmi procalcitonina guidati per le decisioni di trattamento antibiotico in pazienti adulti con infezioni delle vie respiratorie e sepsi, provenienti dalle cure primarie, dai dipartimenti di emergenza (ED) e dalle unità di terapia intensiva. Confrontando i vari risultati non è stata riscontrata alcuna differenza significativa nella mortalità tra i pazienti trattati sulla base dei livelli di procalcitonina ed i pazienti di controllo nel loro insieme (odds ratio 0.91; intervallo di confidenza 95% 0.73-1.14). Tale mancanza di significatività sull’end point mortalità si è mantenuta anche scorporando i vari gruppi di pazienti a seconda del setting assistenziale indagato: OR nell’ambito delle cure primarie di 0.13 (0-6.64), OR negli ED di 0.95 (0.67-1.36) e OR nelle unità di terapia intensiva di 0.89 (0.66-1.20). Al contrario è stato possibile evidenziare che gli algoritmi procalcitonina guidati hanno comportato una riduzione consistente della prescrizione di antibiotici e/o della durata della terapia, soprattutto a causa di ridotti tassi prescrittivi per patologie di bassa gravità nell’ambito delle cure primarie e degli ED, ma anche una più breve durata della terapia per patologie di gravità maggiore nell’ambito degli ED e delle unità di terapia intensiva. Gli AA concludono quindi che la misurazione dei livelli di procalcitonina per le decisioni riguardanti il tipo e la durata dell’antibioticoterapia in pazienti con infezioni del tratto respiratorio e sepsi sembra ridurre l’esposizione dei medesimi agli antibiotici senza peraltro peggiorare il tasso di mortalità. Viene pertanto proposto che tale determinazione venga assunta per decidere le modalità di trattamento antibiotico in questa tipologia di pazienti.

Philipp Schuetz et al. Procalcitonin Algorithms for Antibiotic Therapy Decisions A Systematic Review of Randomized Controlled Trials and Recommendations for Clinical Algorithms. Arch Intern Med. 2011; 171(15):1322-1331

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Supplementi di proteine della soia e del latte contro l’ipertensione arteriosa

Studi osservazionali hanno riportato un’associazione inversa tra l’introito di proteine e la pressione arteriosa. In riferimento a questi studi un gruppo di ricercatori ha confrontato in doppio cieco l’effetto di una supplementazione della proteina della soia e del latte vs carboidrati semplici. Lo studio, in doppio cieco, è stato effettuato su 352 adulti con pre-ipertensione o ipertensione in stadio 1 (JNC 7) tra il 2003 e il 2008. I partecipanti erano stati randomizzati a 40 g/die di proteina di soia, a 40 g/die di proteina del latte o a 40 g di carboidrati per 8 settimane, dopo un periodo di 3 settimane di wash-out. Questi supplementi erano formulati in modo che assicurassero lo stesso introito di sodio, di calcio e di potassio, così che le variazioni pressorie non fossero imputabili alle variazioni di questi ioni. Il risultato è stato che nel gruppo che assumeva la proteina della soia e del latte si otteneva una diminuzione netta della pressione sistolica di 2.0 mmHg (p=0.002) e 2.3 mmHg (p=0.0007), rispettivamente. Non c’è stata differenza significativa nella riduzione della pressione diastolica. Nonostante la diminuzione della pressione sistolica sembri di modesta entità per il singolo individuo, essa si traduce a livello di popolazione in una riduzione intorno al 6% della mortalità per stroke, del 4% della mortalità per cardiopatia ischemica e 3% della mortalità per tutte le cause. Questo studio quindi suggerisce che sostituendo i carboidrati – soprattutto quelli semplici – con la proteina della soia e del latte si possa ottenere una riduzione della pressione, almeno nei primi stadi dell’ipertensione. Naturalmente, nonostante questi reperti incoraggianti, sono necessari ulteriori studi randomizzati per esaminare gli effetti di varie proteine della dieta sulla pressione arteriosa e poter elaborare delle specifiche raccomandazioni. 

He J. Circulation 2011; doi:10.1161/circulationaha110.009159

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