Essere obesi a 20 anni aumenta il rischio di diabete, trombi potenzialmente fatali e attacchi di cuore, riducendo così la probabilità di arrivare alla mezza età
Essere obesi a 20 anni aumenta il rischio di diabete, trombi potenzialmente fatali e attacchi di cuore, riducendo così la probabilità di arrivare alla mezza età. Lo indica uno studio danese pubblicato online su Bmj open. Negli adulti l’obesità è associata a un aumentato rischio cardiovascolare e di diabete, ma non si sa se avere un indice di massa corporea (Imc) elevato da giovani rafforzi tale associazione. Per chiarire quest’aspetto, un gruppo di ricercatori dell’ospedale universitario di Aarhus, in Danimarca, insieme a epidemiologi e biostatistici statunitensi, ha seguito per 33 anni una coorte di 6.500 ventiduenni danesi. Per tutti i soggetti, maschi nati nel 1955, erano disponibili i risultati dei test fisici e psicologici cui erano stati sottoposti per l’idoneità al servizio militare. I dati riguardanti il peso hanno evidenziato che la maggior parte dei ragazzi (83%) era nella norma, con Imc tra 18,5 e 25, il 5% era sottopeso e l’1,5% era obeso, con Imc uguale o superiore a 30. Durante gli oltre 30 anni di follow up, a circa la metà dei ragazzi obesi sono stati diagnosticati diabete di tipo 2, ipertensione, infarto del miocardio, ictus o tromboembolismo venoso, oppure il decesso era avvenuto prima dei 55 anni. C’è di più: il rischio di sviluppare diabete era ben 8 volte maggiore nei ragazzi obesi rispetto ai loro coscritti normopeso, mentre la probabilità di andare incontro a un trombo potenzialmente fatale era 4 volte maggiore. Le probabilità di ipertensione, attacchi cardiaci e morte risultavano raddoppiate in coloro che erano obesi già a 20 anni. «Abbiamo calcolato che ogni incremento di una unità nel Imc corrispondeva a un aumento del 20% della probabilità di sviluppare diabete, del 10% di tromboembolismo e ipertensione e del 5% di infarto» puntualizza Morten Schmidt, primo firmatario dell’articolo. E sottolinea: «Globalmente, negli uomini obesi a 20 anni, abbiamo registrato un aumento del rischio assoluto di tutte queste malattie pari al 30%».
La dieta mediterranea colpisce ancora: mangiare pesce, pollo e insalata evitando carne rossa, salumi e latticini preserva memoria e pensiero. «In altre parole, con la dieta mediterranea cala il rischio di decadimento cognitivo legato all’età» afferma Georgios Tsivgoulis dell’Università di Atene, professore associato di neurologia all’Università dell’Alabama, Stati Uniti, e primo firmatario di un articolo pubblicato su Neurology. «La demenza è un disturbo comune tra gli anziani, con una prevalenza di circa il 15% tra i settantenni. Attualmente non esistono strategie per prevenirla né terapie in grado di risolverla» spiega il neurologo. Tuttavia, studi epidemiologici suggeriscono che fattori legati alla dieta si associano a un basso rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, una delle cause più frequenti di demenza. «La dieta mediterranea è un modello alimentare caratterizzato da un elevato consumo di alimenti di origine vegetale e olio d’oliva, con basso apporto di grassi saturi. Seguire questo tipo di regime alimentare non solo allunga la sopravvivenza, abbassando il rischio cardiovascolare e la mortalità per cancro, ma riduce anche le probabilità di Alzheimer» spiega Tsivgoulis. Proprio per chiarire il legame tra demenza e dieta mediterranea, insieme ai colleghi, il neurologo greco ha valutato l’associazione tra adesione alla dieta mediterranea e deterioramento della funzione cognitiva nei 17.478 afro-americani e caucasici partecipanti allo studio Regards (Reasons for geographic and racial differences in stroke study), partito tra il 2003 e il 2007 e ancora in corso. L’adesione è stata calcolata con un questionario, mentre lo stato cognitivo è stato valutato al momento dell’arruolamento nello studio e annualmente durante un follow-up medio di circa 4 anni. I risultati? Chi seguiva la dieta mediterranea aveva il 19% in meno di probabilità di sviluppare disturbi cognitivi o di memoria. Senza differenze tra afro-americani e caucasici, ma con significatività minore tra i partecipanti ammalati di diabete. «La dieta è solo una delle componenti di uno stile di vita che può ridurre i disturbi cognitivi negli anziani. Esercizio fisico, controllo del peso, astensione dal fumo e cura di diabete e ipertensione sono ugualmente importanti» conclude il ricercatore.
Conosciamo davvero tutti i possibili pericoli che si nascondono nel cibo che mangiamo? Dipende. Perché a volte ne sovrastimiamo alcuni, mentre ne disconosciamo altri, magari meno seguiti dai media. È il caso delle micotossine, sostanze naturali prodotte da alcune muffe, molto pericolose per la salute. Un piccolo sondaggio condotto dall’agenzia regionale per la protezione ambientale del Piemonte ha fatto emergere che la quasi totalità delle persone, anche quelle con un’istruzione medio-elevata, non sa assolutamente cosa siano. Alcuni anni fa l’oncologo Umberto Veronesi portò alla ribalta questo tema, puntando il dito su latte e polenta, due alimenti che possono contenerle. Recentemente si è tornati a parlarne, perché l’estate appena trascorsa ha avuto condizioni climatiche favorevoli alla loro proliferazione.
Il dibattitto sulle micotossine e su come fare per limitare la loro presenza nella nostra alimentazione continua a essere vivo, sia nel mondo agricolo (che deve fare i conti con un lungo elenco di normative e controlli) sia nel mondo scientifico, dal quale stanno arrivando nuovi allerta su alcuni tipi di tossine non ancora considerate dalla legge che potrebbero però essere pericolose per i consumatori e come tali andrebbero monitorate e regolamentate. Per avere un quadro concreto del fenomeno abbiamo portato in laboratorio diversi prodotti alimentari sensibili alla contaminazione da micotossine (in particolare da quelle prodotte dal fungo Fusarium, che attacca principalmente il grano e l’avena) ricercando sia quelle per le quali esistono limiti di legge, sia quelle non ancora regolamentate. Abbiamo scoperto che, per alcune micotossine che non hanno ancora un limite di legge, il rischio di superare la quantità giornaliera massima accettabile consumando alcuni dei cibi analizzati è un’eventualità concreta.
Le micotossine sono tossine prodotte da alcune muffe, principalmente Aspergillus, Penicillium e Fusarium, che si sviluppano in campo su alcune piante, sia a causa di determinate condizioni climatiche, sia in seguito a stress cui sono sottoposte, come l’attacco di insetti e volatili. Queste sostanze sono quindi tossine naturali, che si formano principalmente durante la crescita delle piante, ma anche in fase di conservazione nei silos. Gli alimenti più esposti alla contaminazione diretta sono soprattutto i cereali, come mais, frumento, orzo, segale e avena, ma queste sostanze si sviluppano anche in semi oleaginosi, spezie, frutta secca e caffè. Alcune micotossine, tra quelle più pericolose, possono entrare nella catena alimentare anche attraverso la carne suina e di pollo e altri prodotti di origine animale, come uova, latte e formaggio, provenienti da bestiame che consuma mangime contaminato. A rischio, infine, anche birra e vino.
L’impatto delle micotossine sulla salute dipende dalla quantità assunta con gli alimenti e dalla loro tossicità. Si calcola che ci siano circa 300 tipi diversi di micotossine, ma sono una decina quelle più importanti, cioè le più frequenti e le più tossiche per l’uomo. Le più pericolose sono le aflatossine, prodotte dal fungo Aspergillum, che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato come cancerogene. Per queste, come per alcune altre di cui è stata accertata la pericolosità, esistono rigorosi limiti di legge, che ne limitano la presenza negli alimenti. Il problema principale di queste tossine è che non è facile eliminarle: se l’alimento viene contaminato in qualche momento della catena, il prodotto finale che arriva sulle nostre tavole sarà anch’esso inquinato. Attualmente non esistono trattamenti in grado di ripulire completamente da queste sostanze il cibo che mangiamo. Il modo migliore per impedire che le micotossine entrino nella nostra dieta resta la prevenzione, attraverso l’informazione e i controlli in campo e sulle materie prime.
Eliminare completamente questi contaminanti naturali è impossibile. Ma si può cercare di contenere l’esposizione della popolazione entro dosi tollerabili. Come? Prima di tutto obbligando il settore agricolo a migliorare le pratiche in campo e lo stoccaggio degli alimenti. In seguito, praticando rigorosi controlli lungo tutta la filiera. E poi, incentivando la ricerca scientifica a produrre informazioni utili agli organi di vigilanza, che sono tenuti a garantire la salubrità di ciò che mangiamo, indicando i limiti di sicurezza. Restano infatti molte questioni aperte, soprattutto sulla necessità di regolamentare il livello di alcune tossine il cui impatto sulla salute è oggi ancora sottostimato. Le analisi che abbiamo condotto su un campione di 60 alimenti a base di cereali dimostrano che la presenza di queste sostanze nel cibo che acquistiamo è sottostimata, soprattutto quando non si devono rispettare limiti imposti dalla legge. Chiediamo che tutte le micotossine nocive siano regolamentate.
Quando la pressione cardiaca continua a rimanere alta nonostante il trattamento con tre o più farmaci appartenenti a classi differenti si parla di ipertensione resistente: da oggi questa definizione è di diritto nelle linee guida europee per l’ipertensione, insieme alla denervazione renale, terapia per curarla.
26 GIU – Il Congresso della Società Europea dell’Ipertensione che si è concluso la settimana scorsa a Milano ha portato due grosse novità nelle linee guida europee per il trattamento dell’ipertensione: sia l’ipertensione resistente al trattamento, ossia una pressione che continua a rimanere alta nonostante il trattamento con tre o più farmaci appartenenti a classi differenti, chee la denervazione renale, terapia per curarla, entrano a pieno titolo nel documento.
In particolare, le nuove linee guida prendono atto dei dati positivi finora prodottidall’impiego del sistema di denervazione renale Symplicity di Medtronic, il cui programma di sperimentazione clinica è attualmente il più lungo, esteso ed avanzato del suo genere. “I dati di follow up sull’efficacia della procedura nella riduzione dei livelli di pressione relativi agli studi Symplicity HTN2 e HTN-1 sono molto promettenti. I pazienti hanno avuto mediamente una buona riduzione della pressione, ed in quelli nei quali l’osservazione è stata prolungata a 2-3 anni, tale riduzione si è mantenuta. Ciò dà un segnale positivo per l’efficacia a lungo termine della procedura”, ha affermato Giuseppe Mancia, Presidente del Congresso della Società Europea dell’Ipertensione. In aggiunta ai primi due studi, si è appena conclusa la fase di arruolamento di un terzo studio, Simplicity HTN-3 che prevede un confronto fra la denervazione renale e il solo trattamento farmacologico su un numero ancora più ampio di pazienti.
A preoccupare è la dimensione del fenomenoche nella sola Europa si stima riguardi circa 10-15 milioni di persone che per gli elevati livelli pressori sono soggetti ad alto rischio. “In Italia l’ipertensione arteriosa colpisce circa il 45-50% della popolazione generale adulta ossia oltre 14 milioni di soggetti, equamente distribuiti tra maschi e femmine. Di questi circa il 5-7% è affetta da ipertensione arteriosa resistente ‘vera’”, ha detto Massimo Volpe, Presidente della Società Italiana di Ipertensione arteriosa “L’ipertensione arteriosa non controllata è un problema di Salute Pubblica rilevante: pazienti trattati che hanno una pressione arteriosa non controllata hanno un rischio di sviluppare una complicanza cardiovascolare (infarto, ictus, insufficienza cardiaca o renale, morte) comparabile a quello dei soggetti ipertesi non trattati. Maggiori sono i valori pressori e maggiore il rischio di sviluppare tali complicanze, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla eventuale presenza di altre malattie associate.”
Il Sistema per la denervazione renale Symplicity è costituito da un catetere flessibilee da un generatore automatico. Il catetere viene inserito nell’arteria femorale all’altezza dell’inguine e da lì viene fatto avanzare fino all’arteria renale. Quando la punta del catetere è in sede all’interno dell’arteria renale, il generatore eroga una energia a radio frequenza il cui scopo è di disattivare i nervi simpatici renali circostanti. A sua volta, ciò riduce l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico, noto per il suo ruolo nella ipertensione cronica. “Ad oggi sono oltre 6.000 le procedure realizzate con il sistema Symplicity in oltre 80 paesi del mondo e in Italia sono più di 70 i centri attivi per un totale di oltre 300 procedure effettuate”, ha spiegato Claudio Borghi, Vicepresidente della Società Italiana di Ipertensione Arteriosa “Un aspetto estremamente importante è lo screening dei pazienti e quindi il collegamento del centro interventistico con un centro clinico dell’ipertensione, meglio se un centro di eccellenza. è necessario infatti individuare il paziente giusto per la procedura, quello in cui il beneficio dell’intervento di denervazione renale sia significativo. Ciò per il bene del paziente e, allo stesso tempo, per garantire un razionale impiego delle risorse, tanto più in un momento di difficoltà economica quale quello attuale.”
Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale ha concluso:“Attualmente i costi per il trattamento farmacologico dell’ipertensione si sono notevolmente ridotti. Si riscontra invece una sostanziale associazione tra ipertesi resistenti e pazienti che rappresentano un alto costo per il sistema sanitario. Questo conferma l’esigenza di utilizzare tutte le risorse e le soluzioni disponibili utili al trattamento soprattutto per i pazienti più gravi e complessi. La procedura di denervazione renale appare promettente e le evidenze aumenteranno grazie agli studi e ai registri attualmente in corso, con cui sarà possibile realizzare una valutazione degli esiti a lungo termine. Occorre lavorare in sinergia con tutte le figure professionali coinvolte nel percorso del paziente al fine di applicare al meglio i criteri di inclusione e individuare la reale popolazione candidabile al trattamento”.
L’agente osmo-metabolico permette di diminuire la percentuale di glucosio utilizzato mantenendo le medesime proprietà osmotiche ed ultra filtrative, dall’altra migliora il profilo metabolico dei soggetti in trattamento, come dimostrato dalla resistenza all’insulina e altri biomarcatori.
26 GIU – È valso la pubblicazione su American Journal of Kidney Disease lo studio che dimostra come il trattamento con L-Carnitina, sostanza di origine naturale e coinvolta nel metabolismo glucidico e lipidico, quale agente osmo-metabolico nelle sacche per dialisi peritoneale rappresenta un nuovo approccio efficace, sicuro, ben tollerato ed economico contro l’insufficienza renale cronica terminale. Lo studio multicentrico http://www.ajkd.org/article/S0272-6386(13)00783-X/abstract, che è stato condotto da Thule Therapeutics S.A., Società di ricerca e sviluppo del Gruppo Sigma-Tau e Corequest Sagl (grazie anche ad un grant di ricerca di Baxter) e coordinato da Mario Bonomini dell’Istituto di Clinica Nefrologica dell’Ospedale di Chieti, ha coinvolto 8 Centri in Italia.
Secondo i dati dello studio, da una parte la L-Carnitina permette di diminuire la percentuale di glucosio utilizzato mantenendo le medesime proprietà osmotiche ed ultra filtrative, dall’altra migliora il profilo metabolico dei soggetti in trattamento, come dimostrato dalla resistenza all’insulina e altri biomarcatori. I risultati dello studio pubblicato hanno fornito la prova clinica di questo effetto. Inoltre la severità della popolazione studiata rende il dato ottenuto ancora più robusto. Bonomini, sperimentatore principale dello studio, ha dichiarato: “Questi dati sono di estrema importanza per disegnare nuovi strumenti per migliorare la nostra offerta di cura e rappresentano la prima reale novità in questo settore da anni”. “Questo risultato rafforza la nostra volontà di procedere nello sviluppo clinico di soluzioni ipertoniche in grado non solo di ridurre la quantità di glucosio nelle sacche di dialisi peritoneale, ma di migliorare la condizione dismetabolica indipendentemente dalla riduzione del glucosio stesso”, ha aggiunto Arduino Arduini, Amministratore Delegato di Corequest. “Siamo particolarmente compiaciuti di aver trovato un nuovo utilizzo potenziale per la L-Carnitina per un più efficace trattamento dei pazienti affetti da una patologia così severa come l’insufficienza renale cronica e siamo orgogliosi di contribuire al miglioramento non solo della loro cura ma anche della loro qualità di vita” ha sottolineato anche Alessandro Noseda, membro del Consiglio di Amministrazione di Thule. Corequest e Thule/sigma-tau non escludono collaborazioni con partner industriali del settore per completare lo sviluppo e sfruttare appieno il potenziale del prodotto.
Il dato è stato riportato nel corso del convegno promosso dal Gruppo italiano mammella. Il rischio però è che i progressi sin qui raggiunti siano messi a repentaglio”dalla mancata o non corretta applicazione di raccomandazioni e linee guida sul trattamento della patologia”.
10 GIU – Se diagnosticato precocemente, nel 90% dei casi il tumore alla mammella guarisce perfettamente. E’ quanto ha rilevato Francesco Cognetti, direttore del Dipartimento di Oncologia Medica del Regina Elena di Roma, durante il convegno nazionale promosso dal Gruppo italiano mammella (Gim) nella capitale per la presentazione degli ultimi lavori scientifici sul cancro al seno.
“Il contributo del Gim è stato determinante per raggiungere l’eccellenza – commenta Cognetti – Il nostro network, che riunisce i maggiori specialisti italiani, è nato dal desiderio di costituire un rapporto di stretta collaborazione clinica e scientifica tra tutti coloro che operano quotidianamente in questo settore. Per assicurare alle pazienti il maggior livello assistenziale possibile, oltre a favorire il progresso nella ricerca. Abbiamo compiuto grandi passi”.
Il lavoro effettuato sino a questo momento rischia però di “essere minato, nella sua validità, dalla mancata o non corretta applicazione di raccomandazioni e linee guida sul trattamento della patologia”. Per gli oncologi la preoccupazione maggiore riguarda la “formulazione di proposte terapeutiche spesso minimaliste, che non tengono conto delle raccomandazioni provenienti dalle società scientifiche. Queste modalità di cura, seppure accattivanti per le pazienti per la loro durata ridotta ed una contenuta incidenza di effetti collaterali, spesso non sono sostenute da sufficienti prove scientifiche. Presentano quindi il rischio concreto di un minore effetto sulle possibilità di guarigione”.
Eppure, esistono ormai da tempo schemi terapeutici di comprovata efficacia, fondamentali per le oltre 46mila italiane che ogni anno si ammalano di neoplasia al seno. “La Comunità Oncologica Nazionale offre alle pazienti un’uniformità di trattamenti e percorsi condivisi ed omogenei su tutto il territorio – spiega Lucia del Mastro, dell’Oncologia Medica dell’IST di Genova – Questo permette da un lato di lavorare in rete tra le diverse Oncologie, dall’altro di ottimizzare dati clinici e utilizzare in modo appropriato le risorse per garantire alle malate le migliori modalità di approccio diagnostico e terapeutico”.
Il Gim riunisce “140 centri d’eccellenza in tutta Italia – sottolinea Sabino De Placido, dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Stiamo conducendo in contemporanea diversi studi clinici di fase III, come i GIM 1 – 2 – 3, a cui partecipano migliaia di pazienti. L’abstract del GIM 3 è stato presentato durante il congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) di Chicago, appena concluso”. E De Placido garantisce che si tratta di “ricerche davvero promettenti, su combinazioni di farmaci innovative, che speriamo possano rappresentare un aiuto concreto per tutte le donne con tumore della mammella”.
Occorre includere l’Indice glicemico (Ig) e il Carico glicemico (Cg) nelle linee guida dietetiche nazionali e nelle tabelle di composizione degli alimenti; bisogna inoltre prevedere l’indicazione di basso Ig sulle confezioni degli alimenti (come avviene in Australia e Nuova Zelanda dal 2002) e diffondere alla popolazione e alla comunità medica le informazioni su Ig/Cg. Sono alcuni degli obiettivi più rilevanti che si è posto il “Consorzio per la qualità dei carboidrati”, nato in occasione del 1° Summit mondiale di Consenso su Ig, Cg e Risposta glicemica (Rg), organizzato a Stresa (VB) da Nfi (Nutrition foundation of Italy, Milano) e Oldways (organizzazione non profit con sede a Boston), con il patrocinio del ministero della Salute. «Dopo aver dato per molto tempo rilevanza ai lipidi nel controllo del peso e nella prevenzione della malattie cardiovascolari» afferma Andrea Poli, direttore scientifico Nfi «ci si è accorti che bisogna considerare anche i carboidrati, e che fra questi non tutti sono uguali. Per esempio la pasta di semola di grano dura cotta al dente ha un basso Ig, al contrario del pane». «L’Ig permette di distinguere i carboidrati digeriti lentamente da quelli che, assorbiti con rapidità, alzano troppo velocemente glicemia e insulinemia» ricorda David Jenkins, dell’università di Toronto, precursore sul tema. «Il Cg, invece, tiene conto sia dell’Ig sia della quantità del carboidrato presente in una porzione media dell’alimento». Infatti, non basta tenere conto dell’Ig: va considerata la quantità assunta dell’alimento. «Al contrario dei grassi, i carboidrati se non digeriti rapidamente danno un piacevole senso di sazietà e benessere; per un diabetico dunque è preferibile un alimento con minore risposta glicemica» aggiunge Gabriele Riccardi, dell’università Federico II di Napoli. «Inoltre a livello del colon – importante per il metabolismo e la presenza di flora batterica – un alimento ricco in fibre e a basso Ig riduce la risposta infiammatoria e la colesterolemia», funzioni utili contro le patologie cronico-degenerative e per la perdita di peso. Il documento di consenso, infine, ha ribadito il forte contributo del basso Ig nel ridurre il rischio di diabete di tipo 2 e di eventi coronarici.
No allo screening genetico di massa e alla chirurgia preventiva su organi sani per evitare l’insorgenza di tumori alla prostata. Questo l’appello lanciato dagli specialisti nel corso del XXIII congresso della società italiana di urologia oncologica (Siuro) in corso a Firenze. Una presa di posizione che arriva dopo il caso di Angelina Jolie, che ha subito una mastectomia per evitare l’insorgenza di tumore al seno, e quello di un manager londinese che si è fatto asportare la prostata sana per scongiurare il rischio di tumore. «Per la prostata, a differenza di quello che accade per il tumore al seno e per ovaie» spiega Giario Conti, presidente Siuro «le conoscenze attuali non sono assolutamente tali da garantire la correlazione tra l’alterazione dei geni e l’insorgenza del tumore». Il test di screening genetico per il tumore alla prostata, spiegano gli esperti, va richiesto solo per colore che hanno numerosi precedenti in famiglia. «La presenza di un’anomalia genetica non rappresenta la certezza di contrarre il tumore» precisa il vicepresidente Siuro Alberto Lapini, e non giustifica in alcun modo una scelta radicale come l’asportazione della prostata». Dal punto di vista dell’incidenza, nell’ultimo decennio il carcinoma prostatico è diventato il tumore più frequente nella popolazione, ma il tasso mortalità è in diminuzione. In Italia un cittadino su 16 di età superiore ai 50 anni è a rischio tumore: oggi sono circa 217.000 gli italiani che convivono con la malattia e il numero di nuovi casi è in continua crescita, con un incremento del 53% negli ultimi 10 anni, dovuto soprattutto all’aumento dell’età media della popolazione. Tuttavia questo tipo di tumore non è fra i “big killer”: il 70% dei malati sopravvive dopo i 5 anni dalla diagnosi, grazie a maggiore prevenzione, nuove terapie e farmaci di ultima generazione.
Rimpiazzare carboidrati e grassi animali con grassi vegetali potrebbe ridurre il rischio di morte negli uomini con tumore della prostata non metastatico, almeno secondo un articolo pubblicato online su Jama Internal Medicine. «Quasi 2,5 milioni di persone convivono con un cancro alla prostata negli Stati Uniti, ma poco si sa sul ruolo svolto dalla dieta seguita dopo la diagnosi nella progressione della neoplasia e nella mortalità globale»
l�?�rvp& 8>$ ll’indicazione rendono le prugne secche diventano l’unico frutto intero secco ad aver ottenuto l’ok per un claim salutistico. Il processo di applicazione, iniziato grazie agli sforzi del California Prune Board, il consorzio che racchiude i produttori di Prugne della California è durato sei anni.
Ad esempio in Italia, la media è di 18.6 gr di fibre al giorno assunte dalla popolazione adulta. Le prugne secche hanno naturalmente un alto contenuto di fibra alimentare, e tre prugne secche della California costituiscono una delle cinque porzioni al giorno di frutta e verdura necessarie per una dieta sana ed equilibrata. Mangiarne 100 gr al giorno (pari a 8-12 prugne) garantisce un effetto benefico per la salute dell’apparato digerente, e fornisce oltre un quarto (7.1 gr) della quantità raccomandata di 25 gr di fibre al giorno, rendendole quindi un’ottima soluzione per aumentare l’apporto di fibre nella dieta. La nutrizionista Jennette Higgs ha commentato: “La regolarità intestinale è legata a un adeguato apporto di fibre nella dieta, tuttavia in generale in tutta Europa l’assunzione di fibre è inferiore alle dosi raccomandate. Le fibre provengono da frutta, verdura, insalata, cereali integrali, noci e semi, quindi è importante includere un’ampia varietà di questi alimenti nella dieta quotidiana.” Da questo punto di vista la decisione dell’EFSA costituisce una notizia positiva per gli operatori sanitari e potrebbe aiutare la popolazione a fare scelte ancor più consapevoli, fornendo la prova scientifica definitiva di ciò che è stato di senso comune da generazioni, ossia che le prugne secche contribuiscono al mantenimento delle normali funzioni intestinali.
Lo scopo della regolamentazione da parte dell’UE sui claim salutistici è infatti di salvaguardare i consumatori da false affermazioni salutistiche riportate in etichetta, nelle pubblicità, o nell’ambito di attività promozionali e di marketing. Tutti gli health claim vengono valutati attraverso un rigoroso controllo scientifico e richiedono documentazioni di alta qualità basate sulla buona prassi scientifica concordata a livello internazionale. La decisione dell’EFSA è il risultato di sei anni di studi approfonditi per dimostrare l’effetto benefico delle prugne secche per la salute dell’apparato digerente,e riunisce le evidenze scientifiche di una serie di studi in materia di funzionalità intestinale a seguito dell’introduzione di prugne secche nella dieta.
La California è il maggior produttore di prugne secche al mondo,e la qualità delle Prugne della California è riconosciuta come superiore, grazie alle rigorose tecniche di raccolta impiegate, e alle valutazioni di controllo di qualità. Il prodotto premium viene esportato in oltre 70 Paesi in tutto il mondo,e la California contribuisce per il 60% alle forniture di prugne secche del mondo.
Le prugne secche contribuiscono al normale funzionamento dell’apparato digerente”. Queste le parole dell’health claim ufficiale pubblicato dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare dell’Unione Europea sulla Gazzetta Ufficiale UE. La conferma ufficiale dell’approvazione dell’indicazione rendono le prugne secche diventano l’unico frutto intero secco ad aver ottenuto l’ok per un claim salutistico. Il processo di applicazione, iniziato grazie agli sforzi del California Prune Board, il consorzio che racchiude i produttori di Prugne della California è durato sei anni.
L’assunzione di fibre in Europa è inferiore alla quantità raccomandata di 25 g al giorno. Ad esempio in Italia, la media è di 18.6 gr di fibre al giorno assunte dalla popolazione adulta. Le prugne secche hanno naturalmente un alto contenuto di fibra alimentare, e tre prugne secche della California costituiscono una delle cinque porzioni al giorno di frutta e verdura necessarie per una dieta sana ed equilibrata. Mangiarne 100 gr al giorno (pari a 8-12 prugne) garantisce un effetto benefico per la salute dell’apparato digerente, e fornisce oltre un quarto (7.1 gr) della quantità raccomandata di 25 gr di fibre al giorno, rendendole quindi un’ottima soluzione per aumentare l’apporto di fibre nella dieta. La nutrizionista Jennette Higgs ha commentato: “La regolarità intestinale è legata a un adeguato apporto di fibre nella dieta, tuttavia in generale in tutta Europa l’assunzione di fibre è inferiore alle dosi raccomandate. Le fibre provengono da frutta, verdura, insalata, cereali integrali, noci e semi, quindi è importante includere un’ampia varietà di questi alimenti nella dieta quotidiana.” Da questo punto di vista la decisione dell’EFSA costituisce una notizia positiva per gli operatori sanitari e potrebbe aiutare la popolazione a fare scelte ancor più consapevoli, fornendo la prova scientifica definitiva di ciò che è stato di senso comune da generazioni, ossia che le prugne secche contribuiscono al mantenimento delle normali funzioni intestinali.
Lo scopo della regolamentazione da parte dell’UE sui claim salutistici è infatti di salvaguardare i consumatori da false affermazioni salutistiche riportate in etichetta, nelle pubblicità, o nell’ambito di attività promozionali e di marketing. Tutti gli health claim vengono valutati attraverso un rigoroso controllo scientifico e richiedono documentazioni di alta qualità basate sulla buona prassi scientifica concordata a livello internazionale. La decisione dell’EFSA è il risultato di sei anni di studi approfonditi per dimostrare l’effetto benefico delle prugne secche per la salute dell’apparato digerente,e riunisce le evidenze scientifiche di una serie di studi in materia di funzionalità intestinale a seguito dell’introduzione di prugne secche nella dieta.
La California è il maggior produttore di prugne secche al mondo,e la qualità delle Prugne della California è riconosciuta come superiore, grazie alle rigorose tecniche di raccolta impiegate, e alle valutazioni di controllo di qualità. Il prodotto premium viene esportato in oltre 70 Paesi in tutto il mondo,e la California contribuisce per il 60% alle forniture di prugne secche del mondo.