Strano ma vero: associazione fra IMA e fratture osteoporotiche

Anche se vi sono dati che dimostrerebbero un link fra patologie cardiovascolari ed aumentato rischio di fratture osteoporotiche (Alagiakrishnan K et al. Role of vascular factors in osteoporosis. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2003; 58:362-366. McFarlane SI et al Osteoporosis and cardiovascular disease: brittle bones and boned arteries, is there a link? Endocrine 2004; 23:1-10), questa associazione non è stata studiata per ciò che riguarda l’infarto del miocardio. Per tale motivo alcuni cardiologi ed internisti della Mayo Clinic, in collaborazione con altri colleghi israeliani, hanno approntato uno studio retrospettivo per verificare se vi fosse questa associazione. Sono stati selezionati 6.642 pazienti residenti nella Olmsted County del Minnesota che dal 1979 al 2006 avevano avuto un IMA e quindi confrontati con un egual numero di soggetti controllo con l’obiettivo di verificare se vi era differenza nel numero e nella sede delle fratture osteoporotiche e/o nella mortalità. I tassi di incidenza di fratture sono rimasti stabili nei controlli ma sono aumentati notevolmente nel corso del tempo nei pazienti con IMA (Vedi Fig.). Dopo l’IMA vi è stato infatti un eccesso di rischio di fratture osteoporotiche (adjusted hazard ratio 1.32; intervallo di confidenza al 95% 1.12-1.56); al contrario, l’hazard ratio complessivo per morte non è stato dissimile rispetto ai controlli. I cambiamenti osservati nella prevalenza di base dei fattori di rischio cardiovascolare, le caratteristiche dell’IMA e le comorbidità non hanno pienamente spiegato l’aumentata tendenza nel tempo del rischio di queste fratture.
Queste le conclusioni degli AA:
negli ultimi decenni, l’associazione tra IMA e fratture osteoporotiche è aumentata costantemente; la tendenza è coerente con lo spostamento degli esiti del post-infarto verso eventi non cardiovascolari, evidenziando la necessità di strategie globali di prevenzione per meglio combattere i cambiamenti epidemiologici degli outcomes del post-IMA.

Gerber Y et al. Association Between Myocardial Infarction and Fractures: An Emerging Phenomenon. Circulation 2011; 124: 297-303

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Statura e cancro

9 Nov 2011 Oncologia

Le persone alte corrono un maggiore rischio di ammalarsi di qualsiasi tipo di cancro, ma non sono chiari i motivi di questa predisposizione, i suoi collegamenti con i vari siti tumorali e/o con  fattori come il fumo o lo stato socioeconomico. In seguito a ciò alcuni ricercatori inglesi – in un ampio studio prospettico effettuato nel Regno Unito che ha coinvolto più di 1 milione di donne di media età ed in una metanalisi di studi prospettici – hanno cercato di fare il punto su queste associazioni. Le donne studiate facevano parte di una coorte di donne di età media senza precedenti di cancro ma seguite per l’incidenza di cancro e su 1.297.124 donne incluse nello studio si sono verificati  97.376 casi di tumore. Il RR per il cancro è stato di 1.16 (95% CI 1.141.17; p<0.0001) per ogni 10 cm di altezza in più e questo è valso per quasi tutte le localizzazioni tumorali esaminate. In più è risultato indipendente dai fattori socioeconomici e da fattori quali BMI, alcool, attività fisica, età del menarca, numero di gravidanze, età del primo figlio, età menopausale o terapia ormonale (FIGURA). Ma è stato significativamente più basso (p<0.0001) nelle donne fumatrici piuttosto che nelle donne che non avevano mai fumato. O meglio, nelle donne fumatrici i tumori collegati col fumo non sono risultati strettamente legati all’altezza. In una metanalisi eseguita su altri 10 studi prospettici non si sono evidenziate sostanziali differenze tra Europa, Nord America, Australia e Asia. Anche questo studio quindi conferma che l’incidenza del cancro aumenta con la statura, aumenta per quasi tutti gli organi colpiti ed è simile anche in popolazioni molto diverse. Se si considera che in Europa la statura aumenta di circa 1 cm ogni 10 anni, questo potrebbe tradursi in un aumento del cancro del 10-15% rispetto ad una situazione in cui la statura dovesse rimanere costante. 

Green J et al. The Lancet Oncology 2011; 12: 785 – 794

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TC come metodica unica per evidenziare la disfunzione ventricolare destra nell’embolia polmonare

È noto che nei pazienti con embolia polmonare acuta (PE), il grado di disfunzione ventricolare destra rilevato all’ecocardiogramma determina in modo significativo il rischio di mortalità. Gli obiettivi di un recente studio italiano, segnalato fra gli alert di Evidence Updates del BMJ del 14 agosto, erano 
a) identificare un criterio sensibile e semplice per la oggettivazione della disfunzione ventricolare destra alla tomografia computerizzata multidetettore (MDCT), usando l’ecocardiografia come standard di riferimento e
b) valutare il valore predittivo del criterio individuato con la MDCT – nei confronti della mortalità o del peggioramento clinico dei pazienti con PE.
La disfunzione ventricolare destra (rapporto tra dimensioni del ventricolo dx/ventricolo sx) rilevabile con la MDCT (vedi
Fig. acclusa) è stata valutata a livello centrale da un gruppo di radiologi ignari dei dati clinici ed ecocardiografici e confrontata con questi ultimi utilizzati come parametro di riferimento. Un rapporto > 0,9 ha dimostrato una sensibilità del 92% per definire la disfunzione del ventricolo destro [95% CI 88-96]. Complessivamente, sono stati inclusi nello studio 457 pazienti; di questi 303 avevano disfunzione ventricolare destra alla MDCT. La mortalità intraospedaliera o il peggioramento clinico si è verificato in 44 pazienti con disfunzione ventricolare MDCT rilevata e in 8 pazienti senza disfunzione ventricolare destra (14.5 vs 5.2%, p <0.004). Il valore predittivo negativo della disfunzione ventricolare destra per morte a causa di PE è stata del 100% (95% CI 98-100). La disfunzione ventricolare destra alla MDCT si è rivelata essere un predittore indipendente di morte ospedaliera o di peggioramento clinico in tutti i pazienti dello studio [HR 3.5, IC 95% 1.6-7.7, p = 0.002] e nei pazienti emodinamicamente stabili (HR 3.8, 95 CI 1.3-10.9%, p = 0.007).
Queste le conclusioni degli AA:
nei pazienti con EP acuta, la MDCT potrebbe essere usata come una procedura unica per la diagnosi e la stratificazione del rischio; i pazienti senza disfunzione ventricolare destra alla MDCT hanno un basso rischio di esito avverso in ospedale.

Becattini C et al. Multidetector computed tomography for acute pulmonary embolism: diagnosis and risk stratification in a single test. Eur Heart J. 2011 Jul; 32(13):1657-63

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Fibrosi retroperitoneale idiopatica: prednisone più efficace del tamoxifene nel mantenere la remissione

Interessante il contributo tutto italiano su una patologia rara ma che ogni medico internista può incontrare nella sua vita lavorativa. Dato per scontato che il trattamento di induzione della fibrosi retroperitoneale idiopatica (FRI) prevede la somministrazione di 1 mg/Kg di prednisone per almeno 1 mese, un recente studio – open-label, randomizzato e controllato – ha voluto verificare se una volta ottenuta la remissione, il mantenimento della medesima fosse più efficace continuando lo steroide pur con dosaggi decrescenti o sostituendolo con tamoxifene a posologia fissa di 0.5 mg/die per i successivi 8 mesi. L’obiettivo di fondo era quello di evitare un prolungato trattamento steroideo con tutte le conseguenze negative che ne potevano derivare. Dei 40 pazienti arruolati nel periodo 1° Ottobre 2000 – 30 Giugno 2006, di età compresa fra i 18 e gli 85 anni, 36 hanno raggiunto la remissione dopo il trattamento di induzione e sono stati posti in maniera casuale nei due bracci di trattamento con una sequenza di randomizzazione 1:1. Dopo i preventivati 8 mesi di terapia con dosi decrescenti di prednisone o con tamoxifene è stata verificata la percentuale di recidiva radiologica analizzata per intention to treat con l’esecuzione di TC ed RM refertata da due radiologi che non conoscevano a quale gruppo di trattamento appartenesse il paziente. Successivamente i pazienti sono stati seguiti per altri 18 mesi. Al termine degli 8 mesi la recidiva si è avuta in un solo un paziente (6%) del gruppo prednisone vs i sette pazienti (39%) del gruppo tamoxifene (differenza -33% [95% CI -58 -8, p = 0.0408]. Anche nell’ulteriore periodo di di follow up si è mantenuta la superiorità di efficacia del prednisone: la probabilità stimata di ricaduta cumulativa a 26 mesi è stata del 17% con prednisone e 50% con tamoxifene (differenza -33% [-62 -3, p = 0.0372). Ovviamente gli effetti collaterali quali l’aspetto cushingoide di grado 2 e la comparsa o il peggioramento dell’ipercolesterolemia sono stati più comuni nel gruppo trattato con prednisone rispetto al gruppo trattato con tamoxifene (p = 0.0116 e p = 0.0408, rispettivamente). Gli AA concludono pertanto che nella FRI il prednisone deve considerarsi il trattamento di prima scelta tanto nella fase iniziale quanto in quella di mantenimento, essendo più efficace del tamoxifene nell’evitare le recidive.

Vaglio A et al. Prednisone versus tamoxifen in patients with idiopathic retroperitoneal fibrosis: an open-label randomised controlled trial. The Lancet, Volume 378, Issue 9788, Pages 338 – 346, 23 July 2011

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I miti da sfatare: gli isoflavonoidi come terapia delle “complicanze” menopausali

Le preoccupazioni di fondo per quanto riguarda il rischio di una terapia sostitutiva con estrogeni hanno portato ad un aumento significativo dell’utilizzo di prodotti di soia nonostante la mancanza di prove di efficacia per tali preparati. L’obiettivo di uno studio recentemente comparso sugli Archives of Internal Medicine è stato quello di determinare l’efficacia degli isoflavoni della soia nella prevenzione della perdita ossea e dei sintomi della menopausa. Lo studio randomizzato, controllato con placebo, in doppio cieco è stato condotto dal 1° luglio 2004 al 31 marzo 2009. Ha reclutato 248 donne tra i 45 ei 60 anni in menopausa da 5 anni con un T score a livello della colonna lombare o dell’anca di -2,0 o superiore, assegnate in modo casuale ed in proporzioni uguali a ricevere quotidianamente 200 mg die di isoflavoni di soia o placebo. L’endpoint primario era il cambiamento nella densità minerale ossea della colonna lombare, dell’anca e del collo del femore dopo 2 anni di trattamento. Gli outcomes secondari includevano la valutazione dei cambiamenti dei sintomi della menopausa, le variazioni citologiche vaginali, del N-telopeptide, del collagene di tipo I osseo, dei lipidi e della funzione tiroidea. Questi i risultati dopo i 2 anni di follow up

  • non state riscontrate differenze significative tra le partecipanti che erano state trattate con gli isoflavonoidi della soia (n = 122) e quelle che avevano assunto il placebo (n = 126) in merito a modifiche della densità minerale ossea della colonna vertebrale (-2,0% e -2,3%, rispettivamente), dell’anca (-1,2% e -1,4% rispettivamente) o del collo del femore (-2,2% e -2,1% rispettivamente)

  • le “vampate” erano ancora presenti nel 48.4% delle donne che erano state trattate con gli isoflavonoidi vs il 31.7% di quelle che avevano assunto il placebo (p = 0.02)

  • nessuna differenza significativa è stata riscontrata tra i gruppi in altri esiti.

In conclusione, nella popolazione esaminata la somministrazione giornaliera di compresse contenenti 200 mg di isoflavoni di soia per 2 anni non ha impedito la perdita ossea o migliorato i sintomi della menopausa. 

Silvina Levis et al. Soy Isoflavones in the Prevention of Menopausal Bone Loss and Menopausal Symptoms  A Randomized, Double-blind Trial. Arch Intern Med. 2011;171(15):1363-1369

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Funzionalità epatica marker di prediabete e diabete 2

Nei giovani adulti sarebbe clinicamente utile considerare anche l’alanino aminotransferasi (Alt) e la gamma-glutamil transferasi (Ggt) come biomarker negli algoritmi per la valutazione del rischio di diabete. Il dato, proveniente da uno studio retrospettivo di corte realizzato da un gruppo di ricercatori della Tulane university di New Orleans guidato da Quoc Manh Nguyen, è rilevante poiché è noto che un’elevazione di Alt e Ggt, marker surrogati di disfunzione del fegato e steatosi epatica non alcolica, fanno parte della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2 a essa correlato, tuttavia erano scarse le informazioni sulle possibilità predittive dei due enzimi circa il prediabete e il diabete di tipo 2. Il team ha preso in considerazione soggetti adulti normoglicemici (n=874), prediabetici (n=101) e diabetici (n=80) di età compresa fra i 26 e i 50 anni (età media: 41,3), seguiti per un periodo di 16 anni a partire da una giovane età adulta (compresa fra i 18 e i 38 anni; età media: 25,1), con misurazioni dei fattori variabili di rischio cardiovascolare, compresi Alt e Ggt. Il tasso di prevalenza di stato diabetico al follow-up, calcolato in base ai quartili di Alt e Ggt alla baseline, hanno evidenziato un trend negativo sia per il prediabete sia per il diabete. A un’analisi di regressione logistica multivariata longitudinale, che ha incluso variabili antropometriche, emodinamiche e metaboliche, così come il consumo di alcol e il fumo, gli individui con valori basali elevati di Alt e Ggt hanno mostrato una probabilità maggiore, rispettivamente, di 1,16 e 1,20 volte di sviluppare diabete. Non si sono notate associazioni analoghe in relazione al prediabete. Per quanto riguarda il valore predittivo di Alt e Ggt, l’analisi delle curve Roc ha portato a risultati compresi tra 0,70 e 0,82, con valori significativamente più alti per il diabete rispetto al prediabete.

Diabetes Care, 2011 Sep 27. [Epub ahead of print]

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Bpco, velocità di modificazione del Fev1 molto variabile

Tra i pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), la velocità di modificazione del Fev1 (volume espiratorio forzato in 1 secondo) – fattore chiave nello sviluppo della patologia – è molto variabile, con picchi di declino nei fumatori correnti, nei pazienti con enfisema e in quelli con reversibilità al broncodilatatore. È la conclusione tratta nello studio multicentrico Eclipse, coordinato da Jørgen Vestbo dell’università di Copenhagen. Nel trial sono stati coinvolti 2.163 pazienti, il cui Fev1 è stato analizzato dopo somministrazione di un broncodilatatore lungo un periodo di 3 anni. La velocità media di modificazione del Fev1 è corrisposta a un declino di 33 ml all’anno, con variazioni significative tra i pazienti studiati: la deviazione standard interindividuale si è infatti attestata su 59 ml all’anno. Durante i 3 anni di studio, il 38% dei soggetti ha fatto registrare un declino del Fev1 di oltre 40 ml all’anno, il 31% un declino compreso tra 21 e 40 ml all’anno, il 23% una modificazione di Fev1 variabile tra una riduzione di 20 ml e un aumento di 20 ml all’anno, e l’8% una crescita del parametro respiratorio di oltre 20 ml all’anno. La velocità media di declino del Fev1 è stata maggiore di 21 ml all’anno nei fumatori attuali rispetto ai non fumatori correnti, di 13 ml all’anno nei pazienti con enfisema rispetto a quelli senza, e di 17 ml all’anno nei pazienti con reversibilità al broncodilatatore rispetto a quelli senza.

N Engl J Med, 2011 Sep 26. [Epub ahead of print]

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Rapporto reciproco tra sintomi depressivi e menopausali

L’ingresso in menopausa è un momento delicato al quale ogni donna reagisce a modo suo: c’è chi la considera un’esperienza che non determina particolari problemi, c’è invece chi la vive come una transizione che porta con sé sindromi depressive. Uno studio longitudinale, della durata di nove anni e coordinato da Judy R. Strauss, della Phoenix university (Usa), si è posto il duplice obiettivo di valutare quanto le sintomatologie depressive abbiano ripercussioni negative in menopausa e quanto invece una menopausa “difficile” possa portare alla comparsa di depressione. La ricerca ha raccolto dati provenienti dal National survey of midlife development in the United States (Midus). Nel caso specifico, sono state considerate 986 donne nate tra il 1946 e il 1964, nelle quali sono stati valutati sintomi depressivi, sintomi legati alla menopausa e covarianti demografiche. Ne è emerso che le donne depresse faticano di più ad adattarsi ai cambiamenti correlati alla menopausa e ai sintomi che la caratterizzano. Allo stesso modo, le donne nelle quali l’entrata in menopausa è condizionata da una sintomatologia particolarmente severa saranno a maggiore rischio di sviluppare sindromi depressive, o a vederne peggiorata l’intensità se già presenti. La stretta associazione tra sintomi menopausali e peggioramento della depressione, concludono gli studiosi, ha quindi importanti ricadute nella pratica clinica, che deve essere improntata alla risoluzione di entrambe le problematiche.

Maturitas, 2011 Sep 20. [Epub ahead of print]

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Epatite C acuta: due indicatori per la prognosi

La presenza di mutazioni del gene IL28B associate ai livelli sierici di IP-10 (Interferon-gamma-inducible protein-10/proteina-10 inducibile dall’Interferone gamma) sono in grado di identificare quei pazienti affetti da epatite C acuta in cui l’infezione si risolve spontaneamente e quelli che necessitano di un trattamento antivirale precoce. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’università di Vienna guidati da Sandra Beinhardt che ha confrontato 120 pazienti con epatite C acuta e 96 individui sani. Le mutazioni prese in considerazione dai ricercatori austriaci sono due polimorfismi a singolo nucleotide (rs12979860 e rs8099917) rilevati tramite Pcr (Polymerase chain reaction), mentre i livelli sierici di IP-10 sono stati misurati con test Elisa. La combinazione ottimale per identificare i pazienti che presentano le maggiori probabilità di clearence spontenea è rappresentata dalla presenza del genotipo rs12979860 C/C e livelli di IP-10 inferiori a 540 pg/ml: queste caratteristiche sono infatti riscontrabili nell’83% dei pazienti in cui l’infezione si risolve spontaneamente.

Gastroenterology, 2011 Sep 28. [Epub ahead of print]

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Incontinenza: efficace l’ossibutinina cloridrato in gel

9 Nov 2011 Urologia

L’ossibutinina cloridrato nella formulazione in gel per uso topico è efficace nel trattamento dell’incontinenza da urgenza. Emerge da un’analisi di sottogruppo di un trial clinico di fase 3 condotto da Peter K. Sand dell’university of Chicago Pritzker school of medicine e collaboratori. La sperimentazione, della durata di 12 settimane, è stata condotta su 704 donne con incontinenza da urgenza randomizzate ad assumere il farmaco o un placebo.
L’impiego del farmaco rispetto al placebo ha consentito di ridurre gli episodi di incontinenza nell’arco di una giornata (3 episodi in meno nel gruppo in trattamento contro i 2,5 in meno nel gruppo placebo) e la frequenza delle minzioni (P = .0013), ha aumentato la quantità di urina emessa nel corso delle minzioni (P = .0006) e la qualità di vita (P
< .0161). L’unico effetto collaterale significativo riscontrato è stato la secchezza delle fauci, presente nel 7,4% delle donne in trattamento e nel 2,8% del gruppo di controllo.

Am J Obstet Gynecol, 2011 Aug 11. [Epub ahead of print]

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