Confermata la relazione tra asma e campi elettromagnetici

9 Nov 2011 Pediatria

L’esposizione materna a campi elettromagnetici durante la gravidanza aumenta il rischio di asma nel nascituro e il legame è dose-dipendente, secondo uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori del Kaiser foundation research institute di Oakland (Usa) guidato da De-Kun Li. L’indagine – uno studio prospettico – ha messo in relazione i livelli di esposizione in gravidanza ai campi elettromagnetici, rilevati dalle stesse madri durante la gestazione tramite un misuratore di radiazioni, con la diagnosi di asma effettuata in 626 bambini. I risultati hanno evidenziato che per ogni incremento di 1 milliGauss (mG) nell’esposizione materna si registra un aumento del 15% del rischio di sviluppare l’asma. Il che equivale a dire che, diviso il gruppo in fasce identificate dai livelli medi di esposizione, i bambini nati da madri collocate nel gruppo a più alta esposizione (livello medio nelle 24 ore >2,0 mG) presentano un rischio 3,5 volte più alto di sviluppare la patologia rispetto ai figli di madri collocate nel gruppo a minore esposizione (=/<0,3 mG). Inoltre, il rischio aumenta ulteriormente se la madre ha a sua volta una storia clinica di asma e se il bambino è primogenito.

Arch Pediatr Adolesc Med, 2011; 165(10): 945-50

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Epatite C acuta: due indicatori per la prognosi

La presenza di mutazioni del gene IL28B associate ai livelli sierici di IP-10 (Interferon-gamma-inducible protein-10/proteina-10 inducibile dall’Interferone gamma) sono in grado di identificare quei pazienti affetti da epatite C acuta in cui l’infezione si risolve spontaneamente e quelli che necessitano di un trattamento antivirale precoce. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’università di Vienna guidati da Sandra Beinhardt che ha confrontato 120 pazienti con epatite C acuta e 96 individui sani. Le mutazioni prese in considerazione dai ricercatori austriaci sono due polimorfismi a singolo nucleotide (rs12979860 e rs8099917) rilevati tramite Pcr (Polymerase chain reaction), mentre i livelli sierici di IP-10 sono stati misurati con test Elisa. La combinazione ottimale per identificare i pazienti che presentano le maggiori probabilità di clearence spontenea è rappresentata dalla presenza del genotipo rs12979860 C/C e livelli di IP-10 inferiori a 540 pg/ml: queste caratteristiche sono infatti riscontrabili nell’83% dei pazienti in cui l’infezione si risolve spontaneamente.

Gastroenterology, 2011 Sep 28. [Epub ahead of print]

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Ar: sospensione dei Dmards con remissione duratura

Un piccolo trial, condotto su 13 pazienti con artrite reumatoide (Ar) in fase molto precoce ma con elementi indicativi di prognosi scarsa, ha dimostrato per la prima volta che si può ottenere la remissione duratura della patologia mediante un trattamento con Dmards sintetici, da sospendere quando sono raggiunti gli indicatori di guarigione. Lo studio, realizzato da Junko Kita dell’università di Nagasaki (Giappone) e collaboratori, ha incluso soggetti la cui malattia era considerata potenzialmente molto erosiva. Dopo aver verificato la presenza di autoanticorpi e, mediante Rm, quella di edema osseo, si è avviata una terapia mirata mediante Dmards, somministrati per 12 mesi. Nei casi in cui un paziente avesse conseguito la remissione della patologia – in base allo Sdai (simplified disease activity index) e a una riduzione del punteggio Rm di edema osseo fino al 33% rispetto al valore basale – il trattamento veniva interrotto e si osservava la condizione clinica per altri 12 mesi. I Dmards sono stati sospesi in 5 pazienti, di cui 1 perso al follow-up a causa di una lesione che ha reso necessario un intervento di chirurgia ortopedica. Dei restanti 4 soggetti, 3 hanno mostrato una costante remissione dello Sdai nei successivi 12 mesi Dmards-free, senza alcuna evidenza di progressione radiografica.

Mod Rheumatol, 2011 Sep 30. [Epub ahead of print]

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Bisfosfonati, preferita assunzione mensile a settimanale

Il passaggio dalla somministrazione settimanale di bisfosfonati a quella mensile di ibandronato viene accolto molto favorevolmente dalle pazienti in postmenopausa, che lo considerano un metodo di trattamento più comodo. Lo evidenziano i giudizi espressi al questionario Opsat-Q (Osteoporosis patient satisfaction questionnaire) da 385 donne con osteoporosi trattate per almeno 6 mesi con un bisfosfonato orale settimanale prima di passare a ibandronato orale mensile, incluse in uno studio multicentrico, prospettico e in aperto coordinato da Tonko Vlak, dell’Ospedale universitario di Spalato (Croazia). Le partecipanti dovevano compilare l’Opsat-Q alla visita iniziale, prima dello switch terapeutico, e 6 mesi dopo il cambio di trattamento. Si è così verificato che, al termine del semestre con ibandronato una volta al mese, i punteggi in tutti e 4 gli ambiti considerati dal questionario (convenienza, comodità in relazione alle attività quotidiane, soddisfazione generale, mancanza di effetti collaterali) erano più alti nella seconda compilazione, così come era superiore il Composite satisfaction score. All’epoca dello studio, fanno notare gli autori della ricerca, non era noto che l’effetto antifratturativo dell’ibandronato a livello dell’anca fosse inferiore a quello di altri bisfosfonati.

Clin Rheumatol, 2011 Sep 29. [Epub ahead of print]

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Osteoartrosi, conferme sul sodio ialuronato intrarticolare

9 Nov 2011 Ortopedia

L’efficacia e la sicurezza dell’iniezione intrarticolare di ialuronato di sodio per il trattamento dell’osteoartrosi, già evidenziato in diversi trial clinici, si conferma in uno studio osservazionale italiano, condotto nell’ambito della normale pratica medica. La ricerca, coordinata da Calogero Foti dell’università Tor Vergata di Roma, ha coinvolto 47 centri specialistici di fisiatria, ortopedia e reumatologia, nei quali è stata studiata una popolazione di 1.266 pazienti ambulatoriali, caratterizzata da una certa predominanza femminile (66%). L’articolazione più comunemente interessata era quella del ginocchio, mentre la durata mediana maggiore della malattia riguardava l’articolazione del carpo (40-60 mesi). In tutti i casi sono stati somministrati per via intrarticolare 2mL di ialuronato di sodio, una volta alla settimana per 3 settimane. Il tasso di eventi avversi è risultato dello 0,8%; in particolare ne sono stati segnalati 13, dei quali 12 di gravità lieve o moderata; solo 1 paziente ha dovuto abbandonare lo studio, ma non si sono avuti eventi avversi gravi. Una cosomministrazione di anestetico locale è stata richiesta dai pazienti in una quota variabile, fino al 10% dei casi. Si sono registrati significativi miglioramenti ai punteggi della scala Vas (Visual analogue scale), dell’Haq (Health assessment questionnaire) e dell’EuroQoL (Euro-quality of life) questionnaire, indicativi, rispettivamente, di una riduzione del dolore, di una migliorata mobilità articolare e di un’accresciuta qualità di vita.

Eur J Phys Rehabil Med, 2011; 47(3):407-15

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Menopausa precoce è predittiva di artrite reumatoide

Nelle donne la comparsa di artrite reumatoide può essere predetta da un ingresso precoce in menopausa. Questa evidenza proviene da uno studio condotto da un’équipe di reumatologi dell’Ospedale universitario della Scania, a Malmö (Svezia), guidata da Mitra Pikwer. Verrebbe così dimostrato l’influsso delle modificazioni ormonali in età fertile sullo sviluppo della malattia autoimmune nel periodo postmenopausale. La ricerca si è basata sui dati relativi a 30.447 individui (di cui 18.326 donne) coinvolti, tra il 1991 e il 1996, in un’indagine di carattere sanitario nella comunità. Mediante la compilazione autonoma di un questionario venivano ottenute informazioni relative alle variazioni ormonali femminili e ai fattori correlati allo stress. Le cartelle cliniche relative a persone con diagnosi di artrite reumatoide sono state sottoposte a verifica e soltanto le pazienti che soddisfacevano i criteri dell’American college of rheumatology del 1987 sono state inserite in uno studio caso-controllo (1 paziente correlato a 4 soggetti sani). L’entrata in menopausa a un’età pari o inferiore ai 45 anni è risultata associata al successivo sviluppo di artrite reumatoide, con un odds ratio pari a 2,42. Tale valore è rimasto significativo (1,92) anche dopo l’apporto di correzioni per abitudine al fumo, livello d’istruzione e durata dell’allattamento al seno.

Ann Rheum Dis, 2011 Oct 4. [Epub ahead of print]

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Variabilità pressoria e insonnia: c’è un legame

Si calcola che negli Stati Uniti, in Giappone e in Finlandia dal 55% al 75% dei pazienti ipertesi abbia un apparecchio per la misurazione domiciliare della pressione ed ormai molti studi epidemiologici hanno dimostrato che la rilevazione domiciliare della pressione (HBPM) predice meglio della rilevazione nell’ambulatorio del medico la prognosi cardiovascolare. Inoltre è meno costosa e di più facile utilizzo della rilevazione delle 24 ore (ABPM), anche se la superiorità di quest’ultima per certe condizioni è fuori discussione. Informazioni importanti possono venire dall’HBPM anche per la variabilità pressoria che, insieme alla variabilità della frequenza cardiaca (HR), è un indice di prognosi cardiovascolare. A questo proposito, uno studio finlandese ha sfruttato il notevole numero di dati forniti dalla HBPM per valutare la variabilità pressoria e dell’HR in rapporto ai disturbi del sonno. Classificando come “short sleepers” i soggetti che dormono meno di 6 h per notte, come “long sleepers” quelli che dormono più di 9 h e considerando quelli che dormono 7-8 h come riferimento, si è visto che:

    1. la variabilità della PA e della FC (intesa come deviazione standard dei valori mattino-sera, day-by-day, mattino day-by-day e prima-seconda misurazione) è significativamente maggiore nei pazienti con insonnia persistente rispetto a quelli senza insonnia

    2. la variabilità mattino-sera, day-by-day, e del mattino day-by-day della pressione sistolica (PAS) è significativamente più alta nei long sleepers

    3. la PAS mattino day-by-day, la pressione diastolica (PAD) day-by-day e la PAD prima vs seconda misurazione sono più elevate negli short sleepers

    4. l’insonnia combinata con gli short sleepers aumenta ancora la variabilità.

Come si vede è un sistema a costo zero che può dare delle indicazioni aggiuntive sulla variabilità sia della PA che della HR che, ripetiamo, sono indicatori importanti della prognosi nei pazienti ipertesi. 

Johansson JK. Journal of Hypertension 2011, 29:1897-1905

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Colchicina nella prevenzione secondaria della pericardite ricorrente

La recidiva di pericardite è probabilmente la più comune e preoccupante complicanza della pericardite acuta. Si verifica dal 10 al 30% dei casi in pazienti che abbiano avuto un primo episodio di pericardite acuta. Dopo una prima recidiva il tasso di ricorrenza può raggiunge il 50%. Le linee guida europee del 2004 raccomandano la colchicina nel trattamento della pericardite ricorrente (classe I) e nella pericardite acuta (classe II a) sulla base di studi non randomizzati (gli studi COPE e CORE erano studi open label e su pazienti provenienti da un singolo centro).
Lo studio CORP, trial italiano recentemente pubblicato sugli Annals, ha valutato l’efficacia e la sicurezza di uso della colchicina aggiunta alla terapia convenzionale nella prevenzione secondaria della ricorrenza di pericardite in pazienti che abbiano già avuto una prima recidiva. Si tratta di un trial prospettico, randomizzato in doppio cieco verso placebo, che ha arruolato in quattro ospedali italiani 120 pazienti in cui l’episodio di recidiva di pericardite era documentato dalla presenza di dati clinici, laboratoristici e strumentali. I pazienti erano randomizzati a ricevere colchicina in aggiunta al trattamento convenzionale con aspirina 800-1000 mg (o 600 mg di ibuprofene) per os ogni 8 ore per 7-10 gg, con terapia a scalare per 3-4 settimane. La dose di colchicina era da 1.0 a 2.0 mg il primo giorno, seguiti da 0.5/1.0 mg/die per sei mesi. Nei pazienti con peso corporeo inferiore a 70 kg o con intolleranza alle dosi maggiori di colchicina, veniva somministrato il dosaggio inferiore (0.5 mg ogni 12 ore seguiti da 0.5 mg/die). I pazienti con intolleranza all’aspirina (allergia, ulcera peptica o rischio di sanguinamento GE) o con un inaccettabile rischio emorragico, assumevano prednisone da 0.2 a 0.5 m/kg per 4 settimane con successiva riduzione a scalare del dosaggio del farmaco. Tutti i pazienti hanno completato lo studio. A 18 mesi il tasso di recidiva era del 24% nel gruppo colchicina e del 55% nel gruppo placebo (riduzione del rischio assoluto 0.31 [95% CI, 0.13 to 0.46], riduzione del rischio relativo 0.56 [CI 0.27-0.73] con un NNT di 3. La colchicina inoltre ha ridotto la persistenza dei sintomi a 72 ore (riduzione del rischio assoluto 0.30 [CI 0.13-0.45] e riduzione del rischio relativo 0.56 [CI 0.27-0.74]) ed il numero medio delle recidive; ha inoltre aumentato il tasso di remissione alla prima settimana ed ha allungato l’intervallo di recidiva. Durante i 20 mesi di osservazione non si sono avuti casi di pericardite restrittiva. Non è noto il meccanismo specifico con cui la colchicina previene la pericardite; esso è probabilmente da collegare alle concentrazioni che il farmaco raggiunge nei leucociti e specie nei granulociti, che sono circa 16 volte superiori alle concentrazioni plasmatiche. Inoltre se la colchicina si è dimostrata efficace nella prevenzione della pericardite ricorrente è necessario chiarire se tale terapia abbia indicazione anche nella fase iniziale della pericardite acuta (a questo riguardo siamo in attesa dei dati dello studio ICAP). I criteri di esclusione dello studio CORP non consentono di estendere i risultati a pazienti con pericarditi infettive, come quelle virali. Un ultimo punto in sospeso riguarda la durata ottimale della terapia dal momento che alcuni autori, avendo descritto la comparsa di recidiva alla sospensione del farmaco, propongono una estensione della durata del trattamento fino a 12-24 mesi dopo l’ultima recidiva, personalizzandola per ciascun paziente (nei casi più gravi con lentissima riduzione dei dosaggi dei farmaci). 

Imazio M. Annals of Internal  Medicine 2011; 155: 409-414

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Cancro del pancreas: un recente aggiornamento su Lancet

9 Nov 2011 Oncologia

Numerosi passi avanti sono stati fatti nella conoscenza della biologia del cancro del pancreas e nella gestione del paziente affetto da questa patologia. Fattori di rischio per questa malattia sono in primis il fumo e l’anamnesi familiare di neoplasia del pancreas (con un incremento da 9 a 32 volte a secondo del numero dei consanguinei affetti), cui si associano diabete, obesità, gruppo sanguigno non O, etnia afroamericana, dieta ricca in grassi e in proteine animali, infezioni da helicobacter pylorii e parodontopatie. Il cancro del pancreas è la quarta causa di morte per neoplasia negli USA. Il numero dei pazienti affetti e dei deceduti per questa patologia è in progressivo aumento, mentre per altri tipi di tumore, la mortalità è in declino. Abbiamo evidenze scientifiche che dimostrano come lo screening nei familiari di primo grado dei pazienti con neoplasia del pancreas possa identificare precocemente la presenza di precursori non invasivi. Il 10% circa dei pazienti con età ≥ 50 anni e con tre familiari affetti da tumore del pancreas, presenta una neoplasia riconoscibile all’esame endoscopico. La CT trifasica con ricostruzione in 3 dimensioni è il miglior test diagnostico iniziale per il cancro del pancreas. Malgrado un miglioramento nella diagnosi e nella terapia, solo il 4% dei pazienti è vivo a 5 anni dalla diagnosi. La sopravvivenza è decisamente migliore nei tumori localizzati, suscettibili di completa rimozione chirurgica (l’unica reale chance di cura), sfortunatamente l’80-85% dei pazienti si presenta con malattia già avanzata. Per questi pazienti la mediana di sopravvivenza è di 3-6 mesi nella malattia metastatica e di 9-15 mesi nei soggetti con malattia localmente avanzata. Sappiamo come questa neoplasia presenti una risposta non soddisfacente alla maggior parte dei chemioterapici e oltre a ciò non è disponibile una terapia di seconda linea per questo tumore. Un altro aspetto importante è che i pazienti con cancro del pancreas sono gestiti meglio se seguiti da un team multidisciplinare che include oncologi, chirurghi, gastroenterologi, radiologi, patologi, terapisti del dolore, dietisti, assistenti sociali e quando necessario esperti di cure terminali. È necessario quindi proseguire nella ricerca dei fattori che contribuiscono allo sviluppo e alla progressione di questa malattia. 

Vincent A. The Lancet 2011; 378 (9791): 607 – 620

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Ancora sull’aspirina in prevenzione primaria

Le maggiori Linee Guida, con qualche differenza, raccomandano l’uso dell’aspirina in prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari (CV) se sussiste un rischio a 10 anni > 10% o, secondo alcune, > 20%.
Numerose metanalisi non hanno però fornito dati definitivi e recentemente 3 metanalisi pubblicate da 3 gruppi, utilizzando gli stessi trials randomizzati vs placebo (9 trials), sono giunte a conclusioni non perfettamente sovrapponibili. Abbiamo provato a confrontare in una
tabella questi lavori, tutti recentissimi e pubblicati su 3 riviste diverse.
Bertolucci e coll.
(Am J Cardiol 2011; 107: 1796-1801) hanno riscontrato che l’aspirina diminuisce il rischio di eventi CV e di IM non fatale ma non è stata riscontrata significativa riduzione di stroke, mortalità CV, mortalità totale e malattia coronarica.
Berger e coll.
(Am Heart J 2011; 162: 115-124.e2) sono giunti a conclusioni ancora più negative: raggruppando l’IM fatale e non fatale non hanno trovato significativa riduzione nel gruppo aspirina; l’aspirina in prevenzione primaria fornisce solo un modesto beneficio che però è controbilanciato dai suoi rischi (per ogni 1.000 soggetti trattati per un periodo di 5 anni l’aspirina previene 2.9 eventi cardiovascolari maggiori ma causa 2.9 sanguinamenti maggiori).
Raju e coll
(The American Journal of Medicine 2011; 124: 621-629) sono invece lievemente più ottimisti: l’aspirina in prevenzione primaria previene gli eventi CV, l’IM non fatale, lo stroke ischemico ma a prezzo di un aumento significativo dello stroke emorragico e dei sanguinamenti maggiori (occorre sottolineare che sul rischio sanguinamenti tutti gli AA sono concordi).
La questione rimane aperta, anche perché un’altra metanalisi
(Butalia et al. Cardiovascular Diabetology 2011; 10: 25) eseguita su pazienti diabetici non cardiopatici – utilizzando 7 dei trials presi in esame dagli altri studi – mostra una riduzione significativa del rischio di eventi cardiovascolari maggiori a fronte di un sostenibile rischio di sanguinamento; in termini assoluti, per ogni 10.000 pazienti diabetici trattati con aspirina, 109 eventi cardiovascolari maggiori possono essere evitati a fronte di 19 sanguinamenti maggiori (rimane naturalmente aperta la questione se considerare il diabete di per se stesso una condizione di malattia cardiovascolare).

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