Studio ARISTOTLE: un’altra alternativa al warfarin nei pazienti con fibrillazione atriale

Quanto emerge dai risultati dell’ARISTOTLE (Apixaban for Reduction in Stroke and Other Thromboembolic Events in Atrial Fibrillation) Trial, ponderoso Studio Multicentrico randomizzato a doppio cieco che ha coinvolto più di 18.000 pazienti con FA per un follow up medio di 1.8 anni (vedi Tabella acclusa), è molto incoraggiante: apixaban, un nuovo inibitore diretto del fattore Xa utilizzabile per via orale che non richiede il controllo coagulativo, si è dimostrato più efficace e sicuro del warfarin nel prevenire il cardioembolismo cerebrale e sistemico in questa tipologia di pazienti. Di seguito vengono riportati i risultati dello studio in estrema sintesi

  • il tasso di comparsa dell’outcome primario (stroke ischemico o emorragico o tromboembolismi periferici) è stato pari a

    • 1.27% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a

    • 1.60% per anno nel gruppo warfarin
      (HR con apixaban 0.79; 95% IC 0.66-0.95, p <0.001 per non-inferiorità, p = 0.01 per superiorità)

  • la percentuale di sanguinamenti maggiori è stata pari a

    • 2.13% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a

    • 3.09% per anno nel gruppo Warfarin
      (HR 0.69; IC 95% 0.60-0.80, p <0.001)

  • il tasso di morte per qualsiasi causa è stato pari a

    • 3.52% e 3.94%, rispettivamente per i due trattamenti
      (HR 0.89; 95% CI 0.80-0.99, p = 0.047)

  • Il tasso di ictus emorragico è stato pari a

    • 0.24% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a

    • 0.47% per anno nel gruppo warfarin
      (HR 0.51; 95% CI 0.35-0.75, p <0.001)

  • il tasso di ictus ischemico o di incerta origine è stato pari a

    • 0.97% per anno nel gruppo apixaban

    • 1.05% per anno nel gruppo warfarin
      (HR 0.92; IC 95% 0.74-1.13, p = 0.42).

Gli AA concludono che ‘nei pazienti con fibrillazione atriale, apixaban si è dimostrato superiore al warfarin nella prevenzione dell’ictus o dell’embolia sistemica ed è risultato anche più sicuro causando un numero inferiore di sanguinamenti; ha inoltre ridotto la mortalità per tutte le cause’. Molto interessanti anche le conclusioni dell’Editoriale di accompagnamento ‘Le conclusioni dell’ARISTOTLE, in concomitanza con le prove fornite dagli Studi RE-LY e ROCKET AF, suggeriscono che apixaban, dabigatran, e rivaroxaban hanno avuto risultati più lusinghieri di quelli che si erano ripromessi (sono tutti studi di non inferiorità). Nei tre grandi trials che hanno interessato diverse popolazioni di pazienti con fibrillazione atriale, gli inibitori diretti della trombina e gli inibitori del fattore Xa hanno dimostrato non solo di essere ugualmente o più efficaci del warfarin, ma anche di essere più sicuri, determinando un minor numero di sanguinamenti. Dopo tanto tempo, sembra oggi emergere una nuova era della terapia anticoagulante nei pazienti con fibrillazione atriale’.

Granger CB et al for the ARISTOTLE Committees and Investigators. Apixaban versus Warfarin in Patients with Atrial Fibrillation. NEJM August 28, 2011 (doi: 10.1056/NEJMoa1107039)

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Tumori orofaringei Hpv-correlati: incidenza e sopravvivenza

9 Nov 2011 Oncologia

L’incidenza dei tumori orofaringei Hpv-correlati negli Usa è in drastico aumento: tra il 1988 e il 2004 si è registrato un incremento del 225%, con un passaggio da 0,8 a 2,6 casi per 100.000 residenti. Contestualmente si è ridotta l’incidenza dei tumori orofaringei Hpv-negativi, passata da 2 casi a 1 per 100.000 residenti. È il risultato di uno studio – condotto da Anil K. Chaturvedi, del National cancer institute statunitense, e colleghi – che ha evidenziato anche come l’aumento della sopravvivenza nei pazienti affetti da tumore orofaringeo sia in parte riconducibile proprio alla maggiore diffusione di neoplasie Hpv-correlate. Il team, infatti, ha preso in considerazione la prognosi per le due tipologie di tumori (Hpv-positivi e negativi) analizzando i dati relativi a tutti i casi riportati in tre registri oncologici tra il 1984 e il 2004, corrispondenti a  271 pazienti. Per i tumori Hpv-positivi si è evidenziata una sopravvivenza mediana 6 volte maggiore rispetto a quella degli Hpv-negativi (131 mesi contro 20). Nel corso degli anni, inoltre, si è rilevato un aumento significativo della sopravvivenza per le neoplasie Hpv-positive, al quale non ha fatto riscontro un analogo miglioramento in quelle negative al Papillomavirus. Secondo gli autori, se non si registreranno cambiamenti in questo andamento, entro il 2020 l’incidenza dei tumori del cavo orale e del faringe Hpv-positivi potrebbe superare quella del cancro della cervice uterina.

J Clin Oncol, 2011 Oct 3. [Epub ahead of print]

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Distress respiratorio da H1N1: risultati della rete italiana

Istituita dalle Autorità sanitarie nazionali in vista dell’epidemia influenzale del 2009, la rete italiana di 14 unità di terapia intensiva, selezionate per la possibilità di trattare casi di sindrome da distress respiratorio (Ards) mediante ossigenazione extracorporea a membrana (Ecmo), è stata all’altezza del compito, garantendo un alto tasso di sopravvivenza ai pazienti con grave Ards da sospetta infezione H1N1. Il bilancio dell’attività svolta tra l’agosto del 2009 e il marzo del 2010 è fornito da un articolo firmato da Nicolò Patroniti, dell’università di Milano – Bicocca (Monza), insieme a 14 intensivisti, anestesisti e rianimatori coprotagonisti dell’esperienza del cosiddetto EcmoNet, caratterizzato da un call center nazionale e dalla capacità di indirizzare tutti i pazienti gravi nei centri della rete, con la garanzia di un trasferimento sicuro alle strutture. Nel periodo considerato, sono stati ricoverati complessivamente 153 pazienti gravemente malati con sospetta infezione da H1N1 (il 53% dei quali proveniente da altri ospedali). Di questi, 60 pazienti (49 con infezione da H1N1 confermata) sono stati sottoposti a Ecmo sulla base dei criteri stabiliti dalla commissione istitutrice di EcmoNet. In questi ultimi soggetti, la sopravvivenza fino alla dimissione ospedaliera è risultata del 68%, mentre quella entro 7 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica si è attestata sul 77%. La durata della ventilazione meccanica precedente all’Ecmo si è dimostrata un fattore predittivo indipendente di mortalità.

Intensive Care Med, 2011; 37(9):1447-57

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Cancro colorettale: screening in fasce d’età distinte per genere

7 Nov 2011 Oncologia

Sembra esserci un’importante differenza tra l’età di insorgenza degli adenomi e dei carcinomi colorettali nei due sessi, con un anticipo di circa dieci anni negli uomini. I dati provengono da uno studio di coorte condotto in Austria da Monika Ferlitsch dell’università medica di Vienna e collaboratori su 44.350 soggetti partecipanti a un programma nazionale quadriennale di screening colonscopico. Si sono riscontrati adenomi nel 19,7% dei casi, adenomi avanzati nel 6,3% e carcinomi nell’1,1%, con valori di Nns (number needed to screen, numero medio di persone che è necessario sottoporre a screening in un dato periodo per prevenire un decesso) rispettivamente pari a 5,1, 15,9 e 90,9. Il genere maschile è apparso significativamente associato a una maggiore prevalenza di neoplasie: 24,9% vs 14,8% nel caso degli adenomi; 8,0% vs 4,7% in quello degli adenomi avanzati; 1,5% vs 0,7% considerando i carcinomi. La prevalenza degli adenomi avanzati negli individui di età compresa tra i 50 e i 54 anni è risultata del 5% negli uomini ma solo del 2,9% nelle donne, con Nns pari, nell’ordine, a 20 e 34. Si è invece evidenziata la mancanza di una differenza statisticamente significativa tra la prevalenza e i Nns degli adenomi avanzati nei maschi di 45-49 anni e le donne di 55-59 anni (3,8% vs 3,9% e 26,1 vs 26). Queste fasce di età, distinte per genere, sembrano dunque poter sostituire la raccomandazione usuale di effettuare lo screening colonscopico intorno ai 50 anni in entrambi i sessi, rendendolo più efficace.

JAMA, 2011; 306(12):1352-8

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Indicazioni utili per la gestione del paziente con orticaria

L’orticaria è composta da un gruppo di malattie eterogeneo per eziologia, fattori scatenanti e presentazione clinica. L’orticaria può essere confusa con una varietà di altre malattie dermatologiche che sono simili per l’aspetto e per la presenza di prurito. Tra queste ricordiamo la dermatite atopica (eczema), le eruzioni maculo papulari da farmaci, la dermatite da contatto, le punture di insetti, l’eritema multiforme, la pitiriasi rosea. Tutte forme che il clinico esperto è in grado di distinguere, per l’aspetto distintivo delle lesioni da orticaria, per il suo intenso prurito e per la tendenza a schiarire alla compressione. L’orticaria in fase acuta è una malattia che di solito viene diagnosticata sulla base di una dettagliata storia del paziente e con l’esame obiettivo. Questi due momenti rappresentano il passaggio fondamentale per orientare verso ulteriori indagini di approfondimento diagnostico. Nei casi di orticaria acuta è possibile identificare un’eziologia specifica nel 50% dei pazienti, nei quali brevi episodi di orticaria possono essere associati temporalmente con cause identificabili e con il metodo di esposizione. Nell’orticaria cronica, che persiste per più di 6 settimane, l’identificazione eziologica è più difficile, nonostante la completezza delle procedure diagnostiche attuate. Pertanto ci troviamo di fronte a una patologia, che considerando ogni sottotipo di orticaria, ha una prevalenza life-time del 20% ed è in grado di provocare una diminuzione della qualità della vita, di influenzare le prestazioni sul lavoro e a scuola come una grave patologia allergica.

Allo scopo di migliorare l’approccio clinico di questi pazienti, un’iniziativa congiunta di esperti allergologi, immunologi clinici e dermatologi europei ha portato alla pubblicazione, su Allergy1, delle linee guida e di un documento di consenso per la gestione dei pazienti con orticaria. Si è partiti dalla bozza delle raccomandazioni, che ha tenuto conto di tutte le prove disponibili in letteratura, oltre che delle relazioni di consenso dei simposi 2000 e 2004. Questi suggerimenti sono stati poi discussi in dettaglio dai membri del board scientifico con oltre 200 specialisti internazionali, per raggiungere il consenso mediante un semplice sistema di voto sulle raccomandazioni e i passaggi decisionali di un algoritmo di gestione dell’orticaria cronica.

Il management dell’orticaria è stato affrontato considerando due aspetti iniziali entrambe basilari da considerare in ogni paziente: il primo relativo all’identificazione ed eliminazione delle cause e/o dei fattori scatenanti; il secondo rispetto a un trattamento efficace sui sintomi. Trattare la causa sarebbe l’opzione migliore, ma spesso nell’orticaria questo non è possibile nella maggior parte dei pazienti, specialmente quando l’orticaria inducibile è prevalentemente idiopatica. Evitare i fattori o gli stimoli scatenanti può essere praticabile in quei rari pazienti con un orticaria IgE mediata e in parte nelle orticarie da stimolo fisico. Ci sono poi casi selezionati di orticaria associata a processi infiammatori come l’infezione da Helicobacter Pylori, le malattie parassitarie o le intolleranze alimentari. Oppure le orticarie da stress in cui lo stress psicologico può causare o aumentare il prurito. In tutti i casi comunque dovrebbe essere considerato il trattamento dei sintomi durante la ricerca della causa di orticaria. La terapia sintomatica è attualmente l’approccio gestionale più diffuso e come e quando scegliere le opzioni terapeutiche dell’algoritmo di gestione dell’orticaria è stato il core del documento di consenso.

L’obiettivo terapeutico primario per migliorare i sintomi è quello di ridurre l’effetto dei mediatori delle mast-cell sugli organi target. Considerando che la maggior parte dei sintomi dell’orticaria sono mediati principalmente dai recettori H1 dell’istamina localizzati nelle cellule endoteliali (ponfi) e nelle fibre sensitive (rossore e prurito) è chiara l’importanza in questi casi della terapia con antistaminici. Dal documento è emersa l’indicazione a utilizzare antistaminici di nuova generazione senza effetto sedativo e privi di effetti anticolinergici, in sostituzione a quelli di prima generazione che, pur disponibili da circa 60 anni, sono fortemente non raccomandati per gli spiccati effetti anticolinergici e una prevalente azione sedativa (>12 ore) sul sistema nervoso centrale (SNC) rispetto all’effetto contro il prurito (4-6 ore). Così come è sconsigliato l’uso nella pratica clinica dell’astemizolo e della terfenadina, per i noti effetti cardiotossici in concomitanza con l’assunzione di ketoconazolo o eritromicina.

Il profilo di sicurezza raggiunto dai nuovi antistaminici (desloratidina, citerizina ecc) li pone come farmaci di prima scelta nel trattamento dell’orticaria, anche a dosaggi quattro volte superiori al dosaggio giornaliero raccomandato, permettendo un buon controllo dei sintomi nella maggior parte dei casi riscontrabili nella pratica clinica.
Nei soggetti non responders vanno considerate alternative terapeutiche dopo un periodo variabile di attesa da 1 a 4 settimane. Questa variabilità è consigliabile tenendo conto che la severità dell’orticaria è fluttuante e, in ogni momento, sono possibili periodi di remissione spontanei. In caso di sintomi non controllati con H1 antistaminici è importante rivalutare la terapia in atto associando in uno step successivo gli anti-leukotrienici, che hanno dimostrato indicazioni favorevoli all’uso in recenti studi clinici randomizzati.

Gli steroidi sistemici, frequentemente usati nelle malattie allergiche, trovano un razionale d’impiego nell’orticaria acuta e nelle riacutizzazioni dell’orticaria cronica per tempi limitati non superiori a 7 giorni. Si sconsiglia fortemente l’uso prolungato di steroidi senza la supervisione di un medico specialista.
L’impiego della ciclosporina, condizionata dai costi elevati e dagli effetti collaterali, non è raccomandabile come trattamento standard, ma solo in soggetti con malattia severa e refrattaria alla terapia convenzionale. Stesso approccio vale per l’Omalizumab, farmaco anti IgE, che ha dimostrato una buona efficacia in soggetti con orticaria cronica spontanea, orticaria colinergica, orticaria da freddo e solare, ma per la gestione in centri specialistici.

Infine una raccomandazione forte contro l’impiego degli antistaminici di prima generazione nei bambini e nei ragazzi. Il messaggio vuole essere particolarmente incisivo perché molti clinici ritengono che il trattamento di prima scelta in età pediatrica sia a favore degli antistaminici più vecchi perché si assume che il profilo di sicurezza di queste molecole sia conosciuto meglio rispetto a quello degli antistaminici di seconda generazione. Questo approccio non considera, che gli antistaminici di prima generazione siano stati testati con regole e un codice di buona pratica clinica molto meno stringenti degli attuali. Le raccomandazioni del panel di consenso per l’età pediatrica sono quindi le stesse degli adulti per una prima linea di trattamento con antistaminici di seconda generazione non sedativi a dosaggio corretto per il peso, ma con limitazione d’uso solo per i soggetti sopra i 6 anni.
Stesse indicazioni di principio valgono per le donne in gravidanza o in allattamento dove, da una parte va’ evitato qualsiasi trattamento sistemico nel primo trimestre di gravidanza e dall’altra la donna gravida ha diritto al miglior trattamento possibile. Dai dati disponibili non ci sono report su difetti alla nascita in donne in terapia con antistaminici di seconda generazione durante la gravidanza. Considerando che questi farmaci sono utilizzati sia per la rinite che per l’orticaria si può assumere che un numero rilevante di donne abbia assunto antistaminici di seconda generazione all’inizio della gravidanza o comunque prima che questa fosse confermata. Poiché in gravidanza è obbligatorio il maggior grado di sicurezza l’indicazione all’uso di antistaminici di seconda generazione dovrebbe essere limitato alla loratadina con possibilità di estrapolarlo alla desloratadina.
Quindi è importante garantire una buona qualità di vita a questi pazienti e questo obiettivo è raggiungibile attraverso una stretta collaborazione tra medico e paziente, condizione che consente di attuare, nella pratica clinica, una strategia terapeutica efficace per la risoluzione e la prevenzione dei sintomi dell’orticaria.

Bibliografia

  1. Zuberbier T et al. EAACI/GA(2)LEN/EDF/WAO guideline: management of urticaria Allergy 2009;64:1427-43.

09-13-UNV-2011-IT-5884-NL

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Radicolopatia lombare, caudali epidurali non raccomandate

5 Nov 2011 Ortopedia

Nella radicolopatia lombare cronica le iniezioni epidurali caudali di soluzione salina o di steroidi non sono da raccomandare. La sentenza viene da uno studio multicentrico, in cieco, placebo-controllato, effettuato da un team guidato da Trond Iversen, dell’Ospedale universitario della Norvegia del Nord, a Tromsø. Tra l’ottobre del 2005 e il febbraio del 2009 sono stati valutati 461 pazienti con radicolopatia lombare >12 settimane, di cui 328 sono stati esclusi dallo studio per presenza di varie patologie (tra le quali sindrome della coda equina, pregressa iniezione o chirurgia spinale, trattamento in corso con Fans, indice di massa corporea (Bmi)>30). I partecipanti hanno ricevuto, entro un intervallo di 2 settimane, 2 iniezioni: in un gruppo sottocutanee sham da 2 mL di salina 0,9%, in un altro caudali epidurali da 30 mL di salina 0,9%, in un terzo caudali epidurali di 40 mg di triamcinolone acetonide in 29 mL di salina 0,9%. La misura di outcome primario era il punteggio dell’indice di disabilità di Oswestry, quella di outcome secondario la misura europea della qualità di vita e gli score della scala analogica visuale per il mal di schiena e il dolore alle gambe. Tutti i pazienti erano migliorati dopo gli interventi, ma non si sono trovate differenze statistiche o cliniche fra i gruppi nel tempo. Per il gruppo sham (n=40) il cambio stimato dell’indice di disabilità di Oswestry dal valore basale aggiustato è risultato di -4,7 a 6 settimane, -11,4 a 12 settimane e -14,3 a 52 settimane. Per il gruppo intervento con salina epidurale (n=39) rispetto allo sham le differenze per l’outcome primario sono state di -0,5 a 6 settimane, 1,4 a 12 settimane e -1,9 a 52 settimane; per il gruppo con steroidi epidurali (n=37), infine, le differenze corrispondenti si sono attestate su -2,9, 4,0 e 1,9. L’analisi aggiustata per la durata del dolore alle gambe, della lombalgia e delle assenze per malattia non ha modificato questo trend.

BMJ 2011, 343: d5278

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Un paziente diabetico costa il quadruplo di un non diabetico

I costi diretti sostenuti dal Ssn italiano per l’assistenza ai pazienti diabetici sono 4 volte superiori a quelli per i non diabetici, e sono principalmente dovuti ai soggetti anziani e ospedalizzati. Il dato emerge uno studio condotto sulla popolazione residente nel capoluogo piemontese da Graziella Bruno, del dipartimento di Medicina interna dell’università di Torino, e collaboratori. Le persone affette da diabete abitanti in città sono state identificate mediante il Registro regionale del diabete e gli archivi delle dimissioni e prescrizioni ospedalieri. Queste sorgenti di dati sono state collegate ai database amministrativi per stabilire i servizi assistenziali utilizzati dalle persone diabetiche (n=33.792) e da quelle non diabetiche (n=863.123). Dall’analisi è risultato che i costi diretti stimati per persona/anno ammontano a 3.660,80 euro nel caso dei diabetici e a 895,60 euro nei non diabetici, determinando un rapporto di costo pari a 4,1. Il diabete da solo ha rappresentato l’11,4% delle spese totali per cure sanitarie. I costi sono stati attribuiti a ospedalizzazoni (57,2%), farmaci (25,6%), assistenza ai pazienti non ospedalizzati (11,9%), beni di consumo (4,4%) e cure d’emergenza (0,9%). I costi stimati aumentavano da 2.670,80 euro nelle persone diabetiche di età <45 anni a 3.724,10 euro in quelli con età >74 anni, queste ultime corrispondenti a 2/3  dell’intera coorte dei soggetti diabetici; le cifre corrisponenti per le persone non diabetiche erano 371,60 euro e 2.155,9 euro. In tutte le categorie di spesa i raporti di costo di diabetici vs non diabetici sono state più alte nelle persone <45 anni, sia nel diabete di tipo 1 sia in quello di tipo 2 trattato con insulina.

Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011 Sep 8. [Epub ahead of print]

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Prevenzione e trattamento della malattia diverticolare

La cura della malattia dei diverticoli si basa prevalentemente su studi non controllati: c’è qualche evidenza di sollievo dai sintomi ma il ruolo del trattamento nella prevenzione della diverticolite acuta resta dubbio. Così si conclude una review sistematica tutta italiana, coordinata da Giovanni Maconi, dell’Ospedale universitario Sacco di Milano. Sono stati considerati tutti i trial clinici prospettici, dal 1966 al 2010, che hanno avuto come oggetto la malattia dei diverticoli del colon. Principali outcomes degli studi presi in esame sono stati il miglioramento dei sintomi, la loro completa remissione e la prevenzione della diverticolite acuta. In totale, sono stati identificati 31 trial, di cui 6 placebo-controllo, nel complesso di qualità subottimale. Soltanto 10 lavori hanno fornito un quadro dettagliato della storia del paziente, 8 hanno valutato i sintomi per mezzo di un questionario validato e 14 hanno definito appropriatamente i criteri di inclusione ed esclusione. Un solo studio – caratterizzato per essere placebo-controllato, in doppio cieco e a lungo termine – ha evidenziato un miglioramento significativo dei sintomi e una maggiore prevalenza di pazienti liberi da sintomi dopo un anno di assunzione di fibre più rifaximina rispetto alle sole fibre. L’efficacia del trattamento nella prevenzione della diverticolite acuta è stata valutata in 11 trial randomizzati. In 4 trial, basati sul confronto tra rifaximina più fibre versus solo fibre, non è emersa una significativa differenza tra i due trattamenti. Tuttavia, i dati cumulativi emersi da questi studi hanno evidenziato il raggiungimento di un beneficio significativo impiegando rifamixina e fibre (tasso a un anno di diverticolite acuta: 11/970 versus 20/690), ma con un number-needed-to-treat pari a 57, nella prevenzione di un attacco di diverticolite acuta.

Dis Colon Rectum, 2011; 54(10):1326-38

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Pancreatite acuta da farmaci: opportuno sospendere la terapia

Un’elevata percentuale di pazienti ricoverati per pancreatite acuta ha fatto in precedenza uso di farmaci che possono indurre pancreatite. È quindi necessaria una maggiore consapevolezza tra i medici sulla possibilità di riscontrare una pancreatite indotta da farmaci (Dip), altrimenti inspiegabile, e agire appropriatamente sospendendo la terapia. Lo rivela uno studio osservazionale e multicentrico condotto da Hans A. Tuynman e collaboratori, del dipartimento di Gastroenterologia ed epatologia presso il Rijnstate hospital, ad Arnhem (Olanda). Questa ricerca ha preso in esame, in 168 pazienti, l’eziologia, il decorso della malattia, l’impiego di farmaci associati alla pancreatite al momento del ricovero ospedaliero e la sospensione del trattamento. Considerando l’intero campione arruolato, è emerso che 70 soggetti (41,6%) assumevano farmaci associati alla pancreatite quando sono stati ammessi in una struttura clinica. Nel 26,2% dei casi (44 pazienti), veniva impiegato almeno un farmaco di classe I associato alla pancreatite. Una probabile Dip si è evidenziata in 21 soggetti (12.5%) e in 9 di questi i farmaci prescritti sono stati sospesi, senza che in seguito si fosse manifestata una recidiva della patologia. Tra i rimanenti 12 soggetti che non hanno sospeso il trattamento e in assenza di una causa eziologica alternativa di pancreatite acuta, 8 hanno assunto un farmaco di classe I associato alla pancreatite.

Am J Gastroenterol, 2011 Sep 13. [Epub ahead of print]

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Xantelasmi palpebrali predittivi di patologie cardiovascolari

La presenza di xantelasmi palpebrali, ma non quella di arco senile pericorneale, si associa a un rischio aumentato di infarto miocardico, cardiopatia ischemica, grave aterosclerosi e morte nella popolazione generale, indipendentemente dai noti fattori di rischio cardiovascolare (comprese colesterolemia e trigliceridemia). Sia gli xantelasmi sia gli archi senili (opacità grigiastre alla periferia della cornea) sono noti per essere correlati a un’accresciuta concentrazione palsmatica di colesterolo totale o Ldl, e/o a una diminuita concentrazione di colesterolo Hdl, ma finora esistevano pochi studi sulla loro potenziale associazione con patologie cardiovascolari. Il gruppo di Anne Tybaerg-Hansen, dell’ospedale Bispebjerg di Copenhagen, ha analizzato in modo prospettico i dati dei 12.745 partecipanti al Copenhagen heart study, di età compresa fra 20 e 93 anni al basale e privi di malattia vascolare ischemica. All’inizio dello studio il 4,4% (n=563) dei partecipanti aveva xantelasmi e il 24,8% (n=3.159) presentava un arco senile. Nel corso di un follow-up medio di 22 anni, 1.872 soggetti hanno avuto un infarto miocardico, 3.699 hanno sviluppato una cardiopatia ischemica, 1.498 hanno avuto un ictus ischemico, 1.815 sono andati incontro a malattia cerebrovascolare ischemica, e 8.507 sono morti. Messi a confronto di quanti non presentavano xantelasmi, coloro che li avevano avevano un rischio aumentato del 47% di infarto miocardico, del 56% di cardiopatia ischemica e del 9% di exitus. Inoltre l’incidenza cumulativa di infarto miocardico, cardiopatia ischemica e morte era significativamente maggiore nelle persone con xantelasmi rispetto a quelle senza. I rischi maggiori sono stati rilevati negli uomini di età compresa fra i 70 e i 79 anni (53% vs 41% nei soggetti rispettivamente con e senza xantelasmi; i valori corrispondenti nelle donne erano 35% e 27%). Infine, anche la probabilità di sviluppare una severa aterosclerosi è apparsa superiore del 69% nelle persone con xantelasmi rispetto a chi non li aveva.

BMJ, 2011; 343:d5497

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