Ovaio policistico e diabete: legame noto ma senza linee guida

«Il legame tra sindrome dell’ovaio policistico (Pcos) e insulinoresistenza, con aumentato rischio di diabete di tipo 2, è noto dal 1980, ma il meccanismo esatto non è ancora chiaro». Lo ha affermato Marianne S. Andersen, dell’Ospedale universitario Odense di Brenderup (Danimarca), in una sessione plenaria sul tema al congresso di Copenhagen. «Si sa, però, che bassi livelli di adiponectina favoriscono l’insulinoresistenza e che le pazienti con Pcos hanno appunto bassi livelli di adiponectina. Il trattamento con metformina o agonisti Ppar-alfa innalza tali livelli, favorendo l’uptake di glucosio tramite la stimolazione della glicogenosintesi nel muscolo scheletrico». «L’insulinoresistenza nella Pcos è stata correlata anche allo sviluppo di una ridotta tolleranza al glucosio» ha aggiunto Janice Rymer, del King’s College of Medicine di Londra. «In ogni caso, la sindrome nel suo complesso trae benefici dalla riduzione di peso, portando al recupero della fertilità e della salute metabolica». «Le donne con Pcos vanno considerate il più ampio segmento sottostimato di popolazione femminile a rischio di malattie cardiovascolari» ha poi sottolineato Giuseppe M. C. Rosano, dell’Irccs San Raffaele di Roma. «Non esistono però linee guida sull’argomento. In ogni caso andrebbero rilevati regolarmente il profilo lipidico a digiuno e la glicemia. Sui 30 anni andrebbe iniziato l’esame dello spessore dell’intima-media carotidea e a 45 lo screening del calcio coronarico. Infine, nel programma routinario di cura della donna con Pcos dovrebbe essere incluso il trattamento dei fattori associati di rischio cardiovascolare, quali insulinoresistenza, ipertensione e dislipidemia». «La prolungata stimolazione estrogenica dell’endometrio può portare a iperplasia endometriale che, se non trattata, può evolvere in carcinoma dell’endometrio anche in premenopausa» conclude David W. Sturdee, dell’Ospedale di Solihull (UK). «Le strategie per ridurre questo rischio comprendono la contraccezione orale, l’induzione dell’ovulazione e la terapia progestinica». 9th Congress of the European Society of Gynecology. Copenhagen, Denmark, 8-11 September 2011

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L’estrogeno naturale entra nella contraccezione orale

Il contraccettivo orale monofasico basato sull’associazione 17-beta-estradiolo/nomegestrolo acetato, sul quale ha recentemente espresso parere positivo il Chmp dell’Ema, è stato oggetto di un simposio al 9° Congresso della Società europea di ginecologia (Esg), svoltosi a Copenhagen dall’8 all’11 settembre scorsi. «Per la prima volta» spiega Andrea R. Genazzani dell’Università di Pisa e co-chairman «è impiegato l’estradiolo, ovvero l’ormone naturale prodotto dall’ovaio, insieme al nomegestrolo acetato, molecola da tempo impiegata per le patologie endometriali nella donna fertile non trattata con contraccettivi e in premenopausa o per il controllo endometriale della donna in menopausa trattata con estrogeni, ma finora mai impiegata in contraccezione orale». La combinazione, come spiega l’esperto, offre diversi vantaggi: «Innanzitutto, l’estradiolo non ha i potentissimi effetti epatici dei precedenti estrogeni. L’etinilestradiolo, di solito usato, può essere 100, 300 o 500 volte più potente dell’estradiolo, a seconda del set di enzimi epatici che lo trasformano in estradiolo di cui ogni donna è dotata, mentre l’estradiolo subisce un’inattivazione con sistemi più stabilizzati, normali per il fegato, non legati alla differenza interindividuale. Il nomegestrolo, poi, si contraddistingue per avere, oltre a un eccellente legame con il recettori per il progesterone, solo un modesto effetto antiandrogenico, considerato benefico (in relazione ad alcuni inestetismi) e non ha altre interazioni recettoriali. Clinicamente svolge soprattutto un’efficace protezione endometriale, importante per esempio nelle donne dai 35 ai 50 anni, in cui sono frequenti patologie dell’endometrio, come lo sviluppo di polipi”. Da sottolineare, ancora, che questo contraccettivo determina la presenza di una quantità minore di flusso mestruale, e di più breve durata, e che non altera i parametri lipidici, del metabolismo glucidico e della coagulazione. 9th Congress of the European Society of Gynecology. Copenhagen, Denmark, 8-11 September 2011

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Tromboembolismo e cesareo: le raccomandazioni dell’Acog

Con l’obiettivo di ridurre la mortalità materna dovuta a trombosi l’American college of obstetricians and gynecologists (Acog) raccomanda di intraprendere un intervento preventivo in tutte le donne avviate a parto cesareo. «Il parto cesareo» spiega al proposito Andra H. James, che ha collaborato alla stesura delle linee guida «è un fattore di rischio indipendente di eventi tromboembolici e quasi raddoppia il rischio cui la donna è esposta. L’impiego di device per la compressione delle gambe prima del parto è un intervento preventivo sicuro e potenzialmente efficace dal punto di vista dei costi. Questi device non dovrebbero essere rimossi fino a quando la donna è nuovamente capace di camminare o fino a quando si reinstaura l’anti-coagulazione, nel caso in cui la donna in gravidanza sia stata così trattata». La stessa gravidanza si associa a un rischio di tromboembolismo quattro volte maggiore: la terapia anti-coagulante è raccomandata nelle donne che hanno avuto un episodio acuto di tromboembolismo venoso durante la gestazione, in quelle con una storia di trombosi o nei casi in cui sia presente un significativo rischio di Vte in gravidanza o post-partum, come per esempio in presenza di trombofilie. La valutazione della paziente, in relazione al rischio tromboembolico, deve essere estesa anche nel post-partum perché i segni di allarme in alcuni casi sono già evidenti nelle prime fasi della gravidanza, in altri casi più tardivamente e anche dopo il parto.

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Identikit pazienti con cefalea che non si rivolgono al medico

10 Ott 2011 Neurologia

Molti pazienti con mal di testa non si rivolgono al medico di fiducia. In che cosa differiscono da coloro i quali, al contrario, cercano assistenza sanitaria quando sono colpiti da cefalea? Per rispondere a queste domande Daniela R. V. Oliveira, della Facoltà pernambucana di Salute di Recife (Brasile), e collaboratori, hanno realizzato uno studio trasversale su 200 pazienti consecutivi che si erano rivolti al generalista per esporre i propri disturbi. I soggetti cefalalgici sono stati sottoposti a intervista utilizzando un questionario semistrutturato, l’Headache Impact Test e l’Hospital Anxiety and Depression Scale. In sintesi è risultato che il 52% dei partecipanti soffriva di mal di testa, il 10% aveva cercato assistenza medica per risolvere il problema e l’11% aveva già ricevuto qualche forma di cura per il dolore alla testa. Non si è però rilevata nessuna associazione tra disabilità determinata dalla cefalea e la ricerca di un medico per il dolore da mal di testa. I pazienti che non si rivolgevano al medico avevano una maggiore prevalenza di cefalea di tipo tensivo (59,6% vs 22,1%), una minore prevalenza di emicrania con aura (32,3% vs 40,5%), e ridotte intensità (5,4 vs 6,8) e frequenza (4,2 vs 7,4 giorni/mese) della cefalea. Il 52% di questi ha avuto bisogno di trattamenti preventivi. La maggior parte di quanti non si sono rivolti a un medico presentava una cefalea di grado lieve o che otteneva sollievo da un analgesico “painkiller”. Headache, 2011; 51(8):1279-84

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Chads(2) predittivo di ictus anche senza fibrillazione atriale

Il punteggio Chads(2) – normalmente utilizzato per calcolare il rischio di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale (Fa) – è predittivo di Tia e ictus anche nei soggetti senza Fa e con malattia coronarica (Chd) stabile. Lo dimostra uno studio condotto da Christine C. Welles dell’università di California (San Francisco), e collaboratori, i quali hanno calcolato i punteggi Chads(2) – in cui si assegna 1 punto per ciascuna delle seguenti condizioni: scompenso cardiaco congestizio, ipertensione, età =/> 75 anni, diabete; e 2 punti in caso di stroke o Tia pregresso in 916 pazienti extraospedalieri non in terapia anticoagulante con Chd stabile e assenza di Fa. L’outcome primario preso in considerazione è stato il tempo trascorso fino alla comparsa di un ictus o un Tia su un follow-up medio di 6,4 anni. Su un follow-up totale di 5.821 anni-persona, 40 individui hanno avuto un ictus ischemico o un Tia (tasso: 0,69/100 anni-persona). A confronto dei pazienti con bassi score Chads(2), ossia intorno a 0-1, quelli con punteggi intermedi (2-3) ed elevati (4-6) hanno mostrato un tasso aumentato di eventi ischemici neurologici, anche dopo aggiustamento per età, fumo, terapia antiaggregante, uso di statine e di inibitori del sistema renina-angiotensina (con un hazard ratio, rispettivamente, di 2,4 e di 4,0). La capacità discriminativa del modello è risultata simile a quella delle curve pubblicate relative a coorti di soli pazienti con Fa. Il tasso di eventi nei soggetti senza Fa con elevati score Chads(2) (5-6) è risultato paragonabile ai valori pubblicati per pazienti con Fa e score Chads(2) moderati (1-2), una popolazione nota per trarre benefici da trattamenti per la prevenzione dell’ictus. Questi dati – sostengono i ricercatori – dovrebbero far concentrare gli sforzi affinché sia chiarito se le terapie di prevenzione dell’ictus o lo screening per Fa silente possano essere di beneficio per soggetti con Chd stabile e alti punteggi Chads(2). Am Heart J, 2011; 162(3):555-61

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Rischio di trombosi e conta leucocitaria per predire l’infarto

Al momento del ricovero di un soggetto con infarto miocardico acuto, la semplice combinazione della conta leucocitaria e del Timi (thrombosis in myocardial infarction) risk score può fornire ulteriori informazioni utili a predire gli outcomes dei pazienti. Il dato deriva da una ricerca condotta in Iran da un team guidato da Atooshi Rohani dell’università di Scienze mediche di Yasuj su 70 soggetti con infarto acuto, ai quali, al momento del ricovero, si sono misurati la conta dei bianchi e il Timi risk score. È così emerso che, rispetto a quanti mostravano una bassa conta dei bianchi, i soggetti con un’elevata conta leucocitaria mostravano un rischio quintuplicato di scompenso cardiaco congestizio intraospedaliero e più che raddoppiato di morte. I pazienti con alto Timi risk score, a loro volta, avevano un rischio decuplicato di insorgenza di scompenso cardiaco congestizio e morte a confronto di chi aveva un punteggio basso. Quando si effettuava un’analisi della combinazione di differenti strati di ogni variabile, si è osservato un incremento di mortalità. Si sono osservati pochi pazienti con alta conta dei bianchi e basso Timi risk score o con bassa conta leucocitaria e alto Timi risk score. Questi soggetti mostravano un rischio intermedio, mentre quelli con elevato conteggio dei bianchi e di Timi risk score presentavano il rischio più elevato. J Emerg Trauma Shock, 2011; 4(3):351-4

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Dovere di corretta tenuta della cartella clinica

Il fatto Una struttura ospedaliera e il medico operatore venivano chiamati in giudizio per essere condannati al risarcimento dei danni subiti da una paziente a seguito di un intervento di protesi al ginocchio. Dopo la dimissione la donna aveva ricevuto una copia della cartella clinica di ventiquattro pagine con all’interno atti relativi ad altra paziente e, successivamente, a seguito di rimostranze, le era stata consegnata una seconda copia della cartella clinica, questa volta composta da trentaquattro pagine. Diritto ed esito del giudizio Il Tribunale di Roma pur escludendo la responsabilità del sanitario e della struttura chiamati in giudizio, in ordine alla cartella clinica ha avuto occasione di affermare come nel caso specifico, il documento rilasciato fosse espressione di una scarsa attenzione nella sua tenuta e aggiornamento. La corretta tenuta della cartella clinica, oltre a rispondere a un interesse pubblico di tutela della salute del paziente, risponde anche a un interesse della struttura dal momento che ciò che in essa non è presente comunque rappresenta un pregiudizio per le sue ragioni, essendo il successivo giudizio operato sulla base del fatto che tali attività non sono state poste in essere. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]

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Ordini europei, serve direttiva per evitare esodo pazienti

Potrebbero essere fino a 60 milioni i pazienti europei che si sposteranno in cerca di cure migliori a partire dal 2013, quando cadranno i confini tra i Paesi dell’Unione. Per evitare questo esodo è necessaria una direttiva europea che garantisca una qualità professionale standardizzata. Lo chiedono all’Europa i vertici delle associazioni e confederazioni europee degli Ordini dei medici, dei medici specialisti, dei medici di medicina generale, al termine del primo convegno internazionale ”Per uno specialista europeo accreditato” svoltosi a Udine. Secondo i medici, l”obiettivo è impedire che si creino flussi incontrollabili di nuovi pazienti che andrebbero ad appesantire le liste d’attesa e anche flussi di medici provenienti da Paesi con percorsi formativi difformi e diversi livelli di preparazione. «È necessario avere regole certe per creare un sistema sanitario comune europeo senza discriminazioni fra Paesi quanto a formazione, sanità erogata e livello tecnologico», ha affermato il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) Amedeo Bianco. «Ci preoccupa molto» ha aggiunto il presidente dell’Ordine dei Medici di Udine, Luigi Conte «la proiezione fatta dalla Società italiana di medici manager secondo la quale dal 2013 ci saranno circa 60 milioni di cittadini europei che cercheranno cure migliori rispetti ai loro paesi d’origine quanto a qualità, tecnologie e preparazione dei professionisti. Dobbiamo prevenire gli scenari peggiori».

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Lombardia, da destino province dipende riordino del Ssr

Il riordino di Asl e ospedali della Lombardia preannunciato a luglio dal presidente della Regione, Roberto Formigoni, che avrebbe dovuto portare a economie e maggiori efficienze e avrebbe comportato anche una riduzione delle strutture pubbliche, andrà rivisto in base a come evolverà il progetto del Governo di eliminare le province. «Da luglio a oggi» spiega il presidente della Regione, intervenuto a margine di una conferenza stampa all’ospedale San Paolo, «è cambiato tutto: un conto è un riordino delle Asl nella permanenza delle dodici province lombarde e un altro è pensare a una Lombardia senza province, in cui probabilmente i presidi delle Asl potrebbero avere altri scopi». Diversi sono i progetti in cantiere che vanno nella direzione di un maggior efficientamento del servizio sanitario, annuncia Formigoni, «ma nessuno parli di tagli: con misure di massimizzazione ci riferiamo a progetti per migliorare i servizi spendendo meno». Il metodo, promette, sarà quello del dialogo: «Se ci confrontiamo con le altre Regioni abbiamo meno ospedali e Asl; e siccome dobbiamo fare cambiamenti omogenei ho aperto una fase di dibattito anche con gli altri presidenti di Regione». Ma rimane una certa preoccupazione per la Manovra di agosto: «C’è da due anni una diminuzione delle risorse disponibili per le Regioni, perché l’aumento del fondo sanitario è inferiore all’aumento dell’inflazione, soprattutto a quella in campo sanitario, che è più alta per convenzione internazionale».

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Istud: cure a casa, il distretto è centrale nel 92% dei casi

Le cure domiciliari rappresentano ormai una realtà consolidata e funzionante del sistema sociosanitario e costituiscono in caso di bisogno la soluzione preferita da una fetta sempre crescente di italiani. E’ il quadro che emerge dall’indagine condotta dall’Osservatorio sulle cure a casa dell’Istud in collaborazione con la Card (Confederazione associazioni regionali di distretto) e Cittadinanzattiva. Alla ricerca, presentata ieri nel corso di un convegno ospitato al Fatebenefratelli di Roma, hanno risposto distretti sanitari, comuni, servizi privati e del terzo settore di 15 regioni e un campione di 210 cittadini. Il quadro che risulta conferma tendenze già registrate nella precedente indagine, risalente al 2009: il distretto territoriale copre ormai un ruolo centrale nell’organizzazione delle cure a casa (92% di copertura della domanda), nella fornitura di “dimissioni protette” (87% dei casi) e nell’erogazione di assistenza domiciliare integrata (Adi, 93,5% dei casi). Inoltre migliora qualità e gestione dell’assistenza, perché nell’81% dei casi non vengono segnalate liste d’attesa e, dove esistono, viene comunque assicurata la presa in carico dell’emergenza nell’arco delle 72 ore. «I dati» sintetizza Maria Giulia Marini, responsabile Practice sanità e salute della Fondazione Istud «rivelano che il settore delle cure a casa è in costante sviluppo e gode di sempre maggiore attenzione, anche da parte delle amministrazioni. I nostri dati non sono completi ma si può affermare che dove le cose funzionano il livello di efficienza è più che alto e la complessità delle prese in carico cresce di pari passo con l’incremento della cronicità». Anche dal lato dei cittadini si nota una maturazione nell’approccio alle cure domiciliari: l’86% degli italiani dà la propria preferenza alle cure a casa offerte da un assistente familiare professionale e il 70% sarebbe disposto a versare un contributo al servizio pubblico, commisurato al proprio reddito, pur di usufruire di assistenza domiciliare. «E’ un dato sul quale occorrerebbe riflettere» rimarca Marini «perché c’è il rischio che i tagli impartiti al livello ospedaliero dall’ultima Manovra possano far mancare risorse e personale alle cure domiciliari. Diventa sempre più cruciale valutare l’apporto del terzo settore e il fatto che gli italiani siano disposti a contribuire pur di usufruire di servizi efficienti a casa è un elemento di novità importante».

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