Sindrome metabolica e rischio di nefropatia e cardiopatie

14 Set 2011 Nefrologia

In una popolazione omogenea caucasica europea, la sindrome metabolica risulta associata a nefropatia cronica con albuminuria e a malattia cardiovascolare. Sebbene la sindrome metabolica costituisca un fattore di rischio sia per la malattia cardiovascolare sia per la nefropatia, non ? ancora completamente chiarita la pericolosa correlazione esistente tra le ultime due patologie. Sono queste le conclusioni tratte da un’?quipe coordinata da Giovanni Gambaro, della divisione di Nefrologia e dialisi dell’ospedale Gemelli di Roma (universit? Cattolica), dopo aver analizzato i dati dei 3.757 partecipanti allo studio trasversale Incipe, condotto sulla popolazione generale del Veneto per intercettare casi di nefropatia agli stadi iniziali con potenziale rischio di endpoint clinici maggiori. Al termine della raccolta e dell’elaborazione dei dati, effettuate in collaborazione con le universit? di Verona e Padova, la sindrome metabolica ? risultata associata alla nefropatia cronica (rapporto crociato/odds ratio, Or: 2,17), all’albuminuria (Or: 2,28), e alla malattia cardiovascolare (Or: 1,58). Si ? colta inoltre una correlazione diretta tra il numero delle caratteristiche rilevate della sindrome metabolica, da un lato, e la nefropatia e la malattia cardiovascolare, dall’altro. Queste ultime, infine, sono apparse associate anche dopo aggiustamento per sindrome metabolica (Or: 2,30).

Metab Syndr Relat Disord, 2011 Jun 28. [Epub ahead of print]

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Gestione?dolore ancora inadeguata in 24 ospedali italiani

Negli ospedali italiani il livello di organizzazione e standardizzazione del management del dolore postoperatorio ? ancora inadeguato. Il trattamento analgesico dopo la chirurgia ? subottimale, al punto che quasi due terzi dei pazienti continuano a sperimentare dolore. La segnalazione giunge dallo studio Italian observational study of the management of mild-to-moderate post-operative pain (Itospop), coordinato da Rosalba Tufano dell’universit? Federico II di Napoli. Gli autori hanno analizzato i dati di 24 ospedali della penisola relativi alla gestione del dolore postoperatorio e all’intensit? del dolore riferito dai pazienti durante le prime 48 ore dopo l’intervento chirurgico. Questi i risultati: solo il 16,7% degli ospedali sono dotati di un servizio per il trattamento del dolore acuto e il 41,7% ha applicato un protocollo standardizzato per il controllo della sintomatologia dolorosa. La maggioranza dei 1.952 pazienti (>60%) monitorati ? stato sottoposto alle sei valutazioni previste, che in pi? del 70% dei casi sono state effettuate da un medico. La percentuale dei pazienti con dolore moderato si ? ridotta durante il periodo di studio ma circa il 10% dei soggetti ha continuato a lamentare dolore moderato alla fine dell’indagine. Dolore di intensit? lieve ? stato riportato nel 50% dei casi per l’intera durata dello studio. Alla valutazione finale, il 5% dei pazienti presentava ancora dolore incidente che spesso interferiva sulle attivit? quotidiane. La maggior parte dei soggetti studiati, infine, ? stato trattato con analgesici, ma nel 20% dei casi non sono state somministrate terapie del dolore nonostante le sofferenze lamentate dai pazienti.

Minerva Anestesiol, 2011 Jun 30. [Epub ahead of print]

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Ca mammario in premenopausa: s? a zoledronato

12 Set 2011 Oncologia

Nelle pazienti con tumore mammario allo stadio precoce in terapia con anastrozolo o tamoxifene l’aggiunta di acido zoledronico migliora la sopravvivenza libera da malattia. Non si riscontrano differenze in termini di sopravvivenza libera da malattia tra le pazienti che ricevono anastrozolo e tamoxifene ma le pazienti trattate solo con anastrozolo mostrano una sopravvivenza globale inferiore. Emergono quindi benefici persistenti in seguito all’aggiunta di acido zoledronico alla terapia endocrina nelle donne in premenopausa con cancro mammario allo stadio iniziale. Questi i risultati dello studio Abcsg-12, un’indagine randomizzata coordinata da Michael Gnant dell’Austrian Breast and Colorectal Cancer Study Group di Vienna su 1.803 donne in premenopausa con cancro mammario positivo ai recettori estrogenici allo stadio I-II: lo studio ha confrontato efficacia e sicurezza di anastrozolo (1 mg al giorno) o tamoxifene (20 mg al giorno) con o senza acido zoledronico (4 mg ogni 6 mesi) per 3 anni. Dopo un follow-up mediano di 62 mesi, sono stati riportati 186 eventi: 53 nelle 450 pazienti in trattamento solo con tamoxifene, 57 nelle 453 pazienti trattate solo con anastrozolo, 36 nelle 450 pazienti in terapia con tamoxifene e acido zoledronico, e 40 nelle 450 donne che hanno ricevuto anastrozolo e acido zoledronico. Quest’ultimo farmaco ha ridotto il rischio di eventi globali (hazard ratio, Hr: 0,68) sebbene la differenza non abbia raggiunto la significativit? statistica nei bracci tamoxifene (Hr: 0,67) e anastrozolo (Hr: 0,68), valutati separatamente. L’acido zoledronico non influenza significativamente il rischio di morte. Inoltre, non si registrano differenze in termini di sopravvivenza libera da malattia fra i pazienti trattati solo con tamoxifene rispetto a quelli cui ? stato somministrato solo anastrozolo, ma la sopravvivenza globale era peggiore con anastrozolo versus il solo tamoxifene (Hr: 1,75). I trattamenti sono stati generalmente ben tollerati e non sono stati riportati casi di insufficienza renale o osteonecrosi della mandibola.

Lancet Oncol, 2011;12(7):631-41

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Mortalit? ridotta nelle donne anziane con vitamina D3

La somministrazione di vitamina D sotto forma di colecalciferolo (vitamina D3) sembra ridurre la mortalit? nelle donne anziane ricoverate negli istituti di cura, spesso carenti della sostanza e ad alto rischio di cadute e fratture. ? questa la conclusione-chiave di una nuova revisione sistematica Cochrane, redatta da un team di esperti del Gruppo Hepato-Biliary di Copenhagen coordinati da Goran Bielakovic, ricercatore dell’universit? di Nis (Serbia). ?Una metanalisi Cochrane, pubblicata solo pochi anni fa, mostrava qualche beneficio apportato dalla somministrazione di vitamina D, ma nessun effetto sulla mortalit?? afferma Bielakovic. ?Sapevamo tuttavia che erano stati condotti pi? studi e abbiamo voluto valutare l’effetto della vitamina D aggregando tutti i dati disponibili?. Il team di ricercatori ha identificato 50 studi randomizzati, per un totale di 94.148 partecipanti (et? media: 74 anni; 79% donne) in cui la vitamina D ? stata somministrata per un periodo mediano di 2 anni a varie dosi e attraverso differenti vie di somministrazione, verso placebo o nessun intervento, sotto forma di vitamina D3, ergocalciferolo (vitamina D2), o come molecole attive alfacalcidolo o calcitriolo (rispettivamente 1alfa-idrossivitamina D o 1,25-diidrossivitamina D). ?Le nostre analisi suggeriscono che la vitamina D3 riduca la mortalit? di circa il 6%, corrispondenti a circa 161 persone da trattare per circa 2 anni al fine di salvare una vita?. Le altre forme di vitamina D, come la D2, l’alfacalcidolo e il calcitriolo, non risultano in grado di portare benefici significativi in termini di mortalit?. Gli ultimi due, anzi, se somministrati in associazione al calcio aumentano il rischio di ipercalcemia; la stessa vitamina D3, comunque, in combinazione con il calcio accresce il rischio di calcolosi renale.

Cochrane Database Syst Rev, 2011; 7:CD007470

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Rischio fibrillazione atriale e flutter da Fans e Cox-2 inibitori

10 Set 2011 Cardiologia

armaci antinfiammatori non steroidei (Fans) di comune prescrizione, siano essi non selettivi tradizionali o inibitori della Cox-2, possono aumentare il rischio di fibrillazione atriale o flutter, soprattutto fra i nuovi utilizzatori. Lo suggerisce uno studio caso-controllo condotto in Danimarca da Morten Schmidt, dell’Ospedale universitario di Aarhus, e collaboratori. Il team di ricercatori ha identificato 32.602 pazienti nel “Registro nazionale danese dei pazienti” con una prima diagnosi di fibrillazione atriale o flutter tra il 1999 e il 2008, quindi ha abbinato per et? e genere ciascuno di questi casi a 10 soggetti di controllo, mettendo a confronto l’esposizione a Fans non selettivi e a inibitori della Cox-2 dei due gruppi. In totale, 2.925 (9%) casi e 21.871 (7%) controlli erano utilizzatori correnti di uno dei due tipi di farmaco al momento dell’ammissione ospedaliera. L’analisi aggiustata per et?, sesso e fattori di rischio ha rivelato che l’uso corrente di Fans non selettivi era associato a un rischio aumentato di 1,17 volte di fibrillazione atriale o flutter rispetto al non uso, mentre l’impiego di inibitori della Cox-2 si associava a un aumento di rischio di 1,27 volte. Il rischio relativo era maggiore tra i nuovi utilizzatori (ossia con prima prescrizione del farmaco entro i 60 giorni precedenti dalla diagnosi di aritmia), attestandosi su 1,46 per i Fans non selettivi e 1,71 per gli inibitori della Cox-2. Risultati simili si sono rilevati con vari tipi di Fans (escluso l’acido acetilsalicilico, non considerato in questo studio).

BMJ, 2011; 343:d3450

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Albuminuria marker di rischio Cv in pazienti vasculopatici

Nei pazienti affetti da vasculopatia, modificazioni nell’albuminuria sono predittive della mortalit? e degli outcome cardiovascolari e renali, in modo indipendente dai valori basali. Ci? suggerisce che il monitoraggio dell’albuminuria costituisca un’utile strategia di supporto alla definizione del rischio cardiovascolare. ? questo l’esito di una ricerca – coordinata da Roland E. Schmieder, dell’Ospedale universitario di Erlangen (Germania) – basata su due studi multicentrici, prospettici e osservazionali, in cui un laboratorio centrale ha misurato l’albuminuria di 23.480 pazienti con malattia vascolare o diabete ad alto rischio. Aumenti pari o maggiori di due volte nell’albuminuria dal basale a 2 anni, osservati nel 28% dei casi, sono risultati associati a una mortalit? pi? elevata di quasi il 50% rispetto a pazienti con incrementi di minore entit?, dopo aggiustamento per albuminuria e pressione arteriosa basali, e altri fattori potenzialmente confondenti. Specularmente, una riduzione di due volte o pi? dell’albuminuria, riscontrata nel 21% dei pazienti, si ? associata invece a una mortalit? inferiore del 15% rispetto a chi mostrava diminuzioni meno marcate. L’aumento dell’albuminuria ? risultato anche associato in modo significativo a morte cardiovascolare, outcome cardiovascolari compositi (morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus, e ospedalizzazione per scompenso cardiaco), e outcome renali, tra cui dialisi o raddoppio della creatinina sierica.

J Am Soc Nephrol, 2011; 22(7):1353-64

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Il trattamento dell’embolia polmonare anche a domicilio

Interessante per i correlati clinico-organizzativi che ne possono derivare questo studio collaborativo internazionale che ha voluto verificare l’efficacia e la sicurezza del trattamento domiciliare di quelle forme di embolia polmonare (EP) che occorrono in pazienti classificabili come a basso rischio di morte secondo lo score PESI (Tab. 1). Sono stati coinvolti nello studio 19 Dipartimenti di Emergenza in Svizzera, Francia, Belgio e Stati Uniti, che hanno arruolato 344 pazienti con infarto ed embolia polmonare sintomatica, classificabili secondo il PESI come a basso rischio di morte (classi di rischio I o II), randomizzati ad una precoce dimissione (< 24 ore dopo la randomizzazione) o alla prosecuzione del ricovero ospedaliero, tutti comunque trattati con Enoxaparina per via sottocutanea (> 5 giorni) seguita da terapia anticoagulante orale (> 90 giorni). L’outcome primario era il tromboembolismo venoso sintomatico ricorrente entro 90 giorni; quello di sicurezza il sanguinamento maggiore entro 14 o 90 giorni e la mortalit? entro 90 giorni. ? stato usato un margine di non inferiorit? del 4% per una differenza tra gruppo di ricovero e quello del trattamento domiciliare. Tutti i pazienti arruolati sono stati inclusi nelle valutazioni, con l’eccezione di quelli persi al follow-up. Questi i risultati (Tab. 2)
1 solo?(0.6%) dei 171 pazienti trattati a domicilio ha sviluppato una tromboembolia venosa ricorrente entro 90 giorni rispetto a nessuno dei 168 pazienti ricoverati (95% limite di confidenza superiore [UCL] 2.7%, p = 0.011)
in entrambi i gruppi di trattamento solo uno (0.6%) dei pazienti ? morto entro 90 giorni (95% UCL 2.1%, p = 0.005)
un sanguinamento maggiore entro 14 giorni si ? verificato in due (1.2%) dei 171 pazienti trattati a domicilio vs nessuno del gruppo ospedalizzato (95% UCL 3.6%, p = 0.031)
anche a 90 giorni un sanguinamento maggiore si ? verificato in tre (1.8%) dei pazienti trattati a domicilio vs nessuno in quelli ospedalizzati (95% UCL 4.5%, p = 0.086)
la durata media del ricovero ? stata di 0.5 giorni (SD 1.0) per pazienti poi trattati precocemente a domicilio e di 3.9 giorni (SD 3.1) per i pazienti che avevano prolungato l’ospedalizzazione.
Gli AA concludono che sulla base di questo studio di non inferiorit? ? possibile optare per una rapida dimissione e per un trattamento domiciliare dell’embolia polmonare in quei pazienti che sono stati stratificati secondo il PESI come a basso rischio di morte.

Aujesky D et al. Outpatient versus inpatient treatment for patients with acute pulmonary embolism: an international, open-label, randomized, non-inferiority trial. The Lancet 2011; 378 (issue 9785): 41 – 48

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Statine e diabete di nuova insorgenza: ? questione di dose

Una recente meta-analisi di 13 trials randomizzati che coinvolgevano pi? di 90.000 pazienti ha evidenziato che il trattamento con dosi tradizionali di statine si associa ad un aumento del rischio di comparsa di diabete mellito quantificabile in circa il 10% in 4 anni (Sattar N et al. Statins and risk of incident diabetes: a collaborative meta-analysis of randomised statin trials. Lancet. 2010;375(9716):735-742). Una nuova meta-analisi comparsa sul numero del 21 Giugno di JAMA ha voluto verificare se tale “complicanza” fosse o no correlabile con la posologia delle statine. Per tale motivo sono stati selezionati 5 studi (complessivamente pi? di 32.000 pazienti) che confrontavano un trattamento intensivo vs una terapia con dosi “moderate” di statine per un follow up medio di quasi 5 anni. Questi i risultati (Fig. 1)
dei 2.749 pazienti che avevano sviluppato un diabete di nuova insorgenza nel corso del trattamento con statine, 1.449 erano pazienti che assumevano dosi intensive dell’ipolipemizzante vs 1.300 che erano in trattamento con dosi “moderate”; in altri termini il trattamento intensivo era gravato, rispetto a quello con dosi “moderate”, di 2 casi aggiuntivi di diabete di nuova insorgenza ogni 1.000 pazienti trattati/anno, con un OR di 1.12?
di contro, dei 6.684 pazienti che nonostante la terapia ipolipemizzante avevano manifestato eventi cardiovascolari, 3.134 appartenevano al gruppo di trattamento intensivo vs i 3.550 di quello “moderato”; come a dire che la terapia intensiva determinava la comparsa di eventi cardiovascolari in 6.5 pazienti in meno ogni 1.000 trattati intensivamente/anno con una OR di 0.84.
Si conferma quindi che l’utilizzo delle statine, specie se con dosi intensive, aumenta il rischio di comparsa di diabete anche se ? comunque utile per una prevenzione cardiovascolare globale.?

Preiss D et al. Risk of incident diabetes with intensive-dose compared with moderate-dose statin therapy: a meta-analysis. JAMA 2011 Jun 22; 305 (24): 2556-64

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Sindrome coronarica acuta, diabete svelato con il test da carico

Quasi l’80% dei pazienti con sindrome coronarica acuta (Acs) presenta anomalie della glicemia (iperglicemia o riduzione del metabolismo glucidico). In questi casi, al fine di rivelare un diabete precedentemente non diagnosticato, i livelli di glicemia all’ammissione, l’HbA1c e la glicemia a digiuno mostrano una bassa sensibilit?, mentre il test migliore ? quello da carico orale. ? quanto ? stato verificato da un gruppo di cardiologi coordinato da Victor A. Umans, del Centro medico di Alkmaar (Olanda), i quali hanno sottoposto a valutazione metabolica 130 pazienti con Acs ed elevati livelli di glucosio plasmatico al momento del ricovero, di cui 109 sottoposti a test di tolleranza a carico orale di glucosio e 13 con diabete gi? diagnosticato. I risultati del test da carico sono stati suddivisi in diabete (precedentemente) non diagnosticato e ridotto metabolismo glucidico, rispettivamente nel 35% e nel 44% dei pazienti (glicemia plasmatica a digiuno, nell’ordine: =/>7,0 mmol/l e 6,1-6,9 mmol/l). Un diabete non diagnosticato, per?, non si ? potuto predire adeguatamente mediante il livello plasmatico di glucosio all’ammissione, n? tramite la glicemia plasmatica a digiuno o l’HbA1c (area sotto la curva Roc: 0,61, 0,75 e 0,72, rispettivamente). Da notare, infine, che i pazienti con metabolismo glucidico anomalo erano significativamente pi? anziani, avevano valori di HbA1c al momento del ricovero pi? alti, presentavano una classificazione Killip pi? elevata e con maggiore frequenza avevano avuto in precedenza un ictus rispetto ai pazienti con metabolismo glucidico normale.

Heart, 2011 Jun 27. [Epub ahead of print]

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Lo screening con TC torace a basse dosi riduce la mortalit? per ca del polmone?

Nell’ottobre 2010 il National Cancer Institute (NCI) annunci??che i pazienti randomizzati ad uno screening di?tomografia computerizzata (CT) a basse dosi morivano meno per cancro polmonare (CaP) dei pazienti randomizzati allo screening con una radiografia del torace (RX), la quale, anche associata all’analisi dell’escreato, si era dimostrata incapace?di prevenire la mortalit? per CaP. A giugno il NEJM ha pubblicato il primo report?del NCI?su questa procedura?effettuata su?un totale di 53.454 pazienti, di cui 26.722 assegnati random ad uno screening CT basse dosi e?26.732 all’RX?torace. I partecipanti elegibili avevano un’et? tra 55 e 74 anni e una storia di forti fumatori. Sono stati studiati per 3 anni?e quindi seguiti per 3.5 anni addizionali. L’aderenza ? stata?del 90% ed i risultati suggestivi per CaP sono stati circa 3 volte superiori nel gruppo assegnato alla TC rispetto al gruppo assegnato a RX (24.2%?vs 6.9%) ma solo dal 2 al 7% erano poi risultati essere realmente dei cancri del polmone. In sintesi, per 100.000 persone anno ci sono state

????????????????????????????? TC basse dosi ???????? Rx torace

Incidenza CaP?????? 645 (1060 CaP)?????? 572 (941 CaP)

Morti per CaP??????? 247 ?????????????????????? 309?

Quindi la riduzione relativa della mortalit? per CaP con screening TC basse dosi rispetto al gruppo RX ? stata del 20.0% (95% CI, 6.8 to 26.7; p=0.004), ed il tasso di mortalit? per ogni causa ? stato ridotto, nel gruppo TC basse dosi rispetto al gruppo RX, del 6.7% (95% CI, 1.2 to 13.6; p=0.02). I risultati sono molto incoraggianti, ma naturalmente questo studio pone varie questioni a cominciare dalla metodica?e dai criteri da?osservare nello screening non universalmente accettati. Per? ? sul rapporto costo-beneficio che si deve maggiormente riflettere: ? chiaro che ad un costo maggiore iniziale si deve contrapporre un minor costo dovuto alla precoce identificazione di Ca polmonari, ma bisogna anche tener conto dell’alta percentuale di falsi positivi,?e non bisogna trascurare altre strategie?emergenti, quali i markers molecolari nel sangue, nell’escreato, nelle urine.?

The National Lung Screening Trial Research Team: New Engl J Med 2011, June 29 10.1056/NEJMoa1102873

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