Donne immigrate, aborto come metodo contraccettivo

Tra le donne straniere che vivono in Italia, una su tre ha fatto ricorso all’aborto almeno una volta. ? questo il preoccupante dato emerso da una ricerca pilota condotta a Firenze, dal Centro di riferimento regionale per la prevenzione e la cura delle complicazioni delle mutilazioni genitali femminili, i cui dati sono stati presentati durante il convegno “Immigrate e contraccezione: diritti negati”, promosso dalla Societ? italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo). L’elevato numero di interruzioni volontarie della gravidanza che si contano tra le donne straniere residenti nel nostro paese ? un segnale che l’aborto viene considerato un metodo contraccettivo: nonostante, infatti, le donne immigrate conoscano nel 90% dei casi la possibilit? di ricorrere alla contraccezione orale e ancor di pi? al preservativo, questi metodi vengono scarsamente utilizzati. ?Il risultato ? che un terzo degli aborti praticati in Italia si registrano nel 3,5% della popolazione?, spiega Nicola Surico, presidente della Sigo. ?La nostra ricerca dimostra che non manca tanto la conoscenza, quanto la possibilit? di accedere agli strumenti e ai servizi disponibili. Le difficolt? sono, infatti, dovute in gran parte ai mancati collegamenti con le strutture sanitarie, alla difficolt? di rapporto con gli operatori, a ostacoli burocratici, alla carenza di personale formato e di mediatori culturali?. Per invertire questa drammatica tendenza che determina un numero cos? alto di aborti, bisogna puntare sulle seconde generazioni, che contano quasi un milione di minorenni stranieri presenti in Italia, di cui oltre la met? nati nel nostro paese. ? a loro che ? necessario rivolgersi per avviare una vera contraccezione transculturale. Ed ? questo l’impegno che si ? prefissato la Sigo con la pubblicazione del progetto educazionale “Scegli tu”: disponibili in cinque lingue (francese, cinese, arabo, rumeno e albanese) e scaricabili dal sito internet www.sceglitu.it, gli opuscoli in questione offrono informazioni dettagliate sulla contraccezione negli adolescenti.

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Dagli Usa, screening di routine dai 13 anni in su

L’American college of obstetricians and gynecologist ha stilato alcune raccomandazioni per fare il punto sui controlli ginecologici consigliati, a partire dal tredicesimo anno di vita. Nel documento, gli esperti non si limitano per? a indicare screening di routine, ma affrontano la salute femminile a 360 gradi, suggerendo stili di vita corretti che riducano le abitudini dannose (consumo di alcol, abitudine al fumo, sedentariet?) per lasciare spazio a scelte comportamentali benefiche le cui ricadute migliorano la condizione psico-fisica di ogni donna. Per quanto riguarda gli esami “classici”, i ginecologi statunitensi invitano le adolescenti a sottoporsi alla prima visita dallo specialista all’et? di 13 anni, che dovr? avere cadenza annuale dopo il ventunesimo anno di et?. Il Pap-test viene indicato come un esame estremamente importante, a cui sottoporsi con regolarit?, ma non deve essere il solo motivo per cui ci si reca dal ginecologo: la prevenzione delle patologie a carattere femminile, infatti, prevede ulteriori esami e controlli. Spazio, quindi, alle vaccinazioni raccomandate e a test annuali, nelle donne attive sessualmente, per scongiurare il rischio di infezioni come clamidia e gonorrea. Discorso simile riguarda il test Hiv, per il quale si propone l’esecuzione una volta l’anno a partire dai 19 anni fino ai 64. Nel caso in cui una donna abbia un maggior rischio di ammalare di una determinata patologia, la frequenza degli esami di controllo deve essere aumentata. La prima mammografia, per esempio, andrebbe fatta al compimento del quarantesimo anno, per diventare un appuntamento annuale dopo il raggiungimento del cinquantesimo anno. Se per? nella donna c’? familiarit? di carcinoma mammario, ? consigliabile consultare il ginecologo e sottoporsi alla mammografia pi? precocemente.

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Cortisonici da sospettare in caso di osteoporosi

Una frattura vertebrale solleva il dubbio ma, soprattutto se l’et? non ? quella in cui dovrebbe presentarsi una patologia osteoporotica, va indagato se la paziente sta assumendo farmaci, in particolare antinfiammatori steroidei, che hanno un impatto negativo sulla salute dell’osso

L’osteoporosi, oltre che una conseguenza della menopausa che subentra in una fase tardiva della vita, pu? essere l’effetto indesiderato di una terapia con farmaci cortisonici, indipendentemente dall’et?, e a maggior ragione in quella postmenopausale, e anche dai valori della mineralometria ossea computerizzata (Moc). Si tratta di un’evidenza che risale ad alcuni anni fa, quando ? stato notato che alcuni soggetti avevano un elevato rischio di frattura, prima ancora che si presentassero valori di Moc a rischio. ?Si trattava di pazienti che, per vari motivi, seguivano una terapia cortisonica, ma che non erano stati protetti con un trattamento antifratturativo, mentre magari assumevano gi? gastroprotettori prescritti dal medico? spiega Andrea Giustina, direttore del Servizio di endocrinologia e del Centro Osteoporosi dell’A.O. Spedali Civili di Brescia, P.O. di Montichiari. ?Lo stesso impatto sulla salute dell’osso ? noto anche per gli inibitori dell’aromatasi, per gli antiretrovirali usati nei soggetti positivi per l’Hiv o malati di Aids e per l’eparina. Il dibattito ? aperto sul trattamento inalatorio dell’asma che prevede dosi basse, mentre il rischio c’? con dosi inalatorie alte? chiarisce Giustina.

L’evento pi? frequente che pu? verificarsi ? la frattura vertebrale, e la prevenzione si realizza con le stesse terapie antifratturative che si usano per l’osteoporosi. In particolare ? stato notato che il meccanismo con cui i cortisonici impattano sull’osso dipende dal suo effetto sugli osteoblasti, riducendo la loro attivit?: ?In questi casi, risulta molto efficace una terapia antifratturativa con paratormone in combinazione con teriparatide? sottolinea l’esperto ?che “risveglia” gli osteoblasti, ma si possono usare anche i bisfosfonati. Per altro, l’accesso a questi farmaci, per i pazienti con osteoporosi cortisonica, ? previsto nella nota 79 e l’uso di cortisonici, in quanto fattore di rischio, ? stato inserito nell’algoritmo Frax, usato per valutare il rischio fratturativo?. In sostanza, secondo l’esperto, chi deve fare almeno sei mesi di terapia con cortisonici, deve seguire anche una terapia preventiva per le fratture, il rischio, infatti, dipende dalla dose e dalla durata: nella nota 79 e nel Frax si fa riferimento a dosi >5 mg/die di prednisone o equivalenti, assunti continuativamente per pi? di tre mesi. Allo stesso modo la presenza di osteoporosi in una paziente ancora giovane deve sollevare il sospetto di una forma indotta da cortisonici. ?Vanno considerate a rischio le donne in menopausa che assumono terapia cortisonica? conclude Giustina ?ma anche pazienti con artrite reumatoide, e, sempre nell’ambito della patologie reumatiche, anche pazienti con lupus eritomatosus sistemico. Questa malattia colpisce in particolare le giovani donne e poich? d? una spiccata sensibilit? al sole, le pazienti tendono a non esporsi con un calo dei livelli di vitamina D. In queste condizioni, i cortisonici vanno ad aumentare il rischio di fratture con un impatto importante sulla vita della paziente?.

S.Z.

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Ar: rapporti tra paratormone, densit? minerale ed erosioni

Nuovi dati su pazienti con artrite reumatoide (Ra) suggeriscono che la presenza di erosioni ossee siano correlate a bassi livelli di densit? minerale ossea (Bmd) e alti livelli di ormone paratiroideo (Pth): tali associazioni sono indipendenti dal grado di deterioramento funzionale e da altri comuni determinanti della massa ossea e del metabolismo minerale nei soggetti adulti con Ra. Questi risultati, presentati da Maurizio Rossini e Silvano Adami, dell’universit? di Verona, insieme ad altri reumatologi italiani, suggeriscono che i trattamenti finalizzati alla prevenzione della perdita di osso o alla soppressione dei livelli di Pth possano determinare effetti positivi sulla progressione delle erosioni ossee nella Ra. Lo studio multicentrico trasversale ha incluso 1.191 pazienti con Ra, di cui 1.014 donne, con un’et? media di 58,9 anni; evidenze radiografiche di erosioni ossee tipiche alle mani o ai piedi sono state evidenziate nel 64,1% dei pazienti. La presenza di erosioni rispetto all’assenza si accompagnava a valori medi di z score Bmd significativamente pi? bassi sia a livello della colonna (-0,74 vs -0,46) sia dell’anca (-0,72 vs -0,15). Nel sottogruppo di pazienti che non assumevano supplementi della vitamina D, i livelli di Pth erano significativamente pi? alti in presenza di artrite erosiva (25,9 vs 23,1 pg/ml) mentre le concentrazioni di 25OH vit.D erano molto simili nei due gruppi. Le differenze medie per Bmd e Pth fra i casi di RA erosiva e non erosiva si sono mantenute statisticamente significative quando i valori venivano simultaneamente aggiustati per tutti i fattori della malattia e del metabolismo minerale.

J Rheumatol, 2011 Apr 1. [Epub ahead of print]

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Rischio sclerosi multipla nei bambini con demielinizzazione

11 Ago 2011 Neurologia

Il rischio di sclerosi multipla (Sm) nei bambini con demielinizzazione incidente pu? essere stratificato in base alla presenza degli alleli Hla-Drb1*15, di infezione remota da virus di Epstein-Barr e di basse concentrazioni di 25-idrossivitamina D. Analogamente a quanto in precedenza osservato negli adulti, le lesioni cerebrali identificate tramite risonanza magnetica (Mri) e bande oligoclonali nel liquido cerebrospinale (Csf) sono da ritenere probabili precursori dell’esordio clinico della malattia, mentre i bambini con risultati Mri nella norma sono probabilmente affetti da una malattia monofasica. Questa l’interpretazione dei risultati di uno studio di coorte prospettico, coordinato da Brenda Banwell, dell’hospital for Sick children di Toronto. Gli autori hanno valutato, tra il settembre 2004 e il giugno 2010, 302 bambini con demielinizzazione presentatisi in una delle tante strutture pediatriche dislocate sul territorio canadese, seguiti per un follow-up mediano di 3,14 anni. Come determinanti di Sm sono stati presi in esame, attraverso analisi univariate e multivariabili, la presenza del genotipo Hla-Drb1*15 e del virus Epstein-Barr, le concentrazioni di vitamina D, eventuali lesioni cerebrali individuate tramite Mri e le bande oligoclonali Csf. La diagnosi di Sm ? stata stilata in 63 bambini (21%) dopo un periodo mediano di 127 giorni. Sebbene il rischio di Sm risultasse aumentato in presenza di uno o pi? alleli Hla-Drb1*15 (rapporto di rischio, Hr: 2,32), concentrazioni sieriche ridotte di 25-idrossivitamina D (Hr per una riduzione di 10nmol/L: 1,11) e precedente infezione da virus Epstein-Barr (Hr: 2,04), non si sono registrate interazioni tra queste variabili nell’analisi multivariata. La Sm ? risultata fortemente associata con l’evidenza Mri di una o pi? lesioni cerebrali al basale (Hr: 37,9) o bande oligoclonali Csf (Hr: 6,33). Un paziente cui ? stata posta diagnosi di Sm ha mostrato un referto Mri normale, per cui la sensibilit? per la malattia di un risultato Mri anomalo si attesta sul 98,4%.

Lancet Neurol, 2011 Mar 31. [Epub ahead of print]

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Rischio di overdose se la dose prescritta di oppiacei ? alta

Tra i pazienti cui vengono prescritti farmaci oppioidi per il dolore, dosi pi? alte si associano a un aumento del rischio di decesso per overdose. ? la conclusione di uno studio caso-coorte condotto da Amy S. B. Bohnert del department of Veterans affairs di Ann Arbor (Usa) e collaboratori. Sono stati presi in considerazione tutti i decessi non intenzionali da overdose da oppiacei su prescrizione (n=750) e un campione casuale di pazienti (n=154.684) tra quanti avevano ricorso a prestazioni mediche alla Veterans health administration tra il 2004 e il 2005, ricevendo una terapia con oppiacei per il dolore. Come principali misure di outcome si sono considerate le associazioni dei regimi terapeutici (dose e posologia) con la morte da overdose in sottogruppi definiti da diagnosi cliniche e aggiustati per et?, genere, etnia e comorbilit?. La frequenza di overdose fatale lungo il periodo di studio tra i soggetti trattati con oppiacei ? stato calcolato intorno a 0,04%. Il rischio di morte da overdose ? risultato direttamente correlato alla dose massima giornaliera prescritta del farmaco. Il rapporto di rischio (Hr) aggiustato associato a una dose prescritta massima di 100 mg/d o superiore, rispetto alle dosi comprese tra 1 e 20 mg/d, si ? attestato sui seguenti valori: 4,54 nei soggetti con disordine nell’uso della sostanza; 7,18 nei pazienti con dolore cronico; 6,64 in quelli con dolore acuto; 11,99 nei soggetti con cancro. I pazienti che ricevevano una prescrizione “al bisogno” con posologia regolare non sono apparsi associati a rischio di overdose dopo aggiustamento.

JAMA, 2011; 305(13):1315-21

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Distress respiratorio acuto: a 5 anni molte sequele fisiche

Debolezza persistente, limitazioni all’esercizio fisico, sequele fisiche e psicologiche, ridotta qualit? della vita, aumento dell’uso dei servizi sanitari e dei loro costi: sono queste le pi? importanti eredit? lasciate da un grave danno polmonare, come quello determinato da una sindrome da distress respiratorio acuto (Ards). Lo ha verificato un team dell’universit? di Toronto (Canada) guidato da Margaret S. Herridge, in uno studio condotto su 109 soggetti sopravvissuti a un’Ards e valutati dopo la dimissione ospedaliera dall’unit? di terapia intensiva a distanza di 3, 6 e 12 mesi, e di 2, 3, 4 e 5 anni. In ogni visita i pazienti venivano sottoposti a intervista e a una serie di esami: test di funzione polmonare, test del cammino in 6 minuti, ossimetria a riposo e sotto sforzo, imaging del torace, valutazione della qualit? di vita; infine, era riportato l’uso dei servizi sanitari. Dopo 5 anni, la funzione polmonare risultava normale o quasi normale, eppure un’ampia costellazione di altri problemi fisici e psicologici si era sviluppata o mantenuta costante nei pazienti e nei caregivers. La distanza percorsa in 6 minuti si attestava sul 76% di quella predetta e lo score della componente fisica sulla scala Medical outcome study 36-item short-form health survey era 41 (mentre il punteggio medio normale, corrispondente per sesso e per et?, era 50). In riferimento a tale punteggio, i pazienti pi? giovani presentavano un tasso maggiore di recupero rispetto ai pi? anziani, ma nessun gruppo tornava a 5 anni ai livelli normali predetti di funzione fisica. I pazienti con il pi? elevato numero di comorbilit?, infine, sono incorsi ai costi pi? elevati.

N Engl J Med, 2011; 364:1293-304

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Prevenzione primaria nei diabetici con Asa: i pro e i contro

Nei pazienti con diabete mellito senza pregressa malattia cardiovascolare, il trattamento con acido acetilsalicilico (Asa) riduce il rischio di eventi cardiovascolari avversi maggiori (Mace), ma nel contempo determina la tendenza verso tassi pi? elevati di sanguinamento e complicanze gastrointestinali. Questa tipologia di pazienti, nello spettro del rapporto rischio/beneficio, si trova in una zona intermedia tra quelle occupate dai soggetti in prevenzione primaria e secondaria; ci? sottolinea l’importanza di considerare il rischio individuale nella decisione relativa alla prescrizione di Asa nei diabetici. ? questa la conclusione di una revisione sistematica con metanalisi di studi sull’uso dell’Asa per la prevenzione primaria dei Mace (outcome composito di infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, e morte cardiovascolare), effettuata da un’?quipe dell’universit? di Calgary (Canada) guidata da Sonia Butalia. Sono stati selezionati complessivamente 7 studi, per un totale di 11.618 partecipanti all’analisi. Il rapporto di rischio (Rr) globale per Mace ? risultato di 0,91, con piccole eterogeneit? fra i trial. Altri outcome secondari di interesse riguardavano l’infarto del miocardio (Rr: 0,85), l’ictus (Rr: 0,84), la morte cardiovascolare (Rr: 0,95) e la morte per tutte le cause (Rr: 0,95). Si sono avute per? elevate frequenze di eventi emorragici e gastrointestinali. In termini assoluti, i valori di rischio relativo rilevati stanno a indicare che per ogni 10.000 pazienti diabetici trattati con Asa si possono prevenire 109 Mace a discapito di 19 casi di sanguinamento maggiore (il cui Rr non ? statisticamente significativo).

Cardiovasc Diabetol, 2011 Apr 1;10(1):25

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Terapia di mantenimento del Crohn: dubbi oltre i 18 mesi

Nel mantenimento della remissione per la malattia di Crohn, un chiaro beneficio deriva dalla continuazione per almeno 18 mesi della terapia con azatioprina (Aza) e 6-mercaptopurina (6-Mp). Al momento per? l’evidenza non ? sufficiente per prendere decisioni sull’opportunit? di continuare questa terapia oltre il diciottesimo mese. La metanalisi che ha approfondito la questione ? frutto del lavoro di un team di gastroenterologi inglesi sotto la guida di Wael El-Matary dell’Alder Hey children’s Nhs foundation trust di Liverpool: i ricercatori hanno analizzato i dati di 5 studi randomizzati e di coorte, corrispondenti a 256 pazienti e 168 controlli, avviati a terapia di mantenimento con azatioprina versus placebo o nessun trattamento. Gli outcome primari consistevano nei tassi di recidiva in seguito alla sospensione di Aza/6-Mp dopo 6, 12 e 18 mesi e dopo 5 e 10 anni. Lo stop al trattamento con Aza e 6-Mp ha comportato un significativo incremento del rischio di recidiva al 6?, 12? e 18? mese, con valori di rapporto crociato (Or) combinato rispettivamente pari a 0,22, 0,25 e 0,35. Due trial hanno esaminato il tasso di recidiva dopo 5 anni evidenziando un Or combinato pari a 0,53. Non ? stato identificato nessun trial che abbia esaminato i tassi di recidiva dopo 5 anni.

Dig Dis Sci, 2011 Apr 8. [Epub ahead of print]

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Rasagilina ritarda il ricorso ai farmaci per il Parkinson

Trova conferma l’efficacia di rasagilina nel ritardare il ricorso ai farmaci sintomatici per la malattia di Parkinson. Emerge inoltre il contributo dei punteggi relativi alle attivit? quotidiane della scala Updrs (Unified Parkinson’s disease rating scale) nella risposta di rasagilina 1 mg/die “early-start” rispetto all’instaurazione ritardata del trattamento. Infine, il tasso di deterioramento di Updrs ? risultato minore di quanto anticipato da studi precedenti e in correlazione con la gravit? della malattia al basale. A sancirlo ? lo studio Adagio, multicentrico in doppio cieco, placebo-controllato, in cui 1.176 pazienti con malattia di Parkinson in fase precoce e non trattata sono stati randomizzati a ricevere 1 o 2 mg di rasagilina al giorno per 72 settimane (gruppi? “early-start”) o placebo per 36 settimane seguito da rasagilina 1 o 2 mg al giorno per 36 settimane (gruppi “delayed-start”). Lo studio porta la prima firma di Olivier Rascol, del dipartimento di Farmacologia clinica di Tolosa (Francia), e vede la partecipazione per l’Italia di Fabrizio Stocchi dell’Irccs San Raffaele di Roma. L’indagine dimostra che il bisogno di una terapia anti-Parkinson addizionale si riduce con rasagilina 1 mg/die (9%) e 2 mg/die (9%) rispetto al placebo (18%). Alla settimana 36, le due dosi migliorano in modo significativo i subscores motori di Updrs rispetto a placebo (differenza media rasagilina 1 e 2 mg: -1,88 e -2,18) ma anche i subscores relativi alle attivit? quotidiane (Adl; rasagilina 1 e 2 mg: -0,86 e -0,88). Alla settimana 72 l’unica differenza significativa fra trattamento “early-start” e “delayed-start” ha riguardato il subscore Adl alla dose di 1 mg/die (-0,62). Lo studio ha anche mostrato che il tasso di progressione dello score Updrs totale si attesta, nel gruppo placebo, su 4,3 punti in 36 settimane, pari a circa 6 unit? all’anno. Sempre nel gruppo placebo, i pazienti con scores Updrs nel quartile inferiore sono andati incontro a una progressione pi? lenta rispetto ai pazienti con punteggi nei quartili pi? alti (differenza media: -3,46).

Lancet Neurol, 2011 Apr 7. [Epub ahead of print]

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