Nelle donne con cancro mammario metastatico, una durata maggiore della chemioterapia di prima linea si associa a un lieve aumento della sopravvivenza globale e a un incremento sostanziale della sopravvivenza libera da progressione. ? l’esito di una metanalisi e revisione sistematica, condotte da un team italo-australiano che ha visto la partecipazione di oncologi dell’ospedale Galliera di Genova e dell’Istituto scientifico romagnolo per lo studio e la cura dei tumori di Meldola (Forl?-Cesena). L’?quipe ha identificato nella letteratura scientifica finora pubblicata 11 trials randomizzati che hanno valutato sopravvivenza globale e libera da progressione in rapporto alla durata dei cicli chemioterapici. Analizzando i dati delle 2.269 pazienti con tumore al seno metastatico coinvolte nei trial ? emerso che la maggiore durata della chemioterapia di prima linea determina un prolungamento statisticamente significativo della sopravvivenza globale (rapporto di rischio, Hr: 0,91) e un sostanziale aumento della sopravvivenza libera da progressione (Hr: 0,64). Non si sono registrate differenze negli effetti su sopravvivenza globale e libera da progressione fra i sottogruppi definiti in base al tempo di randomizzazione alla terapia, al disegno dello studio, al numero di cicli chemioterapici nel braccio di controllo o a un’eventuale terapia endocrina concomitante.
Si chiama lomitapide e apre nuove speranze per chi ? affetto da forme finora incurabili di ipercolesterolemia omozigote. Si tratta di un centinaio di pazienti in Italia, circa 6.000 nel mondo, che possiedono un doppio gene patologico e che non rispondono al trattamento con le statine, necessitando perci? di Ldl-aferesi, terapia molto costosa e non sempre praticabile, specialmente nei bambini. ?Fino a oggi non esisteva una cura e le persone colpite morivano d’infarto in et? giovanile?, spiega Cesare Sirtori, preside della Facolt? di Farmacia dell’Universit? di Milano e direttore del Centro universitario dislipidemie dell’Ao Niguarda Ca’ Granda. ?I risultati ottenuti con lomipatide sono sbalorditivi: il colesterolo Ldl si dimezza dopo poche compresse, con riduzione, in alcuni casi, del 70-80%?. La molecola agisce da inibitore della Mtp (microsomal transfer protein), proteina che “assembla” colesterolo, trigliceridi e proteine nel fegato. In questo modo le Ldl non vanno in circolo e i livelli di colesterolo crollano. Oltre ai pazienti con ipercolesterolemia omozigote, la lomitapide si sta rivelando il farmaco in grado di salvare da un’altra malattia rara, la chilomicronemia, caratterizzata da livelli molto elevati di trigliceridi, che pu? causare pancreatiti anche fatali. L’Fda ha concesso alla lomitapide la denominazione di “orphan drug”. ?I primi sette pazienti in Italia sottoposti alla terapia con Mtp inibitore, stanno rispondendo in modo ottimale dopo un anno o pi?? chiarisce Sirtori. Che cosa fare se si hanno pazienti che si ritiene possano trarre beneficio dalla terapia con lomitapide? ?In primo luogo caratterizzare il gene patologico? spiega Sirtori. Occorre rivolgersi al Centro di Niguarda o ad altro Centro specializzato. Poi, una volta definita la malattia omozigote o la causa della chilomicronemia si pu? accedere a questo trattamento innovativo?.
L’invecchiamento cutaneo fisiologico ? accelerato ed accentuato dall’esposizione al sole il quale rappresenta una condizione predisponente allo sviluppo dei tumori cutanei. In quest’ambito uno dei cardini della prevenzione ? rappresentato dalla limitazione all’esposizione al sole, in particolare nei soggetti a rischio. ? infatti noto che gli ultravioletti rappresentano un fattore determinante per l’induzione alla formazione di tumori cutanei e l’abbronzatura rappresenta una risposta al danno sul DNA cellulare provocato dagli ultravioletti. In questo contesto l’impiego di filtri solari ad alto indice protettivo ? un provvedimento che viene raccomandato in ogni caso dalla maggioranza dei pediatri, anche se esistono discrepanze rispetto al loro impiego ottimale e al loro uso ripetuto. Se si considera che il melanoma ha un’incidenza in aumento negli ultimi anni soprattutto a causa della maggiore abitudine ad esposizioni protratte al sole potrebbe essere un tumore prevenibile con l’uso regolare di creme solari mediante l’applicazione quotidiana alla testa, al collo, braccia e mani. Il Journal of Clinical Oncology ha pubblicato un grande studio randomizzato e controllato, il Nambour Cancer Prevention Trial, che ? stato condotto in Queensland (Australia), una regione con il pi? alto tasso di tumori cutanei del mondo. Lo studio ha valutato il rapporto tra incidenza di melanoma e modalit? di utilizzo della protezione solare. Sono stati randomizzati 1.621 adulti verso un impiego regolare di creme solari oppure verso un uso discrezionale, dimostrando che l’applicazione regolare di filtri solari con un fattore di protezione > 15 per un periodo di trattamento di 5 anni ha ridotto in modo significativo l’incidenza di melanomi osservati nel corso dei successivi 10 anni di follow-up. In particolare nel gruppo di intervento (uso regolare con riapplicazione di filtri) erano stati diagnosticati 11 melanomi primari contro 22 identificati nel gruppo di controllo (uso discrezionale). Questo risultato dimostra una riduzione del 50% del tasso osservato di incidenza di melanoma in soggetti con uso quotidiano di creme solari (HR 0,50 IC 95% 0,24-1,02; p=0,051), confermando una riduzione notevole e >70% nei casi di melanomi invasivi nel gruppo di intervento rispetto ai controlli ( 3 vs 11; HR 0,27, IC 95% 0,08-0,97; p=0,045) e meno evidente nei casi di melanomi pre-invasivi (8 vs 11; HR 0,73; IC 95% 0,29-1,81; p=0,049). Da questo studio, ambizioso, rigoroso e difficilmente replicabile in tempi brevi, derivano delle indicazioni che sono valide per tutti i soggetti bianchi che vivono in climi temperati in Nord America e in Europa. In particolare vengono fornite istruzioni chiare sull’uso regolare dei filtri solari e sull’importanza della loro riapplicazione in particolari condizioni quali una forte sudorazione, il bagno, o l’esposizione solare prolungata. L’uso regolare della protezione solare dovrebbe diventare d’abitudine nei soggetti ad alto rischio (pelle chiara, lentiggini, tendenza alle scottature, familiarit? ecc.), negli adulti molto esposti e nei bambini. Tuttavia, una strategia mirata alla riduzione dell’incidenza dei tumori cutanei non pu? essere limitata solamente all’indicazione di un utilizzo regolare della protezione solare, ma deve comprendere altri consigli, come quello di evitare l’esposizione eccessiva ai raggi ultravioletti, ricordando ai pazienti di effettuare un regolare auto-esame della cute. Sicuramente si ? aggiunta una prova forte di efficacia su un’indicazione, spesso genericamente considerata dai medici, all’uso regolare e alle modalit? di applicazione dei filtri solari come strumento importante di prevenzione del melanoma. Bibliografia 1. Green AC et al. Reduced Melanoma After Regular Sunscreen Use: Randomized Trial Follow-Up JCO 2011;29:257-263
L’ipertrofia Prostatica Benigna (IPB) e il cancro della Prostata (CaP) sono tra le principali cause di morbilit? negli uomini anziani. La loro gestione, nell’ambito delle cure primarie, si ? evoluta considerevolmente in questi ultimi anni grazie a strategie diagnostico-terapeutiche particolarmente efficaci. Nella IPB, la terapia medica ha modificato l’approccio congiuntamente all’evoluzione della chirurga prostatica. Lo screening del PSA ha cambiato radicalmente la gestione del cancro della prostata e il riscontro, sempre pi? frequente, di una malattia locale ha favorito diffusione di tecniche innovative di chirurgia e di radioterapia. In soggetti selezionati con CaP sempre di pi? la vigile attesa o la sorveglianza attiva sono considerate opzioni praticabili. Infatti oggi i quesiti aperti dalla diffusione dello screening del CaP sono: a chi, quando e che cosa fare. Una recente revisione della letteratura scientifica pubblicata sul International Journal of Clinical Practice ha cercato di fornire risposte utili al MMG per la gestione di questi problemi di patologia prostatica. Ipertrofia Prostatica Benigna L’IPB colpisce circa il 50% degli uomini di et? >50 anni e il 90% di quelli >80 anni ne sono affetti. Pu? dar luogo a sintomi fastidiosi delle basse vie urinarie (minzione frequente, urgenza urinaria, nicturia, flusso urinario debole o intermittente, svuotamento incompleto della vescica) con possibilit? di arrivare alla ritenzione acuta urinaria (RAU). Evento associato ad un aumentato rischio di infezioni ricorrenti delle vie urinarie, calcoli della vescica e, occasionalmente, insufficienza renale. Le opzioni di trattamento sono diverse e vanno dall’utilizzo di farmaci, a terapie minimamente invasive, fino alla chirurgia tradizionale della prostata. Il paziente con IPB pu? avere diversi sintomi, ma si preoccuper? essenzialmente solo per uno di questi. Nella maggior parte dei casi l’ipotesi neoplastica potr? essere scartata eseguendo un’esplorazione rettale (DRE), il dosaggio del PSA e un esame delle urine. Se questi esami sono normali la probabilit? di trovarsi di fronte ad una IPB ? elevata, in particolare in soggetti >50 anni. L’associazione di PSA elevato associata a un nodulo prostatico evidenziabile alla DRE orientano verso il CaP. Un’ematuria microscopica con sintomi urinari pu? essere indicativa di cancro della vescica o della prostata. Il riscontro di un residuo post-minzionale >300 ml pu? servire ad identificare un soggetto con IPB ad alto rischio di ritenzione e con indicazione chirurgica. Diversi trial clinici hanno dimostrato che il rischio di progressione dell’IPB aumenta con l’aumentare del volume prostatico. Il PSA pu? essere usato come un surrogato della misura del volume prostatico e un valore di 1,5 ng/ml correla con un volume prostatico di ~30 g. I farmaci rappresentano il trattamento di prima linea in soggetti con sintomi da IPB. Le due classi di farmaci disponibili sono gli α bloccanti e gli inibitori della 5-α-reduttasi. I primi, agendo sulla muscolatura liscia di vescica e uretra prostatica, riducono il tono muscolare e rapidamente aumentando il lume prostatico facilitando la minzione. I secondi riducono il tessuto iperplastico bloccando la conversione del testosterone in diidrotestosterone, l’androgeno prostatico pi? importante. Questo meccanismo riduce progressivamente, ma lentamente, l’ostruzione dello sbocco vescicale in uretra, con risoluzione dei sintomi in 6-12 mesi. Diversi studi hanno dimostrato una diversa interferenza di questi farmaci sul rischio di ritenzione e la necessit? di indicazione chirurgica. Quelli relativi agli α bloccanti non hanno dimostrato una modifica degli esiti, che invece era riscontrabile negli studi con gli inibitori della 5-α-reduttasi, che in soggetti con prostata di volume >30 ml erano superiori agli α bloccanti anche sui sintomi. La terapia di combinazione sfrutta la sinergia di azione delle due classi e i risultati dell’associazione sono superiori alla monoterapia. La terapia chirurgica ? da prendere in considerazione in quei soggetti che non tollerano i farmaci per scarsa risposta sui sintomi o effetti collaterali dipendenti dalla terapia cronica. Le opzioni minimamente invasive includono l’ablazione con ago transuretrale (TUNA) e la terapia trans uretrale a micro-onde (TUMT), che offrono il vantaggio di avere minimi effetti collaterali nel tempo con miglioramento dei sintomi in soggetti appropriatamente selezionati. Il gold standard chirurgico nel trattamento della IPB rimane la resezione trans uretrale (TURP), ma le comorbidit? associate (es. sanguinamento, iponatriemia) orientano verso metodi alternativi. In alternativa sono state impiegate diverse tecnologie laser, come il laser a Holmio (HoLEP) con esiti simili alla TURP. In parallelo si sono sviluppate tecniche di vaporizzazione foto selettiva (PVP) con laser in grado di produrre energia di 532 nm assorbita dall’emoglobina, in grado di portare alla vaporizzazione il tessuto prostatico con la coagulazione dell’area sottostante. Questa tecnica ? indicata in soggetti in terapia anticoagulante o antiaggregante piastrinica. L’efficacia a lungo termine delle tecniche laser non ? ben definita, mentre per tutte le modalit? di intervento esiste una probabilit? variabile (50-90%) di eiaculazione retrograda e minima (1%) di disfunzione erettile. Cancro della Prostata E’ una neoplasia con un ampio spettro biologico di presentazione. Il problema per il medico ? saper identificare e curare le forme aggressive senza sovra-trattare i casi a decorso indolente. Lo screening di popolazione con PSA ? stato proposto come mezzo per ridurre la morbilit? e mortalit? correlata a CaP. Il dosaggio del PSA, proteasi serica che svolge un ruolo nella liquefazione seminale con altre funzioni nei meccanismi riproduttivi, dall’inizio degli anni ’80 ha progressivamente guadagnato un ruolo nello screening del CaP spostando lo stadio dei tumori diagnosticati verso forme locali di CaP. Diversi medici considerano valori di PSA <4 ng/ml normali, ma l'evidenza orienta a un'interpretazione personalizzata dei valori di PSA. Un grande trial (The Cancer Prevention Trial) ha dimostrato una prevalenza di CaP del 15,2% in un gruppo di soggetti con PSA <4,0 ng/ml e di questi il 14,9% aveva un CaP con Gleason >7, con elevato rischio di progressione della neoplasia. Questi dati impongono al clinico pratico attenzione nel considerare il cutoff del PSA a 4,0 ng/ml indistintamente per tutti i pazienti. Un’analisi ha definito dei range di PSA variabili rispetto all’et?, con l’intento do migliorare la detection rate di CaP nel paziente giovane e la riduzione di biopsie inutili nei soggetti anziani. Il PSA velocity (PSAV) ? un altro paramero che viene considerato in aggiunta allo screening convenzionale. In pazienti di et? <60 anni una PSAV >0.35 ng/ml/anno serve a discriminare i soggetti eleggibili alla biopsia. Il dato estrapolato dalla valutazione degli ultimi 3 valori di PSA intervallati fra loro di 3-4 mesi. E’ stato dimostrato che un PSAV >0,75 ng/ml/anno pu? fornire un vantaggio per la diagnosi delle forme pi? aggressive di CaP in soggetti >60 anni. La maggior parte del PSA circolante ? legato a proteine e questo legame ? in relazione al processo proteolitico del PSA nativo che ? ridotto nel CaP. Pertanto in caso di neoplasia la frazione libera di PSA circolante ? ridotta. Un PSA libero >25% in un soggetto con PSA totale fra 4 e 10 ng/ml significa un rischio del 8% di sviluppare un CaP; in un paziente simile, ma con un PSA libero <10% il rischio di CaP sale al 56%. Inoltre un basso livello di PSA libero identifica un’alta probabilit? prognostica di eventi avversi correlati alla prostatectomia radicale. Il PSA libero ? anche utile per definire la necessit? di ripetere la biopsia dopo un risultato iniziale negativo ed ? un esame, in aggiunta al PSA totale, probabilmente pi? utile all’urologo che al MMG. Diversi fattori concorrono a modificare il PSA. Tra questi la terapia con inibitori della 5-α-reduttasi, che riduce la concentrazione serica fino al 50% entro 12 mesi dall’inizio della terapia. Le infezioni, il cateterismo vescicale e le procedure transuretrali endoscopiche sono in grado di alterare il dato, mentre non sono univoci i pareri circa l’influenza dell’eiaculazione, anche se ? consigliabile eseguire il test del PSA dopo 24-36 ore. La massima efficacia per la diagnosi precoce del CaP nasce dalla combinazione del PSA con la DRE. Ci sono evidenze che suggeriscono come lo screening con solo PSA ignori il 17% dei CaP se il cutoff per la biopsia ? 4 ng/ml. Considerando che il CaP ? una condizione altamente prevalente, gli esiti possono essere migliori con la diagnosi precoce. Anche se due grandi studi clinici sono stati recentemente pubblicati a supporto, lo screening di popolazione ? ancora considerato controverso, in quanto espone i pazienti a rischi, incluse le complicanze rare, ma serie della biopsia o la morbidit? secondaria al trattamento del CaP. L’assenza di un inequivocabile beneficio dello screening di popolazione sulla sopravvivenza per CaP non permette alle linee guida di raccomandare lo screening ed esplicitamente lo sconsiglia nei soggetti >75 anni. Il MMG se tiene conto di et?, razza, storia familiare, PSA e sua cinetica, potr? fornire al paziente elementi utili per una decisione che alla fine rimane solo sua. La sfida terapeutica nella gestione del CaP ? tutta centrata sulla decisione di che trattamento fare e quando farlo. La biopsia ci offre informazioni sul grado della neoplasia, ma pu? sottostimarla nel caso venga ignorata un’area ad alto grado. Esistono vari protocolli per identificare i casi a basso rischio in cui ? indicata la sorveglianza attiva. In questi soggetti, per ovviare alla sottostadiazione, vengono eseguite biopsie ripetute nel tempo, con monitoraggio di PSA e DRE. Se la malattia ? in progressione (per incremento di PSA o PSAV, o riconoscimento di un alto grado alla biopsia) ? indicata la terapia. La sorveglianza attiva si distingue dalla “vigile attesa” che viene proposta a uomini con aspettativa di vita limitata o gravi comorbidit? monitorizzando l’emergenza di problemi di estensione locale o malattia metastatica. Il CaP localizzato ? trattato con la chirurgia o la radioterapia. La prostatectomia radicale retro pubica ha un eccellente esito oncologico con incontinenza nel 10% e un risparmio della funzione sessuale nel 50-60% dei casi. Gli esiti delle tecniche robot-assistite non sono attualmente valutabili nel lungo termine. La radioterapia ? diventata pi? efficace e meglio tollerata per tecniche pi? sofisticate nella definizione del campo di irradiazione con esclusione di vescica e intestino. In soggetti ad alto rischio si migliorano gli esiti con l’associazione alla radioterapia dell’ablazione degli androgeni. Le terapie emergenti con ultrasuoni focali ad alta intensit? (HIFU) e la crioterapia sono interessanti per la scarsa invasivit?. Si attendono miglioramenti tecnici in grado di ridurre le complicanze locali come la fistola uretrale. In conclusione, se si considera l’invecchiamento della popolazione del mondo industrializzato, ? probabile che i MMG vedranno un numero sempre pi? crescente di uomini con IPB o CaP, nei quali sar? utile una gestione in stretta collaborazione con gli urologi per formulare un corretto giudizio clinico su significato, modalit? e timing di diagnosi e trattamento. Bibliografia 1. Sausville J, Naslund M Benign prostatic hyperplasia and prostate cancer: an overview for primary care physicians. Int J Clin Pract 2010;64:1740-5
Nel cancro ovarico epiteliale (Eoc) di stadio I, l’analisi del microRna (miRna) appare promettente ai fini prognostici. In particolare, l’miR-200c ha le potenzialit? di predittore di sopravvivenza e biomarcatore di recidiva. ? l’esito di una multicentrica italiana – coordinata da Sergio Marchini, del dipartimento di Oncologia dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano – in cui sono stati analizzati retrospettivamente campioni tumorali provenienti da 144 pazienti (29 delle quali colpite da recidiva) con Eoc di stadio I, raccolti da due collezioni indipendenti di tessuto neoplastico (A e B), entrambe?con un follow-up mediano di 9 anni. Gli 89 campioni della collezione A sono stati suddivisi in un set di sperimentazione (51 campioni) per definire le sequenze dei miRna, e in un set di validazione (38 campioni) per confermare tali sequenze. La collezione B (55 campioni), invece, ? stata utilizzata per un set indipendente di testaggio. Dall’analisi con microarray nel set sperimentale ? stata generata l’espressione di 34 miRna associati alla sopravvivenza. Sia nel set sperimentale sia in quello di validazione, la Pcr (reazione a catena della polimerarsi) quantitativa retrotrascrizionale ha confermato che 11 miRna venivano espressi in modo differente nelle donne con recidiva rispetto a quelle senza recidiva. All’analisi multivariata tre di questi miRna (miR-200c, miR199a-3p, miR-199a-5p) sono risultati associati a sopravvivenza libera da progressione, sopravvivenza globale o a entrambe. La Pcr quantitativa retrotrascrizionale nel set test ha poi confermato la downregulation di miR-200c nei casi recidivanti rispetto agli altri, ma non la upregulation di miR-199a-3p e miR-199a-5p. L’analisi multivariata, infine, ha confermato che la dowregulation di miR-200c nel set test era associata alla sopravvivenza globale (rapporto di rischio/hazard ratio, Hr: 0,094) e alla sopravvivenza libera da progressione (Hr: 0,035), in modo indipendente da altre variabili cliniche.
La sigla che lo identifica ? Adp (Protocollo diagnostico accelerato): si tratta di una metodica predeterminata grazie alla quale in 2 ore ? possibile identificare i pazienti che, presentatisi in un dipartimento di emergenza o in un accettazione ospedaliera per un dolore toracico, hanno un basso rischio a breve termine di un evento cardiaco avverso maggiore. Ci? potrebbe renderli adatti a una rapida dimissione o comunque permetterebbe di ridurre i periodi di osservazione e il numero di ricoveri. Le componenti necessarie per implementare questa strategia sono ampiamente disponibili. L’Adp, infatti, include l’uso di un metodo di punteggio di probabilit? pre-test strutturato (score Timi, ossia Thrombolysis in myocardial infarction), un elettrocardiogramma, e la misurazione sul luogo di cura di un gruppo di biomarker, quali troponina, creatin chinasi MB, e mioglobina.?La validazione di questa metodica ? stata effettuata da un team di ricercatori coordinato da Martin Than, dell’ospedale di Christchurch (Nuova Zelanda), mediante uno studio osservazionale svolto in 14 dipartimenti di emergenza in 9 paesi della regione Asia-Pacifico su soggetti di et? pari o superiore a 18 anni, con almeno 5 minuti di dolore al torace, ponendo come endpoint primario la comparsa di eventi avversi cardiaci maggiori entro 30 giorni dalla presentazione iniziale dei sintomi. Sono stati coinvolti 3.582 pazienti consecutivi, seguiti per un follow-up di 30 giorni. Di questi, 421 (11,8%) hanno avuto un evento avverso cardiaco maggiore. L’Adp ha classificato 352 (9,8%) pazienti a basso rischio e potenzialmente idonei per una dimissione precoce. Un evento avverso cardiaco maggiore si ? poi manifestato solo in 3 (0,9%) di tali pazienti, permettendo cos? di attribuire all’Adp una sensibilit? del 99,3%, una valore predittivo negativo del 99,1% e una specificit? dell’11,0%.
Corte di cassazione penale – Il rischio terapeutico viene distinto in errore terapeutico di carattere esecutivo (per es. chirurgico) ed errore di carattere valutativo (errore diagnostico di individuazione della sintomatologia, ovvero erronea sottovalutazione dell’effetto di interazione tra farmaci o interventi comunque invasivi). In particolare, si ? sottolineato che la rilevanza penale dell’errore valutativo deve ritenersi subordinata alla condizione che esso sia manifestazione di un evidente atteggiamento soggettivo del medico di superficialit?, di avventatezza, imperizia nei confronti delle necessit? terapeutiche del paziente.
In Europa il carcinoma della vescica colpisce oltre 100.000 persone ogni anno ed ? responsabile di circa 40.000 decessi. Le stime per l’Italia indicano 16.000 nuovi casi diagnosticati ogni anno tra i maschi e circa 3.500 tra le femmine, con una mortalit? complessiva di oltre 5.000 persone. ?In caso di malattia localmente avanzata o metastatica ? necessario un trattamento chemioterapico, lo standard ? una combinazione contenente sali di platino. Purtroppo anche cos? il controllo della malattia e dei sintomi correlati raramente supera l’anno?, ha spiegato Enrico Cortesi, primario del reparto di Oncologia B del Policlinico Umberto I di Roma, in occasione della Conferenza nazionale Aiom (Associazione italiana oncologia medica) sui “Tumori urologici”, che si ? aperta ieri a Torino. Ora ? disponibile un nuovo chemioterapico – vinflunina – che ha dimostrato di essere efficace dove le cure standard hanno fallito. ?Vinflunina ? il primo farmaco che abbia dimostrato reali benefici clinici nelle persone con tumore alla vescica in progressione da una precedente chemioterapia?, ha detto Joquim Bellmunt, direttore del Dipartimento di oncologia medica dell’ospedale universitario “Hospital del Mar” di Barcellona, coordinatore degli studi clinici europei che hanno portato alla registrazione del farmaco. Secondo i risultati degli studi, vinflunina in monoterapia prolunga la sopravvivenza dei pazienti di oltre 2,5 mesi, rispetto al trattamento con sola terapia di supporto, con una riduzione del rischio di mortalit? del 22%. Inoltre, il nuovo chemioterapico preserva e migliora la qualit? di vita del paziente.
Una nuova metanalisi si ? focalizzata sulla traiettoria terapeutica della somministrazione intraarticolare di acido ialuronico (Iaha) per il trattamento del dolore da osteoartrosi del ginocchio 6 mesi dopo l’intervento. La nuova prospettiva, aperta dal gruppo di Raveendhara R. Bannuru del Tufts medical center di Boston, permette – a detta degli autori – di dedurre che l’efficacia di Iaha si manifesta dopo 4 settimane, raggiunge il picco all’ottava settimana ed esercita un effetto ancora rilevabile alla 24esima settimana. D’altra parte, l’entit? dell’effetto al picco (Es: 0,46) appare maggiore rispetto a quanto ottenuto con altri analgesici come paracetamolo (0,13), Fans (0,29) o inibitori della Cox-2 (0,44). Si ricorda al proposito che un effetto di dimensioni superiori a 0,20 ? da considerare clinicamente rilevante nel singolo individuo con dolore cronico come quello da gonartrosi. La metanalisi ? stata effettuata su 54 studi randomizzati che hanno riportato gli effetti di Iaha versus placebo per un totale di 7.545 partecipanti con artrosi del ginocchio. Le variazioni dell’entit? dell’effetto rispetto al basale sono state acquisite alle settimane 4, 8, 12, 16, 20 e 24. Si segnala inoltre che i trial presi in esame differivano per alcuni aspetti relativi alla conduzione e alla qualit?. L’entit? dell’effetto ? risultato favorevole a Iaha dalla quarta settimana (0,31), raggiungendo il picco di 0,46 all’ottava settimana e ha in seguito mostrato un trend in discesa con un effetto residuo ancora apprezzabile dopo 24 settimane (0,21). Tale traiettoria terapeutica era consistente anche nel sottogruppo di studi di alta qualit? e all’analisi multivariata aggiustata per la correlazione con i tempi di misurazione dell’entit? dell’effetto. In base a questi risultati gli autori concludono che Iaha potrebbe essere utile in certe situazioni cliniche, o in combinazione con altre terapie.
Osteoarthritis Cartilage, 2011 Mar 25. [Epub ahead of print]
Nei bambini nati pretermine, l’enterocolite necrotizzante e la sepsi nosocomiale si associano a un aumento di morbilit? e mortalit?. Una nuova review Cochrane, coordinata da Khalid Alfaleh, della divisione di Neonatologia presso la King Saud university di Riyad, nell’Arabia Saudita, sancisce ora che la supplementazione enterale con probiotici svolge un ruolo importante nella prevenzione dell’enterocolite necrotizzante grave e della mortalit? per tutte le cause, supportando un cambio della pratica.?
Resta da capire quali siano i giusti dosaggi da somministrare e l’efficacia in casi particolari, come per esempio quelli dei bambini con peso alla nascita estremamente basso.?
L’indagine ha considerato studi scientifici randomizzati e abstract che avessero coinvolto bambini nati prima della trentasettesima settimana e/o che avessero un peso alla nascita inferiore ai 2.500 grammi, nei quali fosse prevista la somministrazione di probiotici. Sono stati quindi presi in esame 16 trial che hanno randomizzato un totale di 2.842 neonati.?
I criteri di inclusione nei vari trial sono risultati molto diversi gli uni dagli altri per quanto riguarda il peso alla nascita, l’et? gestazionale, il rischio al basale di enterocolite necrotizzante nei controlli, i dosaggi, i tempi e le formulazioni dei probiotici e i regimi di nutrizione.?
Nella metanalisi dei dati, la supplementazione enterale con probiotici ha ridotto significativamente l’incidenza di enterocolite necrotizzante grave (stadio II o maggiore; rischio relativo, Rr: 0,35) e la mortalit? (Rr: 0,40). Non sono invece emerse riduzioni significative per quanto riguarda la sepsi nosocomiale (Rr: 0,90). Infine, l’impiego di probiotici non ha determinato, nei trial considerati, infezioni sistemiche. Cochrane Database Syst Rev, 2011 Mar 16; 3:CD005496