Fa: da controllare i fattori di rischio cardiovascolare

26 Lug 2011 Cardiologia

Oltre la met? dei casi di fibrillazione atriale potrebbe essere evitato attraverso un’ottimizzazione del controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. ? uno dei risultati che Rachel R. Huxley, della divisione di Epidemiologia e salute comunitaria della university of Minnisota, a Minneapolis, e collaboratori, hanno tratto analizzando i dati dei 14.598 partecipanti allo studio Aric (Atherosclerosis risk in communities). I ricercatori hanno suddiviso i fattori di rischio consolidati per fibrillazione atriale – quali ipertensione arteriosa, elevato indice di massa corporea, diabete meliito, fumo di sigaretta, e pregressa malattia cardiaca – in 3 livelli: ottimale, borderline, elevato. Sulla base dei livelli dei fattori di rischio, i soggetti sono stati quindi classificati in uno di 3 gruppi dalle analoghe denominazioni. La frazione attribuibile nella popolazione di fibrillazione atriale dovuta a un profilo di rischio non ottimale ? stata valutata in modo separato negli uomini e nelle donne, causasici e non caucasici. Nel corso di un follow-up medio di 17,1 anni, sono stati identificati 1.520 casi incidenti di fibrillazione atriale. I tassi di incidenza aggiustati per et? pi? alti si sono avuti nei maschi bianchi mentre quelli pi? bassi si sono riscontrati nelle donne di colore (7,45 e 3,67 per 1.000 anni-persona, rispettivamente). La prevalenza complessiva del profilo ottimale di rischio si ? attestata su 5,4%, ma ? apparsa variabile a seconda dell’etnia e del genere: 10% nelle donne caucasiche vs 1,6% nei maschi neri. Nel complesso, il 56,5% dei casi di fibrillazione atriale pu? essere spiegato con il fatto di avere uno o pi? fattori di rischio di livello borderline o elevato; tra questi fattori, comunque, l’elevata pressione arteriosa rappresenta l’elemento pi? importante.

Circulation. 2011 Apr 12;123(14):1501-8

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Finalmente concrete?prospettive di terapia delle epatiti croniche da HCV genotip

Dopo un’attesa di molti anni si prospetta la possibilit? di un reale miglioramento dei risultati della terapia dei pazienti con epatite cronica da HCV genotipo 1. Al meeting dell’AALDS di Boston dell’ottobre 2010 sono stati presentati i risultati di 4 studi di grandi dimensioni realizzati con l’impiego, in associazione al peginterferone alfa ed alla ribavirina, di 2 inibitori della proteasi di HCV, il boceprevir e il telaprevir. I due studi con boceprevir hanno evidenziato – nei soggetti non trattati in precedenza con antivirali (studio SPRINT-2) – un significativo incremento del numero di risposte virologiche sostenute, anche dopo periodi di trattamento pi? brevi rispetto al trattamento standard (48 settimane) con peginterferone e ribavirina. Risultati analoghi si sono verificati anche nei pazienti non responder o relapser (studio RESPOND-2). La triplice terapia ? gravata da una pi? marcata anemizzazione e da una frequente disgeusia. Anche i due studi con telaprevir (ADVANCE e ILLUMINATE) hanno documentato in soggetti non trattati in precedenza la possibilit? sia di ottenere un maggior numero di risposte virologiche sostenute, sia di poter attuare schemi di terapia pi? brevi. Tali schemi consentono anche di ridurre gli effetti indesiderati, in particolare rush cutanei di tipo eczematoso, prurito, nausea, diarrea e marcata anemizzazione. Sull’efficacia terapeutica di telaprevir c’? da aggiungere che nel 2010 Mc Hutchison et al. avevano pubblicato sul NEJM uno studio che dimostrava come nei pazienti non responder alla terapia con peginterferone alfa e ribavirina l’associazione con telaprevir risultava pi? efficace rispetto al trattamento con la precedente terapia. La prospettiva di trovarsi finalmente di fronte ad una reale modificazione degli effetti della terapia delle epatiti croniche da HCV genotipo 1 appare dunque davvero concreta. Gli studi di cui si ? detto sono registrativi e dunque utili per poter ottenere la commercializzazione di boceprevir e telaprevir. Naturalmente ulteriori studi ed un’attenta farmacovigilanza dovranno chiarire meglio il profilo di sicurezza di questi farmaci e dovranno dirci se il loro impiego possa dare significativi vantaggi anche nella terapia delle epatiti croniche sostenute da genotipi pi? facili, rispetto al genotipo 1, in termini di risposte terapeutiche, tenuti presenti anche l’incremento dei costi ed il rischio di un maggior numero di effetti indesiderati.?

Piazza M. Epatiti virali acute e croniche. News online 2011
Mc Hutchinson JG et al. Telaprevir for Previously Treated Chronic HCV Infection. N Engl J Med 2010; 362: 1292

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L’epatocarcinoma su cirrosi HCV-relata: manca una sorveglianza adeguata

L’epatocarcinoma (HCC) su cirrosi HCV-relata ? in rapido aumento. Ne consegue un aumento della mortalit?, perch? la sopravvivenza generale in caso di HCC ? bassa (<5% a 5 anni). Se per? si interviene in fase precoce la sopravvivenza aumenta significativamente: ci? ha portato a produrre dei programmi di sorveglianza, in genere per? scarsamente applicati. Sugli Annals, in uno studio retrospettivo pubblicato nel numero del 18 gennaio, viene ripreso l'argomento valutando l'applicazione di un programma di sorveglianza dell'HCC in una popolazione di pazienti con cirrosi HCV-relata (registro dei casi di infezione da HCV nei Veterani degli Stati Uniti) e delle variabili ad essa correlate. ? stata identificata una coorte di 126.670 pazienti con infezione da HCV, di cui 13.002 (10.2%) con cirrosi. In tale gruppo, solo il 12,0% ? risultato sottoposto a sorveglianza continua (test di sorveglianza effettuato almeno una volta in 2 anni consecutivi durante i 4 anni successivi alla diagnosi di cirrosi), mentre nel 58.5% dei casi la sorveglianza risultava essere applicata in maniera sporadica (applicazione di almeno 1 test, ma non in maniera routinaria); il 29.5% non eseguiva alcun test di sorveglianza nei 4 anni successivi alla diagnosi di cirrosi. Si sottolinea come circa il 42% dei pazienti con cirrosi eseguiva 1 o pi? test di sorveglianza nel corso del primo anno dopo la diagnosi di cirrosi, ma nei successivi 2-4 anni la percentuale diminuiva significativamente. Diversi fattori (presenza di comorbidit?/complicanze, malattia epatica avanzata definita da MELD-score pi? elevato, etilismo) risultavano significativamente associati ad una minore probabilit? di ricevere correttamente la sorveglianza. Anche in questo gruppo di Veterani USA quindi si conferma la tendenza alla scarsa sorveglianza della popolazione con cirrosi HCV correlata, nonostante le raccomandazioni internazionali ed i chiari effetti sulla sopravvivenza.? Davila JA. Annals Intern Med ?2011; 154: 85-93

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Efficacia dei betabloccanti nello scompenso cardiaco: effetto classe?

23 Lug 2011 Cardiologia

Gli effetti benefici dei beta bloccanti nello scompenso cardiaco sono noti e ampiamente validati. Tuttavia ci sono ancora dubbi se tali effetti siano da considerare di classe o riservati solo ad alcuni di questi farmaci (bisoprololo, carvedilolo, nebivololo?e metoprololo in particolare). Inoltre mancano dati di confronto certi che consentano di sapere quali fra questi farmaci sia il pi? efficace. Un recente studio canadese di comparative effectiveness, effettuato sul database amministrativo del Quebec ed apparso online il 23 febbraio sull’American Journal of Cardiology, condotto su 26.787 pazienti con insufficienza cardiaca – follow-up medio di 1.8 anni – ha cercato di dare risposta ai quesiti sopra riportati. Nei pazienti con scompenso cardiaco che assumevano un beta-bloccante l’incidenza di mortalit? cruda ? stata del
47% con metoprololo,
43% con acebutololo
41% con carvedilolo,
40% con atenololo,
36% con bisoprololo
Dopo analisi statistica e correzione per i fattori confondenti
non si sono riscontrate significative differenze di sopravvivenza con l’uso di metoprololo, carvedilolo e bisoprololo (carvedilolo vs metoprololo HR 1.04;? p = 0.22; bisoprololo vs metoprololo HR 0.96; p =? 0.16)
con atenololo e acebutololo (beta-bloccanti con minor liposolubilit?) si ? invece sorprendentemente riscontrata una minore incidenza di mortalit? vs metoprololo (beta-bloccante maggiormente liposolubile), rispettivamente con HR 0.82 (p < 0.0001) e HR 0.84 (p = 0.004),
suggerendo quindi che nel setting clinico della insufficienza cardiaca i beta-bloccanti non sarebbero tutti uguali e che pertanto gli effetti favorevoli dei beta-bloccanti non sarebbero da considerare come un effetto di classe, ma peculiarit? solo di alcuni.
Lazarus DL et al. Population-based analysis of class effect of beta-blockers in heart failure. Am J Cardiol, online 23 February 2011

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Una interazione potenzialmente pericolosa: macrolidi e calcioantagonisti

Anche se ? noto che i macrolidi con la loro azione di inibizione sul citocromo P450-3A4 possono potenziare l’azione ipotensiva dei calcio-antagonisti, in clinica questa interazione potenzialmente pericolosa ? ampiamente sottovalutata, specie nei soggetti anziani. Sul numero del Canadian Medical Association Journal di Febbraio ? apparso uno studio che ha valutato il rischio di ipotensione o shock – con ricorso al ricovero in ospedale – dopo l’uso simultaneo di calcio-antagonisti e macrolidi. Dei 7.100 pazienti ricoverati in ospedale a causa di una ipotensione sintomatica durante la terapia con un calcio-antagonista, 176 erano anche in trattamento con un macrolide. Da notare per? che l’interazione “negativa” non era da considerarsi un effetto di classe, ma era strettamente correlata alla differente interferenza che i singoli macrolidi hanno sul citocromo P450-3A4: l’eritromicina (il pi? forte inibitore del citocromo P450-3A4) ? risultata pi? fortemente associata ad ipotensione (OR 5.8, 95% CI 2.3-15.0) rispetto alla claritromicina (OR 3.7; IC 95% 2.3-6.1), mentre non si ? riscontrato un aumentato rischio ipotensivo con l’utilizzo della azitromicina (che non inibisce il citocromo P450). Risultati simili sono stati riscontrati anche in una analisi stratificata di pazienti che hanno ricevuto solo calcio-antagonisti diidropiridinici. Gli autori concludono quindi che nei pazienti pi? anziani in terapia con un calcio-antagonista, l’uso contemporaneo di eritromicina o claritromicina ? associato ad un aumentato rischio di ipotensione o shock che richiedono il ricovero in ospedale. Poich? tale effetto non si manifesta con l’utilizzo di azitromicina, la medesima dovrebbe essere considerata quando ? necessario l’uso di un antibiotico macrolide per i pazienti gi? in trattamento con un bloccante dei canali del calcio.

Wright AJ et al. The risk of hypotension following co-prescription of macrolide antibiotics and calcium-channel blockers. CMAJ, February 22 2011; 183 (3). First published January 17 2011; doi:10.1503/cmaj.100702

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Chi lascia la via vecchia per la nuova: il caso dei nuovi ipoglicemizzanti orali

Poich? vi sono state segnalazioni che il trattamento con GLP-1 e DPP-4 inibitori pu? indurre una aumentata incidenza di pancreatiti croniche ma anche di tumori del pancreas e della tiroide, un gruppo di ricercatori del Hillblom Islet Research Center e della Geffen School of Medicine and Department of Biomathematics dell’Universit? di California di Los Angeles ha esaminato il data base della US Food and Drug Administration riguardante le segnalazioni degli eventi avversi correlati all’utilizzo del sitagliptin (DPP-4 inibitori) e?della exenatide (GLP-1) per verificare quante fossero quelle relative ai casi di pancreatite e di cancro del pancreas e della tiroide presenti e le hanno messe a confronto con quelle di altri 4 ipoglicemizzanti orali utilizzati come controlli. Questi i risultati
l’uso di sitagliptin o exenatide confrontato con quello di altri trattamenti aumenta di 6 volte l’odds ratio per pancreatite, [p < 2x10 (-16)]
anche il tumore al pancreas ? stato riscontrato pi? comunemente tra i pazienti che hanno assunto i due farmaci, rispetto ad altre terapie [p <0,033; p< 2x10(-4)]
analogo risultato – anche se riferito al solo trattamento con sitagliptin – per tutti gli altri tipi di cancro: l’incidenza ? stata maggiore rispetto ad altre terapie [P <1x10 (-4)].
Tali conclusioni, oltre a confermare quelle relative all’aumentata incidenza di pancreatite riportate da svariati case reports o dagli studi negli animali, sollevano inoltre cautela sulle azioni potenziali a lungo termine di questi farmaci nel favorire il cancro del pancreas e, per quanto riguarda i soli ?DPP-4 inibitori, anche per l’aumentato rischio per tutti i tumori.?

Elashoff M et al. Increased Incidence of Pancreatitis and Cancer Among Patients Given Glucagon Like Peptide-1 Based Therapy. Gastroenterology (Feb 2011)

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I tumori neuroendocrini del pancreas: nuove armi

20 Lug 2011 Oncologia

I tumori neuroendocrini del pancreas hanno una incidenza approssimativamente dell’1.3% e costituiscono il 10% di tutti i casi di cancro pancreatico, sono in aumento e la sopravvivenza a 5 anni ? inferiore al 43%. La streptozocina ? il solo farmaco autorizzato negli US per il trattamento di questo tipo di tumori, ma nelle fasi avanzate il ruolo della chemioterapia ? dibattuto, soprattutto per i notevoli effetti collaterali. Si stanno perci? sperimentando altre vie con nuovi farmaci, ormai in fase 3 e recentemente il NEJM ha dedicato, nello stesso numero, due articoli ai risultati di due trial clinici su due farmaci. Il primo riguarda l’everolimus, che inibisce la rapamicina, una serina-treonin kinasi che stimola la crescita, la proliferazione cellulare e l’angiogenesi. Di 410 pazienti con il tumore in fase avanzata, 207 hanno ricevuto giornalmente 10 mg di everolimus e 203 placebo. I pazienti trattati hanno avuto un periodo libero dalla progressione della malattia significativamente pi? lungo di quelli trattati con placebo e, quello che forse maggiorante conta, il farmaco ? stato nel complesso ben tollerato.?Il secondo studio riguarda l’inibitore della tirosinkinasi sunitinib; siamo quindi nel campo degli inibitori del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) e del Platelet-Derived Growth Factor receptors (PDGFRs). Lo studio ? anch’esso in fase 3, multinazionale, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, condotto su tumori pancreatici neuroendocrini ben differenziati. ? stato condotto su 171 pazienti trattati, in rapporto 1:1, con 37.5 mg di sunitinib o placebo. Lo studio ? stato interrotto per motivi etici perch? nel gruppo placebo si sono verificate pi? morti e maggiori effetti avversi: il sunitinibib ?otteneva un periodo di sopravvivenza libero dalla progressione pi? lungo, una maggiore sopravvivenza totale, e in ultima analisi una risposta obiettiva migliore.

Ramond E et al.? N Engl J Med 2011; 364: 501-13
Yao JC et al. N Engl J Med 2011; 364: 514-23

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Copeptina e NT-proBnp marker di grave rischio di vita

19 Lug 2011 Cardiologia

Nei pazienti anziani che presentano sintomi di scompenso cardiaco, elevate concentrazioni di copeptina (marker surrogato della vasopressina) oppure la combinazione di alte concentrazioni di copeptina e di NT-proBnp risultano associate a un aumentato rischio di morte per tutte le cause. ? questo l’elemento saliente che emerge da uno studio condotto da un’?quipe scandinava coordinata da Urban Alehagen, dell’universit? di Link?ping (Svezia). La ricerca ha valutato 470 soggetti anziani con sintomi di scompenso cardiaco arruolati nel 1996 e seguiti fino al dicembre 2009, sottoposti a esami clinici, ecocardiografia e misurazione delle concentrazioni di peptidi. Outcome primario dello studio era la mortalit? cardiovascolare e per tutte le cause. Dopo un follow up mediano di 13 anni, si sono registrati 226 decessi, di cui 146 per cause cardiovascolari. L’aumento di concentrazioni di copeptina ? risultato associato con un maggior rischio di mortalit? per tutte le cause (quarto quartile vs primo quartile: 69,5% versus 38,5%; hazard ratio: 2,04) e di mortalit? cardiovascolare (quarto quartile vs primo quartile: 46,6% versus 26,5%; hazard ratio: 1,94). Anche la combinazione di concentrazioni elevate di NT-proBnp e di copeptina si ? rivelata associata all’aumento del rischio di mortalit? per tutte le cause (quarto quartile di copeptina: hazard ratio 1,63; quarto quartile di NT-proBnp: hazard ratio 3,17).

JAMA, 2011; 305(20):2088-95

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H. pylori: la resistenza varia con la sede dell’infezione

La mancata eradicazione di Helicobacter pylori pu? essere dovuta alla resistenza agli antibiotici e alla presenza di un’infezione mista. Per approfondire la questione uno studio italiano, condotto da Leonardo Marzio, unit? di Fisiopatologia digestiva dell’Universit? G. d’Annunzio di Chieti-Pescara e collaboratori, ha indagato l’incidenza di infezione mista e di resistenza discordante agli antibiotici in pazienti mai trattati o gi? trattati in precedenza. La conclusione ? che la coltura e il test di suscettibilit? dovrebbero essere eseguiti quando necessario non solo nell’antro ma anche nel fondo dello stomaco dei pazienti con infezione da H. Pylori. Il test di suscettibilit? riguardava amoxicillina, rifabutina, tinidazolo, claritromicina, levofloxacina e moxifloxacina, ed ? stato eseguito su ceppi in coltura di H. pylori provenienti da 76 pazienti mai trattati e 72 pazienti gi? trattati ma senza successo. Il Dna fingerprinting ? stato determinato su ceppi di H. pylori dello stesso paziente con resistenza discordante allo stesso antibiotico. Infezione pangastrica ? stata registrata nel 40% dei soggetti mai trattati e nel 53% di quelli gi? trattati. La resistenza globale ad amoxicillina, claritromicina e tinidazolo ? risultata significativamente pi? alta nei pazienti con infezione pangastrica rispetto a quelli con infezione limitata all’antro. Resistenza discordante era presente nel 33% dei pazienti mai trattati e nel 21% dei soggetti gi? trattati. La determinazione del Dna fingerprinting ha rilevato sostanziali differenze dei patterns di Dna, dato suggestivo di infezione mista.

Eur J Gastroenterol Heaptol, 2011; 23(6):467-72

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Varicocele correzione per infertilit? oltre i 2 anni

Poich? negli uomini con problemi di infertilit? da meno di 2 anni si riscontra un elevato numero di gravidanze provocate, la correzione del varicocele finalizzato a restituire la fertilit? sembra essere appropriata solo nei soggetti il cui periodo di infertilit? sia superiore a 2 anni. La segnalazione porta la prima firma di Vito A. Giagulli, Pp.Oo. Monopoli-Conversano, Asl Bari, e scaturisce da uno studio prospettico condotto su pazienti con varicocele che si sono rivolti consecutivamente ai medici per infertilit?. Globalmente il tasso di gravidanza nel gruppo con varicocele corretto (n=137), e non (n=185), non differisce in modo significativo; considerando per? soltanto i soggetti con infertilit? accertata da oltre 2 anni i casi sottoposti a correzione del varicocele mostrano un tasso di gravidanza significativamente maggiore rispetto ai pazienti non avviati all’intervento. Insieme alla durata dell’infertilit?, la motilit? progressiva degli spermatozoi sembra essere il pi? importante fattore predittivo di fertilit?. Questo outcome invece non ? influenzato dal grado del varicocele n? dall’et? della coppia. In un secondo studio gli autori hanno valutato l’influenza della lunghezza della ripetizione Cag sul tasso di gravidanza nei pazienti con varicocele corretto. ? cos? emerso che la lunghezza della ripetizione Cag non influenza l’outcome successivo a correzione del varicocele. Questi dati – concludono gli autori – suggeriscono che la correzione del varicocele a un anno di infertilit? non determini un tasso di gravidanza pi? alto rispetto a quello osservato nei pazienti il cui varicocele non sia stato corretto.

Int J Androl, 2011; 34(3):236-41

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