Impiego delle statine nelle epatopatie croniche: dobbiamo ridimensionare i nostri timori?

Il National Cholesterol Education Program Adult Treatment III (NCEP-ATP III) include le statine nella lista dei farmaci con controindicazione assoluta per i soggetti con malattie croniche del fegato. Recenti segnalazioni della letteratura non solo fanno avanzare forti perplessit? su un’affermazione cos? drastica, ma addirittura fanno ipotizzare che le statine possano essere considerate un supporto terapeutico in alcune epatopatie croniche. Nei soggetti con sindrome metabolica, nella quale ? presente una steatosi epatica con alterazioni lievi o moderate dei valori delle transaminasi seriche, ? in linea di massima?consigliato il loro impiego nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare. Nei pazienti con epatite cronica HCV (EC-HCV) ? stato documentato che le statine non determinano un significativo incremento dei valori delle transaminasi n? un peggioramento dei principali indici di funzione epatica. Soltanto nei pazienti con epatopatia cronica grave la carenza di adeguati studi di safety fa ritenere corretto non impiegare le statine o, almeno, farlo con notevole cautela. In uno studio su un campione di limitate dimensioni (99 pazienti) la lovastatina e la fluvastatina hanno determinato una riduzione significativa della viremia da HCV e dell’espressione di alcune citochine pro-infiammatorie (IL-6 e TNF-alfa), senza agire sulla IL-10, dotata di azione anti-infiammatoria. Questo effetto potrebbe essere privo di rilevanza clinica perch? in un altro studio l’impiego delle statine in momenti diversi rispetto al dosaggio della viremia (prima e durante la ricerca dell’HCV RNA mediante PCR) non ha dato risultati significativi. In un’ampia casistica di diabetici con elevati livelli di LDL-colesterolo e con epatite cronica C associando una statina alla terapia antivirale con PEG-IFN e ribavirina, si ? avuto un incremento del numero delle Risposte Virologiche Sostenute (SVR). Tale risultato si ? verificato anche in pazienti non diabetici con EC-HCV in terapia antivirale. La terapia insulinica e un cattivo controllo dei valori glicemici, individuato con il dosaggio dell’HbA1c, riducono il numero delle SVR, mentre un effetto negativo non ? riportabile all’impiego della metformina. Uno studio controllato randomizzato in aperto eseguito su una casistica numericamente modesta ha dimostrato che l’associazione della fluvastatina alla terapia con PEG-IFN e ribavirina di soggetti coinfetti con HIV e HCV genotipo 1 b determina un incremento statisticamente significativo delle Risposte Virologiche Rapide (RVR), ma l’incremento della SVR non raggiunge la significativit?. In uno studio condotto con l’associazione di alfaPEG-IFN-2a o 2b e ribavirina in 3070 pazienti con EC da HCV e alti valori di LDL o bassi valori di HDL si ? avuto un numero di SVR sorprendentemente pi? elevato rispetto ai pazienti normolipemici (LDL+?p<0,001; HDL- p=0,004). In 66 soggetti in cui ? stata associata la terapia con statine si ? avuto un ulteriore incremento di SVR (p=0,02). Le ipotesi sui meccanismi degli eventi terapeutici su riferiti sono numerose e sono correlate alla circolazione nel plasma di HCV in associazione con le LDL, alla facilitazione della penetrazione di HCV negli epatociti indotta dall'azione scavenger delle HDL a livello dei recettori B1, a?complesse interferenze con i meccanismi di replicazione cellulare di HCV. In conclusione, in base ai dati di cui attualmente disponiamo, non possiamo certo azzardare l'ipotesi che le statine possano influire in maniera favorevole sulla storia naturale e sull'efficacia terapeutica del trattamento standard delle EC-HCV. Possiamo per? essere meno timorosi circa l'effetto negativo delle statine sulla funzione epatica e accettare l'ipotesi che nei pazienti ad elevato rischio cardiovascolare con EC con alterazioni lievi o moderate degli enzimi di citolisi e degli indici di funzione epatica le statine vadano impiegate senza eccessivi timori e con fondata speranza di un effetto terapeutico positivo.? Harrison SA et al, Hepatology 2010; 52:864-74
Milazzo L et al, J antimicrob Chemother 2010; 65:735-40
Zamor PJ and Russo MW, Curr Opin Cardiol 2011 (in stampa)
Rao GA and Pandya Pk, Gastroenterology 2011; 140:144-52

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Le certezze che crollano: il sale aumenta la pressione (forse), ma non le malattie cardiovascolari. Anzi…

La polemica sul rapporto tra sale e ipertensione, nonostante studi quali l’INTERSALT che ne hanno stabilito la relazione diretta, non si ? mai spenta e un recente articolo comparso su JAMA?? sicuramente destinato a rinfocolarla. Partendo dal fatto che i dati sul danno del sale sono derivati dall’estrapolazione di studi osservazionali e da trials di intervento a breve termine, ? stato progettato uno studio prospettico di popolazione a lungo termine su 3.681 soggetti senza malattie cardiovascolari (CVD) di base. Questi soggetti erano membri di famiglie arruolate in 2 studi di popolazioni europee riguardanti fattori genetici coinvolti nei processi patologici. Dei 3.681 partecipanti 2.096 erano normotesi all’ingresso e su 1.499 sono state misurate la pressione e l’escrezione di sodio all’ingresso e al follow-up. Outcome principale: incidenza della mortalit?/morbilit? e associazione tra le variazioni della pressione arteriosa (PA) e della sodiuria nelle 24 h (che riflette l’assunzione di sodio). Un’analisi multivariata ha espresso il rischio (HR) in terzili di escrezione di sodio in rapporto al rischio medio della popolazione in studio. I risultati dello studio sono inquietanti
1. i tassi di mortalit? dei 3.681 soggetti seguiti per un follow-up mediano di 7,9 anni?erano minori nei terzili con maggiore escrezione di sodio: rispettivamente 4.1%, 1.9%, e 0.8%;
2. nei 2.096 partecipanti (normotesi all’ingresso) seguiti per 6,5 anni, il rischio di ipertensione non aumentava nei terzili con pi? alta escrezione di sodio (p=0.93)
3. nei 1.499 partecipanti seguiti per 6,1 anni la pressione sistolica aumentava di 1,71 mmHg per ogni 100 mmol di aumento dell’escrezione del sodio (p 0.001), ma non la pressione diastolica.
Il punto 1 rimane l’aspetto pi? clamoroso: una relazione inversa tra sodiuria (quindi assunzione di sodio) e rischio di morte da CVD. In ogni modo non viene supportata la raccomandazione di una indiscriminata riduzione del sale nell’intera popolazione per evitare le CVD, anche se non vengono negati effetti sull’abbassamento della PA con la riduzione del sale nei soggetti ipertesi.

Stolarz-Skrzypek K et al. JAMA 2011; 305: 1777-1785

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I contraccettivi orali contenenti drospirenone aumentano il rischio di trombosi venosa profonda?

Il drospirenone ? un progestinico sintetico derivato dallo spironolattone e presenta una struttura simile al progesterone con propriet? anti-androgene ed anti-mineralcorticoidi. ? commercializzato come contraccettivo orale combinato con 30 mg di etinilestradiolo. Mentre non vi sono dubbi sulla sua attivit? anticoncezionale, vi sono numerosi studi che suggeriscono un aumentato rischio di tromboembolismo venoso rispetto ad un altro progestinico, il levonorgestrel. Recentemente sono stati pubblicati due studi derivati rispettivamente dall’analisi di registro del UK General Practice Research Database e dallo Studio della Societ? Pharmametrics effettuato negli Stati Uniti che dimostrano un aumentato rischio rispettivamente di due e tre volte superiore di tromboembolismo venoso nelle donne che assumono contraccettivi orali che contengono il drospirenone rispetto al levonorgestrel. Questi studi presentano per? alcuni limiti determinati dalla scarsa numerosit? dei gruppi di controllo, dal non aver considerato l’obesit? quale fattore di rischio per il tromboembolismo venoso e dal non aver valutato anche la durata all’esposizione al farmaco. Infatti soprattutto questo ultimo dato sarebbe stato di particolare importanza in quanto le donne che utilizzano un contraccettivo da poco tempo presentano un rischio superiore di tromboembolismo venoso rispetto a coloro che li utilizzano da lungo tempo. Pertanto i dati sul rischio di tromboembolismo venoso non fatale per il drospirenone non sono conclusivi considerando per? che il rischio assoluto per le donne in trattamento con contraccettivi orali ? comunque modesto, 20-30 casi / 100.000 donne / anno di uso. ? possibile pensare, alla luce di questi dati, che possa essere utile prescrivere contraccettivi orali con un profilo di sicurezza pi? favorevole, in considerazione anche del fatto che non esistono chiare evidenze che il drospirenone determini vantaggi significativi – oltre a quello contraccettivo – nel trattamento dell’acne, nel ridurre i sintomi pre-mestruali o nel contrastare l’aumento del peso corporeo.?

Parkin; BMJ 2011; 342: d2139
Jick S; BMJ 2011; 342: d2151
Dunn N; BMJ 2011; 342: d2519 Editorial

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Emostasi ed infiammazione: un continuum pericoloso per la placca aterosclerotica

Il processo infiammatorio ? strettamente correlato al processo aterosclerotico e coagulativo: entrambi hanno come organo di riferimento l’endotelio per cui la loro interazione ? comprensibile attraverso un’attivazione del network citochinico. Il NEJM ha recentemente pubblicato una review, non certo di facile lettura, che ha per? il pregio di approfondire tutti i vari attori interagenti. Tra i vari meccanismi si sottolinea come un inibitore diretto della trombina (melagatran) provochi nel ratto una riduzione del processo trombotico, mentre in casi di ipercoagulabilit? indotta si abbia, sempre nell’animale, un incremento dello spessore della placca, indicando cos? l’importanza dei vari fenotipi infiammatori della placca che ne determinano stabilit? o meno
al contrario lo stesso dato non ? emerso da bassi livelli di fattore VIII (emofilico) che non proteggono dal processo aterosclerotico, mentre alti livelli dello stesso fattore rappresentano un rischio cardiovascolare noto (come a far pensare che il legame del fattore VIII con quello di Von Willebrand rappresenti il vero momento aterogeno)
anche il fibrinogeno pu? influenzare il fenotipo della placca favorendo la permeabilit? endoteliale all’accumulo di LDL, inducendo migrazione di monociti e cellule muscolari lisce ed incrementando l’aggregazione piastrinica.
In conclusione, ci si trova oggi in una situazione molto promettente, ma ? evidente che occorre trovare nuove metodiche che forniscano informazioni sulla progressione e sulle caratteristiche della placca aterosclerotica, in modo che il gi? ampio armamentario terapeutico oggi disponibile possa essere utilizzato al meglio in relazione al fenotipo endoteliale.

Borissoff JI et al. N Engl J Med 2011; 364: 1746-1760

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Cancro della prostata in fase precoce: operare o non operare?

12 Lug 2011 Oncologia

Il cancro (Ca) della prostata viene diagnosticato sempre pi? frequentemente e in pi? del 90% dei casi ? localizzato (stadio I e II): il punto ancora controverso ? se in questi pazienti sia pi? opportuno un trattamento chirurgico precoce o una strategia di attesa vigile. Gi? nel 2008 lo Scandinavian Prostate Cancer Group Study 4 (SPCG-4) forn? un’importante evidenza che la prostatectomia radicale, confrontata con una strategia di controllo, in uomini con Ca localizzato, in stadio T1-T2, ben differenziato o moderatamente ben differenziato e un PSA inferiore a 50 mcg/ml, produceva una migliore sopravvivenza non solo legata al Ca in s?, ma per tutte la cause. Ora, nel numero del 5 maggio 2011 del NEJM viene pubblicata un’estensione del follow-up di altri 3 anni, perci? a 15 anni, e anche questa estensione dello studio conferma i dati precedentemente acquisiti: nei pazienti sottoposti a prostatectomia radicale sono minori le morti legate al Ca prostatico ma anche quelle da tutte la cause, come pure il rischio di metastasi (RR:0.53 95% IC, 0.24-1.14; p?= 0.14). Ma ? importante notare che i benefici della prostatectomia sono risultati pi? evidenti nei soggetti pi? giovani, sotto i 65 anni di et?, quindi con una spettanza di vita maggiore, dove il NNT era di 7; erano invece meno chiari per le persone pi? anziane, dove il NNT era 15. Inoltre i vantaggi erano evidenti nel sottogruppo a basso rischio con scala di Gleason < 7 (questo parametro ? la somma dei 2 pi? comuni pattern istologici o gradi, ed il suo valore ? compreso tra 2 e 10, mentre 7 ? il punto di passaggio tra basso e alto rischio). Ma rimane ancora il dubbio, soprattutto in rapporto ad altri studi, se in soggetti pi? anziani, con basso rischio, la strategia di attesa possa essere sufficiente. I livelli di PSA non sembrano influenzare la prognosi della prostatectomia radicale, mentre importantissima discriminante per la sopravvivenza resta il superamento della capsula: i soggetti con superamento della capsula avevano 7 volte pi? probabilit? di morte per Ca prostatico rispetto a quelli senza superamento della capsula.? Bill-Axelson A et al. N Engl J Med 2011; 364: 1708
Smith MR (editorial) N Engl J Med 2011; 364: 1770

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I supplementi di calcio con o senza vitamina D sono privi di pericoli?

I supplementi di calcio non sono sempre salutari: una ri-analisi dei dati del WHI CaD Study, completata dalla metanalisi di altri studi similari, ha evidenziato come la supplementazione di? calcio sia correlata ad una maggior incidenza di eventi cardiovascolari (in particolare di infarto miocardico, ma anche di interventi di rivascolarizzazione coronarica, stroke, morte). Lo studio ha coinvolto donne in menopausa a cui venivano somministrati supplementi di calcio, di calcio e vitamina D, o placebo. L’analisi del WHI CaD ? risultata confusa dall’elevato numero di pazienti nei vari gruppi a confronto che assumevano per conto loro supplementi calcio-vitaminici, il che non costituiva criterio di esclusione dallo studio n? veniva chiesto ai probandi di sospendere le loro terapie abituali. L’attenta ri-analisi statistica, integrata dalla valutazione di altri studi simili, ha per? confermato che la supplementazione di calcio, con o senza vitamina D, induce un modesto ma evidente incremento del rischio cardiovascolare: trattare 240 persone per un anno conduce ad un infarto miocardico in pi?, 283 ad uno stroke in pi? e “solo” 178 ad un evento cardiovascolare combinato in pi?. Per prevenire una frattura di femore al contrario si debbono trattare 302 persone. In sintesi, trattare 1.000 persone con supplementi calcio-vitaminici costerebbe sei infarti o ictus in pi? e tre fratture di femore in meno. C’e qualcosa che non va nel bilancio costo-beneficio: pertanto ? il momento di riconsiderare le nostre strategie di prevenzione dell’osteoporosi con i supplementi di calcio e vitamina D.?

Bolland MJ et al. BMJ 2011; 342: d2040

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Fratture vertebrali, la Cina raccomanda la vertebroplastica

10 Lug 2011 Ortopedia

Da una meta-analisi effettuata su studi randomizzati, e non, scaturisce, in considerazione dei costi elevati della cifoplastica, una raccomandazione preferenziale per la vertebroplastica (Vp) sulla cifoplastica (Kp) nel trattamento delle fratture vertebrali da compressione di origine osteoporotica. Il lavoro ? stato condotto dal gruppo di Fan Shun-wu del Sir Run Run Shaw hospital, presso l’universit? Zhejiang ad Hangzhou (Cina), su 8 studi che hanno arruolato in totale 848 pazienti. Questi studi hanno posto a confronto le due strategie valutando come outcome primario l’effetto sul dolore (scala analogica visuale), la disabilit? (score sulla disabilit? di Oswestry) e le complicazioni. L’outcome ha dimostrato che Vp ? pi? efficace di Kp nel dare sollievo dal dolore a breve termine (non pi? di 7 giorni) mentre Kp si ? dimostrata superiore in relazione al miglioramento funzionale a medio termine (circa 3 mesi). Non ? emersa alcuna differenza significativa tra i due interventi in termini di analgesia e miglioramento funzionale sul lungo termine. Le due tecniche, infine, comportano i rischi simili di incorrere successivamente in una frattura o a leakage (fuoruscita) di cemento.

Int Orthop, 2011 Jun 3. [Epub ahead of print]

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Fratture femorali atipiche da bisfosfonati

9 Lug 2011 Ortopedia

L’uso a lungo termine di bisfosfonati, la classe di farmaci pi? utilizzata per contrastare l’osteoporosi, sembra associato a fratture atipiche di femore, come emerge da recenti studi che hanno associato la somministrazione prolungata del farmaco a fratture a bassa energia a livello della regione subtrocanterica o della diafisi femorale. Una ricerca compiuta dall’?quipe di Yoram A. Weil, del dipartimento di Ortopedia dell’Hadassah Hebrew university hospital di Gerusalemme, ha indagato sull’outcome dopo intervento chirurgico: nonostante l’osteoporosi iniziale, i risultati dell’esame Dexa possono collocarsi al di fuori del range dell’osteoporosi per il collo del femore. Inoltre, in questi pazienti si verifica un pi? alto tasso di fallimento dell’impianto intramidollare che necessita di chirurgia di revisione. Per lo studio sono stati arruolati 15 pazienti (14 donne e 1 uomo, et? media: 73 anni) che presentavano 17 diversi tipi di fratture atipiche del femore associate a un utilizzo di bisfosfonati superiore a tre anni (in media 7,8 anni). I dati raccolti includevano il tipo di frattura, la durata del trattamento, l’ultimo punteggio della densitometria ossea con tecnica Dexa per il collo del femore e per le vertebre, la tipologia di intervento chirurgico e la necessit? della sua revisione. Nel dettaglio, 14 pazienti presentavano, in seguito a traumi a bassa energia, fratture della diafisi femorale (prossimale e distale) o della regione subtrocanterica inferiore. In 13 soggetti, il T-score medio di densit? minerale ossea relativo alle vertebre lombari era di -3,0, mentre quello medio del collo del femore era di -1,8, con solo 3 pazienti nel range dell’osteoporosi. La guarigione della frattura dopo il primo intervento chirurgico con inserimento di chiodi intramidollari si ? verificata nel 54% dei casi, mentre nel 46% si ? reso necessario un intervento di revisione. Nella totalit? dei casi il trattamento della frattura ha avuto buon esito.

J Trauma, 2011 May 23. [Epub ahead of print]

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Artrite reumatoide: abatacept sottocute pari a endovena

Abatacept per via sottocutanea risulta di efficacia e sicurezza paragonabile alla somministrazione endovenosa, con una bassa immunogenicit? e alti tassi di ritenzione: i risultati sono coerenti con quelli del profilo stabilito per abatacept per via endovenosa. Inoltre i tassi di reazione sul sito dell’iniezione sono bassi. La via sottocutanea, pertanto, si propone come opzione addizionale, in questo caso una via di somministrazione alternativa, per i pazienti con artrite reumatoide. Il dato emerge da uno studio di fase IIIb, della durata di 6 mesi, condotto da Mark C. Genovese della Stanford University di Palo Alto (Usa) e collaboratori, su 1.457 pazienti con artrite reumatoide e risposte inadeguate a metotrexate. I soggetti arruolati sono stati randomizzati a ricevere abatacept per via sottocutanea (Sc, 125 mg alla settimana pi? una dose di carico per via endovenosa di circa 10 mg/kg) oppure abatacept per via endovenosa (Iv, circa 10 mg/kg). Al sesto mese, il 76% del gruppo Sc e il 75,8% del gruppo Iv ha raggiunto l’Acr 20, confermando per questo farmaco la non-inferiorit? di Sc rispetto a Iv. L’esordio e le dimensioni delle risposte Acr nonch? l’attivit? di malattia e i miglioramenti della funzione fisica sono apparsi comparabili nei due gruppi. Le frequenze degli eventi avversi e dei gravi eventi avversi a 6 mesi nei gruppi Sc versus Iv erano rispettivamente pari a 67,0% versus 65,2% e 4,2% versus 4,9%. Comparabile anche l’impatto di infezioni gravi, tumori, ed eventi autoimmuni. Reazioni sul sito di iniezione sottocutanea, nella maggior parte dei casi di grado leggero, sono occorse nel 2,6% dei pazienti del gruppo Sc e nel 2,5% dei pazienti del gruppo IV. Infine, la comparsa di anticorpi indotti da abatacept si ? verificata nell’1,1% dei pazienti Sc e nel 2,3% dei soggetti Iv.

Arthritis Rheum, 2011 May 25. [Epub ahead of print]

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Raccomandazioni sull’incidente nucleare in Giappone

? stata inviata a tutti i soci dell’Associazione Medici Endocrinologi (AME) una lettera contenente le raccomandazioni relative al recente incidente nucleare giapponese.?

Popolazione residente in Italia
non esiste alcun rischio di esposizione esterna a radiazioni ionizzanti n? di contaminazione interna da particelle radioattive per inalazione o per contatto
non sono al momento necessarie misure preventive o terapeutiche; in particolare, non ? indicato il blocco dell’accumulo tiroideo di iodio con l’assunzione di ioduro di potassio (KI), trattamento non del tutto esente da rischi anche se rari
il contatto con soggetti potenzialmente contaminati provenienti dal Giappone non espone la popolazione ad alcun tipo di rischio
come misura preventiva il Ministero della Salute ha gi? predisposto il controllo alla frontiera dei cibi prodotti in Giappone o provenienti da quel Paese, al fine di garantire la sicurezza nei confronti della contaminazione da ingestione.
Persone di ritorno dal Giappone
In caso di sospetta contaminazione interna di persone che si sono trovate nelle aree limitrofe alle centrali nucleari, il Ministero del Salute ha individuato centri ospedalieri di riferimento su base regionale in grado di effettuare i controlli necessari; per tale categoria di persone non si ritiene al momento necessario alcun tipo di trattamento per due motivi:
1. il verosimile basso livello di dose assorbita dalla tiroide, inferiore al limite indicato dalle attuali linee guida
2. l’intervallo di tempo relativamente protratto trascorso dall’ipotetica contaminazione.
Persone dirette in Giappone
Per le persone dirette nelle aree limitrofe all’incidente e che non possono sospendere la partenza come consigliabile, devono essere prese in considerazione misure di prevenzione, in particolare il blocco dell’accumulo tiroideo di radioiodio con KI, con le modalit? descritte nelle linee guida pubblicate dalle maggiori organizzazioni mondiali (WHO, IAEA), che suggeriscono di utilizzare compresse di KI allo scopo di bloccare l’accumulo di radioiodio in tiroide solo qualora ricorrano le seguenti condizioni
1. il tempo intercorso tra possibile contaminazione e assunzione del farmaco non sia superiore alle 48-72 ore
2. la stima della dose equivalente in tiroide sia compresa tra 20 e 100 mSv in rapporto all’et? del soggetto; la somministrazione del farmaco per questi valori di dose non trova indicazione per soggetti di et? superiore ai 40 anni
3. il dosaggio comunemente utilizzato nell’adulto ? di 130 mg/die; l’utilizzo di KI deve comunque essere ufficialmente indicato dalle autorit? locali e prescritto da uno specialista (mai oggetto di prevenzione spontanea).
L’attuazione delle misure di prevenzione ? necessaria in et? pediatrica. Per le donne in gravidanza ? strettamente sconsigliato recarsi in zone a rischio di contaminazione. Infatti la profilassi con KI crea dei rischi importanti per la funzione tiroidea e deve essere valutato caso per caso.

AME NEWS, Marzo 2011

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