L’albumina nel trattamento dello shock settico

Un gruppo di ricercatori australiani della Northern Clinical School e della Sydney Medical School dell’Universit? di Sydney, per verificare se l’utilizzo di soluzioni contenenti albumina fosse pi? efficace rispetto ad altri regimi di reintegrazione di fluidi nel ridurre la mortalit? nei pazienti con shock settico, ha impostato una revisione sistematica della letteratura che ha interessato 17 studi randomizzati, apparentemente senza evidenza di eterogeneit?, per un totale di 1.977 partecipanti. Otto di questi studi comprendevano solo pazienti con sepsi e nove includevano invece pazienti con sepsi come sottogruppo della popolazione studiata. L’uso di albumina per il trattamento dello shock settico ? risultato associato ad una riduzione della mortalit? con una stima aggregata degli odds ratio di 0.82 (limiti di confidenza al 95% 0.67-1.0, p = 0.047). In questa meta-analisi quindi l’uso di albumina ? risultato essere associato ad una minore mortalit? rispetto agli altri regimi di reintegrazione dei liquidi, tanto che gli autori concludono che “fino a quando i risultati in corso di studi randomizzati controllati non saranno accessibili, i medici dovrebbero considerare l’uso di albumina per il trattamento dello shock settico”.?Si sottolinea tuttavia che tanto l’editoriale di accompagnamento del lavoro quanto alcune considerazioni di noti esponenti dell’ambiente infettivologico pongono molti dubbi su queste conclusioni, basandosi soprattutto sul fatto che la revisione in questione ? “dominata” da un singolo trial che prende in considerazione il trattamento di pazienti con malaria.

Delaney AP, Dan A, McCaffrey J, et al. The role of albumin as a resuscitation fluid for patients with sepsis: a systematic review and meta-analysis. Crit Care Med 2011 Feb; 39(2): 386-91

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I rapporti tra tipo di terapia insulinica e incremento di peso

Nei pazienti con diabete di tipo 2 l’incremento del peso corporeo nel corso del primo anno di terapia insulinica si associa all’intensit? del trattamento; inoltre, l’aumento di peso dipende dal regime insulinico adottato. Queste le conclusioni di una review sistematica e metanalisi condotte da Antonio E. Pontiroli e collaboratori del dipartimento di Medicina, chirurgia e odontoiatria, Universit? degli Studi e Ospedale San Paolo di Milano, su 46 studi randomizzati che riportavano gli effetti del trattamento con insulina e analoghi sulle variazioni di peso corporeo. L’intensit? del trattamento (glicemia a digiuno, dose di insulina, HbA1c finale, variazione di HbA1c e frequenza dell’ipoglicemia) ? risultata associata in modo significativo all’incremento del peso corporeo, con una piccola differenza fra il regime basale rispetto a quello prandiale e un terzo che prevedeva due somministrazioni al giorno. Dalla metanalisi ? emerso che l’aumento di peso era inferiore con il regime basale rispetto agli altri due. Considerando tutti i regimi, poi, l’incremento di peso ? risultato inferiore impiegando la detemir rispetto a Nph mentre non sono state osservate differenze tra glargine e Nph. Solo 2 studi hanno posto direttamente a confronto detemir e glargine ed ? stato registrato un minore incremento di peso con detemir. Tra i regimi con somministrazione due volte al giorno e prandiale il confronto ha riguardato gli analoghi di pi? recente introduzione e i farmaci pi? datati: non ? emersa alcuna significativa differenza in termini di aumento di peso corporeo.

Diabetes Obes Metab, 2011 Jun 3. [Epub ahead of print]

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Mancata diagnosi malformazione del feto

Il fatto
Una donna ha chiesto la condanna del ginecologo che la segu? durante la gravidanza, al risarcimento dei danni subiti a seguito della mancata diagnosi di una grave malformazione del feto. In particolare si imputa al sanitario di non aver diagnosticato l’anencefalia del nascituro, patologia incompatibile con la vita, nonostante la gestante avesse eseguito un regolare esame ecografico nel corso della 19a settimana di amenorrea.

Il diritto
Va affermata la responsabilit? professionale del sanitario il quale, utilizzando la dovuta diligenza, avrebbe dovuto diagnosticare la patologia fetale facilmente riconoscibile durante lo svolgimento dell’esame ecografico. La mancata diagnosi ha impedito alla gestante di conoscere lo stato di salute del nascituro, che la patologia era incompatibile con la vita e di elaborare per tempo il futuro inevitabile lutto. Ci?, inoltre, ha privato la madre della possibilit? di scegliere se portare a termine la gravidanza o interromperla anzitempo.

Esito della lite
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato il ginecologo al risarcimento del danno.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]

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Screening del cancro del testicolo: parere sfavorevole Usa

3 Lug 2011 Oncologia

Esiste una sufficiente certezza che lo screening per il cancro del testicolo non determini benefici. ? la conclusione del documento “Screening for Testicular Cancer – Reaffirmation Recommendation Statement” stilato dall’US Preventive Services Task Force (Uspstf), e che ribadisce un concetto gi? espresso in precedenza, in occasioni di revisioni sistematiche sul tema (nel 2004 e nel 2009). In sintesi, si fa notare che nella maggior parte dei casi questo tipo di tumore ? scoperto incidentalmente dal paziente o dal partner e che non vi sono sufficienti evidenze che uno screening effettuato mediante visita medica o autoesame del paziente, metodiche di cui non sono note la sensibilit?, la specificit? e il valore predittivo positivo in soggetti asintomatici, ?determini una frequenza superiore? o una maggiore accuratezza nel riconoscimento della neoplasia a uno stadio precoce (e quindi pi? curabile). Tenendo poi conto della bassa incidenza del tumore del testicolo e degli outcome favorevoli dei trattamenti (quali orchiectomia, radio/chemioterapia, etc.) con alti tassi di sopravvivenza (circa 90%) anche in caso di malattia avanzata, risulta chiaro che i benefici dello screeening appaiano minimi o nulli. Vi sono anzi potenziali pericoli, determinati dalla comunicazione di risultati falsi positivi, dall’ansia che pu? ingenerarsi nel paziente e da possibili lesioni provocate dai test diagnostici. Quanto riportato dall’Uspstf nel documento si riferisce ai maschi asintomatici sia adulti sia adolescenti.

Ann Intern Med, 2011; 154:483-486

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Tre marcatori per calcolare il rischio da nefropatia cronica

Rispetto all’uso della sola creatinina, un approccio basato su tre biomarker – cio? sull’aggiunta della cistatina C e del rapporto urinario albumina/creatinina (Acr) – migliora l’identificazione del rischio associato alla nefropatia cronica (Ckd) e l’accuratezza predittiva riguardante la mortalit? per tutte le cause e la progressione della malattia renale verso lo stadio terminale. Lo ha verificato un gruppo americano di ricercatori, coordinato da Carmen A. Peralta del Veteran affairs medical center di San Francisco, attraverso uno studio prospettico di coorte che ha coinvolto 26.643 soggetti adulti arruolati nello studio Regard (Reasons for geographic and racial differences in stroke), dei quali 1.940 sono deceduti e 177 hanno sviluppato una malattia renale allo stadio terminale. I partecipanti sono stati suddivisi in otto gruppi, sulla base dei valori di eGfr calcolati mediante misurazione di creatinina, cistatina C e Acr, e seguiti per un follow-up mediano di 4,6 anni. Tra i soggetti con Ckd rilevata dalla creatinina, il 24% non ne era affetto in base all’Acr o alla cistatina C, mentre tra i soggetti senza Ckd in base ai valori di creatinina, il 16% (n=3.863) aveva una malattia renale secondo l’Acr o la cistatina. Inoltre il rischio di malattia incidente renale allo stadio terminale ? apparso superiore nei partecipanti con Ckd riconosciuta da tutti i marker (34,1 per 1.000 anni-persona) rispetto a chi aveva una Ckd definita dalla sola creatinina. ? stato calcolato che, aggiungendo la cistatina C in modelli pienamente aggiustati con creatinina e Acr, i miglioramenti in termini di riclassificazione netta si attestavano su 13,3% per morte e su 6,4% per malattia renale allo stadio terminale.

JAMA, 2011; 305(15):1545-52

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Un motivo in pi? per smettere di fumare: associazione fumo e rischio carcinoma mammario

Idrocarburi policiclici, amine aromatiche e N-nitrosamine possono indurre alterazioni del DNA e mutazioni del gene p-53 del tessuto mammario, costituendo cos? il meccanismo alla base del sospetto di interrelazione tra cancro e fumo. Il tessuto mammario risulterebbe un target per l’effetto carcinogeno del fumo di tabacco.
Sia da bambine che da adulte il rischio di sviluppare tumore al seno sarebbe aumentato non solo nelle fumatrici ma anche nelle donne esposte al fumo passivo. Luo e collaboratori hanno pensato di approfondire questa ipotesi?all’interno dello studio osservazionale, denominato Women’s Health Initiative, che copre gli anni dal 1993 al 1998, valutando 79.990 donne di et? compresa tra 50 e 79 anni afferenti a 40 centri clinici. A tutte le partecipanti era stato chiesto di compilare un questionario in cui si domandava se fossero, o fossero state, delle fumatrici e se fossero state in contatto con il fumo passivo in famiglia o sul lavoro. Nei dieci anni di follow-up i ricercatori hanno individuato 3.250 casi di carcinoma mammario invasivo e le fumatrici avevano il 16% di rischio in pi? di sviluppare il tumore al seno, rischio che, rispetto alle non fumatrici, aumentava esponenzialmente nel caso di donne che avevano fumato per cinquant’anni o pi?. Per le ex fumatrici il rischio scendeva al 9%, ma permaneva anche 20 anni dopo la cessazione del fumo. Inoltre, anche le donne che non fumavano ma che erano state esposte per lungo tempo al fumo passivo avevano un rischio molto alto di sviluppare il cancro al seno: un’esposizione al fumo passivo fin da bambine in casa e poi da adulte in casa e sul lavoro per un totale di 30 o 40 anni aumentava il rischio di ben il 32%. Il fumo ? stato associato ad una maggior incidenza di cancro lobulare rispetto al duttale con recettori ormonali positivi sia per estrogeni che per progesterone. Questi dati, se ve ne fosse bisogno, stimolano ulteriormente l’implementazione di campagne di prevenzione contro i rischi del fumo attivo e passivo.

Luo J et al. BMJ 2011;342:d1016

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Tosse cronica: ? utile un trattamento con PPI?

? diventata prassi comune consigliare un trattamento con PPI nei pazienti che riferiscono di una tosse cronica che non sia chiaramente secondaria a problematiche intrinsecamente respiratorie. Una revisione sistematica della Cochrane ha voluto verificarne l’appropriatezza, tanto nei bambini quanto negli adulti. Per tale motivo sono stati revisionati 19 studi (6 condotti in et? pediatrica, 13 in soggetti adulti) nei quali si ? verificata l’eventuale efficacia di un trattamento della malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE) per la risoluzione della tosse cronica. In questa sede si riferiscono unicamente le conclusioni relative alla popolazione adulta. La revisione, per mancanza di dati inerenti il trattamento con procinetici, fundoplicatio o agenti antagonisti degli H2 recettori si limita ai soli PPI. I dati raccolti in 9 dei 13 studi ammessi alla revisione non hanno rivelato alcun miglioramento generale significativo nei confronti della tosse (OR 0.46; IC 95% 0.19-1.15) ove si eccettui un miglioramento del punteggio del sintomo tosse che al termine dei 2-3 mesi di terapia era stimato come differenza media standardizzata di – 0.41; IC 95% da -0.75 a – 0.07. Negli adulti quindi vi sono prove insufficienti per concludere con certezza che il trattamento con PPI della MRGE sia utile anche per la tosse cronica associata a MRGE. Da considerare inoltre che? quando si utilizza un sintomo – nel caso in questione la tosse – come misura d’esito, bisogna essere consapevoli che il tempo dell’osservazione prolungato pu? comportare una sua naturale risoluzione e che l’effetto placebo pu? sempre essere preminente. Solo adeguati e metodologicamente validati studi in doppio cieco e con oggettivi riscontri laboratoristici e funzionali potranno dirci se il trattamento del reflusso acido sia utile anche per la cura di una tosse cronica.?

Chang AB et al. Gastro-oesophageal reflux treatment for prolonged non-specific cough in children and adults. Cochrane Database Syst Rev 2011 Jan 19;1: CD004823

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Mammografia: un possibile ulteriore utilizzo clinico

La presenza di calcificazioni delle arterie mammarie (BAC) viene giustamente ritenuta un reperto di nessun interesse oncologico e spesso non viene riportata nel referto mammografico. Poich? ? nota la sua associazione con la malattia coronarica (CHD), alcuni ricercatori americani hanno voluto verificare se tale presenza fosse indice sensibile per predire un futuro rischio di CHD. Sono state coinvolte 1.500 donne che sono state sottoposte a mammografia dal 2004 ad Hartford nel Connecticut e che sono state poi seguite per 5 anni con mammografie seriate ma anche con questionari demografici sui fattori di rischio per CHD e ictus (fumo, esercizio fisico, stato menopausale, ipertensione, diabete, colesterolo elevato e storia familiare di malattia coronarica). I questionari compilati sono stati correlati con le mammografie. Questi i risultati
durante i 5 anni di follow-up, la CHD si manifestava nel 20.8% delle donne che avevano BAC rispetto a solo il 5.4% di quelle nelle quali le calcificazioni arteriose non erano presenti?(p < 0.001)
tra le donne che non avevano malattia coronarica al momento basale, quelle positive per la presenza di BAC avevano una maggiore probabilit? di sviluppare una CHD o un ictus rispetto alle donne che ne erano prive (6.3% contro il 2.3%, p = 0.003, e 58.3% rispetto al 13.3%, rispettivamente, P < 0.001)
questi risultati rimanevano significativi anche se aggiustati per l’et?.
La presenza di calcificazioni arteriose mammarie in una mammografia indica un aumento significativo del rischio di sviluppare malattia coronarica o un ictus. Questi risultati suggeriscono quindi che le calcificazioni arteriose mammarie devono essere considerate come un indicatore per lo sviluppo della CHD. Livello di evidenza II. Inoltre, sulla scorta di quanto emerso i radiologi dovrebbero sviluppare un metodo standard per il reporting di BAC nella mammografia e per avvisare i medici circa il rischio di queste pazienti per malattia coronarica e ictus.?

Schnatz PF et al. The association of breast arterial calcification and coronary heart disease. Obstet Gynecol 2011 Feb; 117: 233

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Alte dosi di clopidogrel post-stenting riducono reattivit

28 Giu 2011 Cardiologia

Un’alta dose di mantenimento di clopidogrel aumenta gli effetti antipiastrinici del farmaco nei pazienti con elevata reattivit? residua adenosinfosfato-inducibile e ad alto rischio per eventi avversi dopo angioplastica percutanea e stenting per malattia cardiovascolare. Lo dimostrano i risultati di uno studio condotto da Thomas Gremmel e collaboratori dell’universit? medica di Vienna su 46 pazienti che, dopo essere stati sottoposti ad angioplastica e stenting per malattia cardiovascolare, avevano mostrato in corso di trattamento antiaggregante un’elevata reattivit? piastrinica residua ad almeno uno di tre specifici test (VerifyNow P2Y12, Vasp, e Mea). I soggetti reclutati sono stati suddivisi in modo randomizzato al trattamento con 75 mg o 150 mg di clopidogrel al giorno per 3 mesi dopo l’intervento. I valori di reattivit? piastrinica, che al basale non differivano in modo significativo tra i due gruppi, dopo 3 mesi sono risultati significativamente minori in tutti e tre i test nel gruppo trattato con alta dose di mantenimento rispetto al gruppo con dose standard. Inoltre, una condizione di elevata reattivit? residua adenosinfosfato-inducibile ? apparsa meno frequente nei pazienti assegnati al gruppo trattato con clopidogrel 150 mg/die vs 75 mg/die. In ogni caso, concludono gli autori,

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Assunzione di calcio e rischio fratture: rapporto non lineare

Un graduale aumento dell’apporto di calcio in una popolazione femminile, dai livelli meno elevati a quelli pi? alti, non si associa a un’ulteriore riduzione del rischio fratturativo o di osteoporosi. ? quanto emerge da uno studio longitudinale e prospettico condotto su una coorte di 61.433 donne svedesi seguite per 19 anni da Eva Warensj?, della sezione di Ortopedia dell’universit? di Uppsala, e collaboratori. L’outcome primario era costituito dalla comparsa di fratture incidenti di ogni tipo e di fratture d’anca, quello secondario dalla diagnosi di osteoporosi, ottenuta mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia effettuata in una sottocoorte di 5.022 persone. Il regime alimentare, invece, era valutato mediante ripetuti questionari sulla frequenza di consumo dei cibi. Durante il follow-up, il 24% delle donne (n=14.738) ha subito una prima frattura di ogni tipo e, tra queste, il 6% (n=3.871) una prima frattura d’anca. All’interno della sottocoorte, il 20% delle donne (n=1.012) ha ricevuto diagnosi di osteoporosi. Il pattern di rischio non ? risultato lineare con l’apporto di calcio. Il tasso crudo di prima frattura di ogni tipo ? stato di 17,2/1.000 anni-persona a rischio nel quintile inferiore di assunzione di calcio, e di 14,0/1.000 anni-persona a rischio nel terzo quintile, corrispondente a un hazard ratio (Hr) aggiustato multivariato di 1,18. L’Hr per una prima frattura d’anca ? risultata di 1,29 e l’odds ratio per osteoporosi di 1,47. Con un basso intake di vitamina D il tasso di frattura nel primo quintile di calcio era pi? pronunciato, mentre il quintile pi? elevato di assunzione di calcio non riduceva ulteriormente il rischio di frattura di ogni tipo, o di osteoporosi, ma era associato a un tasso superiore di frattura d’anca (Hr: 1,19).

BMJ, 2011; 342:d1473

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