Diminuiscono le epatiti ma aumentano le steatosi epatiche

I dati dell’Associazione europea per lo studio del fegato
Ben 29 milioni di europei (6%) sono affetti da epatopatie che rappresentano la quinta causa di morte nel mondo e ogni anno il solo carcinoma epatico miete 40.000 vittime . Su questi dati piu’ di 6.000 medici e scienziati provenienti dal tutto il mondo si sono dati appuntamento a Milano per partecipare alle sessioni di apertura della 43o Meeting annuale dell’Associazione Europea per lo Studio del Fegato (EASL) che si protrarra’ fino al 27 aprile.
Molte relazioni sono state dedicate al trend di prevalenza di ognuna delle principali epatopatie; si e’ segnalata la costante riduzione dei casi di epatite B e C, e il fatto che il numero di casi di steatosi epatica dovuta all’abuso di sostanze alcoliche o non associata all’uso di alcol (NAFLD – steatosi epatica non alcolica) si mantiene stabile o in leggero aumento. Tra le epatopatie piu’ diffuse, molte possono insorgere prima in forma acuta e poi diventare croniche; tra queste ci sono l’epatopatia alcolica, l’epatite B, C, e D, la steatosi non alcolica (NAFLD) e la NASH (steatoepatite non alcolica, la stadio piu’ avanzato di NAFLD).
Il passaggio dallo stato acuto a quello cronico si verifica quando il paziente non guarisce e l’infezione, o la patologia acuta, continua nel tempo a danneggiare il fegato.
La cirrosi, patologia nella quale si assiste alla morte delle cellule epatiche, all’alterazione della rigenerazione cellulare, alla formazione di tessuto fibroso cicatriziale e, infine, all’alterazione della funzione epatica, rappresenta lo stadio finale di numerose epatopatie croniche. Inoltre, la cirrosi e’ una patologia solo parzialmente reversibile, sebbene i trattamenti oggi disponibili possano rallentare o arrestare il suo decorso.
Quando la cirrosi provoca complicanze che non possono essere trattate in altro modo, o quando danneggia il fegato a tal punto da comprometterne la corretta funzionalita’, diventa indispensabile procedere a un trapianto di fegato.
La cirrosi, inoltre, e’ il principale fattore di rischio per lo sviluppo del carcinoma epatocellulare (HCC), una forma di cancro che colpisce le cellule epatiche e puo’ anch’essa determinare la necessita’ di un trapianto. Si stima che in tutta Europa vi siano 10 milioni di portatori di epatite virale, di cui oltre 8 milioni hanno contratto l’infezione da virus dell’epatite C (HCV). Sebbene le statistiche presentino scenari diversi da paese a paese, l’HCV e’ responsabile di molti (o della stragrande maggioranza in alcuni Paesi) dei casi di cirrosi e di HCC.

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Dieta, cirrosi e tumori epatici

La composizione della dieta pu? influenzare la progressione di cirrosi e tumori epatici. I fattori dietetici sono importanti elementi di rischio, e probabilmente anche causali, per obesit?, insulinoresistenza e diabete, che a loro volta sono i pi? importanti fattori di rischio noti di steatosi epatica; ? possibile inoltre che la quantit? e la composizione dei lipidi nella dieta possano tanto promuovere quanto prevenire lo sviluppo o la progressione della steatosi epatica.

E’ probabile peraltro che se una certa composizione della dieta influenza questi elementi, essa svolga anche un ruolo nella storia naturale delle tre pi? importanti malattie epatiche, ossia la steatosi epatica non alcolica, l’infezione da Hcv e l’epatopatia alcolica. Precedenti ricerche avevano dimostrato che una dieta ad elevato contenuto di colesterolo ? ingrado di produrre steatosi profonda, infiammazione e fibrosi centrolobulare nell’animale, mentre nello stesso contesto una dieta a basso contenuto di proteine animali ? associata ad una diminuzione del danno epatico e dell’incidenza del carcinoma epatocellulare in presenza di epatite B.
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Mentre il consumo di colesterolo ? stato associato per la prima volta ad un aumento del rischio di cirrosi o tumore epatico, non sono state riscontrate correlazioni fra elementi dietetici ed infezione da Hcv, il che suggerisce che la presenza di malattie epatiche di base non causa alcuna variazione nella dieta, ma anzi rende pi? plausibile che differenze nell’apporto di proteine, carboidrati, colesterolo ed altri componenti lipidici contribuiscano allo sviluppo di cirrosi o tumori epatici.

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(Hepatology. 2009; 50: 175-84)

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Utile lo shunt epatico in corso d’ascite

Rispetto alla paracentesi, l’impiego di uno shunt portosistemico intraepatico transgiugulare (TIPS) pu? migliorare il tasso di sopravvivenza in alcuni pazienti con cirrosi epatica che presentano un’ascite difficile da trattare. Il TIPS ? infatti un trattamento per l’ascite refrattaria nei pazienti cirrotici che pu? migliorare sia la sopravvivenza che la qualit? della vita.
Tale tecnica tuttavia non ? applicabile a tutti i pazienti: et?, livelli di bilirubina, sodio plasmatico ed allocazione del trattamento risultano indipendentemente associati alla sopravvivenza libera da trapianto. Il successo dell’applicazione di un TIPS, inoltre, ? correlato all’esperienza del radiologo. (Gastroenterology 2007; 133: 825-34)

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Pi? indice di massa corporea pi? cirrosi

Si chiama Million women study ed ? un studio prospettico di corte svolto dall’Unit? di epidemiologia del cancro dell’Universit? di Oxford, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su Bmj.
Scopo del trial: stabilire la relazione tra indice di massa corporea (Bmi) e cirrosi epatica e capire il contributo che il Bmi e il consumo di alcol determinano sulla cirrosi epatica nelle donne di mezza et? nel Regno Unito. Le partecipanti sono state coinvolte dal 1996 al 2001 nei centri per lo screening del cancro mammario del servizio sanitario nazionale inglese. In tutto, 1.230.662 donne (con et? media di 56 anni all’arruolamento) sono state seguite per una media di 6,2 anni. 1.811 donne hanno avuto una prima ammissione ospedaliera con cirrosi epatica o ne morirono durante il follow-up. Tra i soggetti con un Bmi di 22,5 o superiore, valori crescenti di Bmi erano associati a un’incidenza crescente di cirrosi epatica; il rischio relativo aggiustato di cirrosi era aumentato del 28% (rischio relativo 1,28, 95% intervallo di confidenza da 1,19 a 1,38, P<0,001) per ogni 5 unit? di aumento del Bmi.
Nonostante l’aumento relativo del rischio di cirrosi epatica per un aumento di 5 unit? del Bmi non differisse in modo significativo all’ammontare dell’alcol consumato, tale differenza era evidente nel rischio assoluto. Tra le donne che asserivano di bere meno di 70 g di alcol a settimana, il rischio assoluto di cirrosi epatica per 1.000 donne in oltre 5 anni era 0,8 per quelle con un Bmi tra 22,5 e 25 e 1,0 per quelle con Bmi di 30 o pi?. Tra le donne che sostenevano di bere 150 g di alcol o pi? per settimana, i valori corrispondenti erano 2,7 e 5,0. L’eccesso di peso corporeo aumenta dunque l’incidenza di cirrosi epatica. In particolare, tra le donne di mezza et? in Regno Unito, si stima che un 17% di cirrosi fatali sia attribuibile all’eccesso di peso e che ci? sia attribuibile nel 42% dei casi all’alcol.

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I dolcificanti delle bibite hanno effetti dannosi sul fegato

Lo sciroppo di fruttosio ottenuto dal mais (HFCS,High Fructose Corn Syrup), il dolcificante utilizzato nella maggior parte delle bevande e dei succhi di frutta zuccherati, ha effetti molto dannosi sul fegato, soprattutto se si ? gi? affetti da steatosi epatica non alcolica.

Lo rivela uno studio pubblicato dalla rivista specializzata Hepatology. I ricercatori del Duke University Medical Center coordinati da Manal Abdelmalek hanno preso in esame 427 pazienti con steatosi epatica non alcolica, e scoperto che solo il 19% di loro non consuma bevande zuccherate. Incrociando i dati sulle abitudini dietetiche di questi pazienti e i referti delle biopsie epatiche alle quali sono stati sottoposti, ? emerso che il consumo di sciroppo di fruttosio ? associato allo sviluppo di fibrosi epatica.

Spiega Fabio Marra del Dipartimento di Medicina Interna dell’Universit? di Firenze: “Con il termine di fibrosi epatica si intende l’accumulo di tessuto di tipo “cicatriziale” nell’ambito del fegato. Con il progredire della fibrosi la matrice si accumula tra i vasi capillari e le cellule epatiche, impedendo i processi di scambio. Inoltre nuovi vasi si formano nell’ambito del tessuto cicatriziale, ed sangue non fluisce pi? come in precedenza, prendendo contatto con le cellule nobili, ma “sfugge” dal contatto con le cellule, determinando quindi una mancata detossificazione da parte del fegato.

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Bioingegneria: creato in laboratorio il primo fegato umano

02/11/2010
L’Istituto di medicina rigenerativa del Wake Forest University Baptist Medical Center di Winston-Salem, nel North Carolina, ha creato nei suoi laboratori un fegato in miniatura con tutte le funzionalit? del fegato umano. I ricercatori, che hanno presentato la ricerca al congresso annuale dell’Associazione americana per lo studio delle Malattie del Fegato a Boston, anticipano che i prossimi passi saranno quelli di verificare come funzionera’ l’organo trapiantato in un modello animale e se i ‘microfegati’
creati in laboratorio potranno essere usati per testare la sicurezza di nuovi farmaci.

“Siamo entusiasti delle possibilita’ che questa ricerca rappresenta, ma sottolineo che siamo in una fase iniziale e ci sono molti ostacoli tecnici da superare prima di poter beneficiare i pazienti”, ha precisato Shay Soker, professore di medicina rigenerativa e direttore del progetto. “Non dobbiamo solo imparare come far crescere miliardi di cellule epatiche in una sola volta, al fine di creare fegati abbastanza grandi per i pazienti, ma dobbiamo valutare se questi organi sono sicuri per i pazienti stessi”.

In ogni caso, ha spiegato l’autore principale dello studio, Pedro Baptista, e’ la prima volta che cellule epatiche umane vengono utilizzate per creare in laboratorio, tramite bioingegneria, un fegato completo. “La nostra speranza e’ che una volta che questi organi verranno trapiantati, conservino le loro funzioni e continuino a svilupparsi”.

Per creare il fegato umano, gli scienziati sono partiti da fegati animali, trattati con un delicato detergente per rimuovere tutte le cellule, secondo un processo chiamato decellularizzazione, lasciando solo il collagene, una sorta di “scheletro” del fegato originario. Hanno poi sostituito le cellule originali con due tipi di cellule umane: le cellule del fegato immaturo, note come progenitrici, e le cellule endoteliali che allineano i vasi sanguigni. Le cellule sono state introdotte nello ‘scheletro’ del fegato animale attraverso un vaso sanguigno di grandi dimensioni che alimenta un sistema di piccoli vasi nel fegato. Questa rete di vasi rimane intatta dopo il processo di decellularizzazione e gli scienziati la hanno utilizzata come una sorta di vuota autostrada su cui far passare i ‘Tir’ carichi di cellule umane destinate a rimpiazzare quelle animali. Il fegato e’ stato successivamente posto in un bioreattore, un dispositivo speciale che fornisce un flusso costante di sostanze nutritive e ossigeno in tutto l’organo. Dopo una settimana nel bioreattore, gli scienziati hanno documentato la progressiva formazione di tessuto di fegato umano, cosi’ come le funzioni associate. E’ stata osservata anche una crescita diffusa di cellule all’interno dell’organo ‘biotech’.

I ricercatori hanno detto che lo studio suggerisce un nuovo approccio alla bioingegneria di organi interi che potrebbe rivelarsi fondamentale non solo per il trattamento di malattie del fegato, ma anche per rene e pancreas.

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L’effetto protettivo dell’olio d’oliva sul fegato

Un gruppo di ricercatori dell’University of Monastir (Tunisia) e della King Saud University di Riyadh (Arabia Saudita) guidati Mohamed Hammami ha scoperto che l’olio d’oliva, oltre ad esercitare un effetto protettivo contro lo stress ossidativo, pu? giocare un ruolo anche nella attenuazione dei danni epatici. Lo studio e’ stato pubblicato su Nutrition and Metabolism.

I ricercatori hanno diviso i topolini in 8 gruppi e li hanno esposti a un erbicida tossico, provocando danni epatici significativi in tutti gli esemplari. Gli studiosi hanno poi somministrato agli animaletti diversi estratti dell’olio d’oliva, gruppo per gruppo: e’ emerso che in tutti i gruppi si registravano segni di miglioramento nella salute del fegato, ma che in particolare l’estratto idrofilo dell’olio si e’ dimostrata la sostanza piu’ in grado di attivare gli enzimi antiossidanti e di diminuire i marker del danno epatico.

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La somministrazione di PPI nel primo trimestre di gravidanza ? sicura

Finanziato dal Consiglio danese della ricerca medica e dalla Fondazione Lundbeck ? stato condotto uno studio di coorte che, utilizzando i dati derivanti dal Medical Birth Register, dal Prescription Drug Register, dal National Patient Register e dal Central Person Register Statistics Danesi, ha valutato l’associazione tra esposizione ai PPI durante la gravidanza ed il rischio di difetti maggiori alla nascita in tutti i bambini nati vivi in Danimarca tra gennaio 1996 e settembre 2008. L’analisi ha preso in considerazione l’utilizzo dei PPI da 4 settimane prima del concepimento fino a 12 settimane di gestazione. I risultati sono stati i seguenti
valutando entrambi i periodi presi in considerazione, difetti maggiori nei neonati sono stati riscontrati nel 3,4% delle 5.082 donne che erano state esposte a PPI rispetto al 2,6% delle 21.811 madri che non avevano assunto il farmaco (OR aggiustato per prevalenza = 1,23, 95% CI 1,05-1,44).
Suddividendo invece i due periodi
per quanto riguarda il primo trimestre di gravidanza
sono stati riscontrati 118 difetti maggiori alla nascita tra i 3.651 neonati esposti al PPI (3,2%), con un OR aggiustato per prevalenza di 1,10 (IC 95% 0,91-1,34)
anche in una analisi secondaria di esposizione individuale a PPI durante questo periodo di gravidanza il rischio di difetti alla nascita non appariva significativamente aumentato
per quanto riguarda invece l’esposizione nelle 4 settimane prima del concepimento
i rilievi statistici propendono per un significativo aumento del rischio di avere figli con difetti maggiori alla nascita (OR aggiustato per prevalenza = 1,39; 95% CI 1,10-1,76).
Le conclusioni degli autori sono quindi state le seguenti: in questa coorte di grandi dimensioni, l’esposizione ai PPI durante il primo trimestre di gravidanza non ? stata associata ad un aumento significativo del rischio di difetti maggiori del neonato alla nascita. Per quanto riguarda invece il rilievo statistico positivo di associazione fra esposizione a PPI nelle 4 settimane antecedenti il concepimento e difetti nel neonato, questo viene ritenuto dagli autori un dato casuale, visto che l’emivita dei PPI ? di 1-2 ore il che rende improbabile un “effetto trascinamento” della esposizione farmacologica preconcezionale.

Pasternak B, Hviid A. Use of Proton-Pump Inhibitors in Early Pregnancy and the Risk of Birth Defects. N Engl J Med 2010; 363: 2114-2123

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Clortalidone e tiazidici non sono la stessa cosa

Siamo abituati a considerare il clortalidone (C) del tutto simile, se non uguale, ai diuretici tiazidici mentre, a parte il fatto che la sua struttura chimica ? ben diversa, ? possibile che differisca da questi ultimi non tanto per gli effetti sulla pressione, che sono simili, ma sull’outcome cardiovascolare. Lo studio ALLHAT (in cui come diuretico ? stato usato il clortalidone) e lo studio ACCOMPLISH (in cui come diuretico ? stata usata l’idroclorotiazide) sono pervenuti a risultati molto differenti proprio sull’outcome cardiovascolare. Entrambi i diuretici hanno gli stessi effetti sul co-trasporto sodio cloro del tubulo distale, ma differiscono tra di loro nella capacit? di inibire l’anidrasi carbonica. E ci? potrebbe fare la differenza.
A questo proposito Woodman e coll. hanno pubblicato un lavoro sperimentale “in vitro” in cui hanno dimostrato che il C riduce l’aggregazione piastrinica indotta dall’epinefrina e aumenta l’angiogenesi molto di pi? della benzoflumetiazide (B), un diuretico tiazidico molto usato nel Regno Unito. Il C ha indotto marcati cambiamenti delle trascrizioni geniche per due proteine che mediano la permeabilit? vascolare e l’angiogenesi, il fattore C di crescita endoteliale e il transforming growth factor beta3, mentre la B ha mostrato effetti molto minori sull’espressione del fattore C di crescita endoteliale; entrambi riducono la permeabilit? vascolare all’albumina, ma solo il C aumenta l’angiogenesi. Bisogna sottolineare che l’effetto ? stato ottenuto in cellule incubate, e non pu? essere ascritto alle variazioni della pressione. Quindi, se ? vero che i due tipi di diuretici possono ridurre la pressione in modo simile, i loro effetti pleiotropici sulle piastrine e sulla parete vascolare variano considerevolmente, e questa potrebbe essere la ragione dei loro differenti effetti sugli outcomes cardiovascolari.?

Woodman R et al. Hypertension; 2010; 56; 463-470

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Ivabradina, frequenza cardiaca e scompenso: lo studio SHIFT

Nei pazienti con coronaropatia e disfunzione del ventricolo sinistro una frequenza di 70 battiti al minuto o superiore ? associata ad un rischio di morte cardiovascolare aumentato del 34% e ad un rischio di ricovero in ospedale per scompenso aumentato del 53% rispetto ad un paziente con frequenza cardiaca inferiore ai 70 battiti al minuto. Tuttavia, anche con i beta-bloccanti, che pure rappresentano i farmaci di prima scelta, spesso la frequenza rimane elevata.
L’ivabradina, inibitore specifico del nodo seno-atriale che agisce sui canali If, al contrario dei beta-bloccanti, non modifica la contrattilit? miocardica e la conduzione intracardiaca, anche in pazienti con funzione ventricolare compromessa. Lo studio SHIFT ? uno studio clinico randomizzato, condotto in doppio cieco, che aveva lo scopo di valutare gli effetti dell’ivabradina in aggiunta al trattamento evidence-based per quanto concerne gli outcomes cardiovascolari, i sintomi e la qualit? di vita in pazienti con scompenso cardiaco cronico e disfunzione sistolica. Sono stati studiati 6.558 pazienti, di cui 3.241 randomizzati al trattamento con ivabradina e 3.264 trattati con placebo. Il follow-up mediano ? stato di 22,9 mesi. I risultati dello studio indicano come l’utilizzo della ivabradina diminuisca in modo significativo i rischi connessi allo scompenso cardiaco quando viene associata al trattamento standard, sia per l’endpoint primario che per la frequenza dei ricoveri. L’effetto favorevole sugli eventi cardiaci si ? manifestato entro tre mesi dall’inizio del trattamento e si ? mantenuto nel corso di tutto lo studio. Una ulteriore analisi condotta all’interno dello SHIFT, pubblicata sullo stesso numero di Lancet, mostra come la riduzione della frequenza cardiaca diminuisca il rischio in modo direttamente proporzionale all’entit? di tale riduzione. I pazienti con frequenza inferiore ai 60 battiti al minuto dopo 28 giorni hanno avuto minori eventi di endpoint composito primario rispetto ai pazienti con frequenze pi? elevate. I principali limiti dello studio sono i seguenti
i risultati si applicano a pazienti in ritmo sinusale selezionati sulla base di una frequenza cardiaca di base superiore o uguale a 70 battiti al minuto
sono stati esclusi i pazienti con fibrillazione atriale o flutter
la percentuale di pazienti anziani era bassa.
Non ? pertanto possibile generalizzare l’effetto dell’ivabradina sulla popolazione complessiva dei pazienti con scompenso cardiaco. Inoltre i risultati sono stati ottenuti con l’associazione di ivabradina + beta-bloccanti, e pertanto non ? possibile trarre conclusioni circa gli effetti dell’ivabradina da sola.?

Swedberg K et al. Lancet 2010; 376: 875-85
B?hm M et al. Lancet 2010; 376: 886-94

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