L’uso delle statine contro il colesterolo si associa a un lieve aumento di disturbi muscolo-scheletrici come lesioni e artropatie, secondo un articolo pubblicato online su Jama Internal Medicine. «I farmaci ipolipemizzanti come le statine sono comunemente usati per il trattamento dell’ipercolesterolemia» Dice Ishak Mansi, ricercatore del North Texas Veterans Administration Health Care System di Dallas, Texas e coautore dello studio, sottolineando che tra gli effetti collaterali più comuni vi è la miopatia. «La miopatia da statine consiste in uno spettro di disturbi che vanno da una mialgia lieve alla rabdomiolisi addirittura fatale» riprende il ricercatore, puntualizzando che il meccanismo alla base dei disturbi muscolari non è noto. Un’ipotesi è che l’alterazione della sintesi di colesterolo porti a modifiche nelle membrane dei miociti, alterandone il comportamento biochimico. Un altro meccanismo potrebbe essere l’alterazione nella sintesi dei composti della via del colesterolo, in particolare un deficit di coenzima Q10, che determina alterazioni enzimatiche mitocondriali. Infine, in causa potrebbe esserci la deplezione degli isoprenoidi, lipidi prodotti della via dell’idrossi-metil-glutaril coenzima A reduttasi che prevengono l’apoptosi delle fibre muscolari. E per verificare la frequenza e il tipo di disturbi muscoloscheletrici associati alle statine Mansi e colleghi hanno utilizzato in modo retrospettivo i dati relativi all’anno fiscale 2005 del sistema di assistenza sanitaria dedicato ai veterani di guerra, dividendo i partecipanti selezionati in due gruppi: gli utilizzatori di statine per almeno 90 giorni e i non consumatori. Un totale di 46.249 soggetti ha soddisfatto i criteri di studio, e tra questi 6.967 che assumevano statine sono stati accoppiati ad altrettanti soggetti che non ne facevano uso, osservando una frequenza di disturbi assai elevata in entrambi i gruppi, con un mopdesto incremento tra i soggetti in terapia: «Disturbi muscolo-scheletrici, artropatie, lesioni e dolore muscolare sono più comuni tra gli utilizzatori di statine rispetto ai coetanei non consumatori. Il nostro approccio esplora la gamma completa di eventi avversi muscoloscheletrici da statine, ma ulteriori studi sono necessari in questo senso, specie nei soggetti fisicamente attivi» conclude Mansi.
Buona alimentazione può voler dire anche risparmio in tempi di crisi. Per questo i dietisti dell’Andid in occasione del 25° Congresso Nazionale propongono dieci semplici regole per un alimentazione sana e sostenibile sia per il pianeta che per il portafoglio.
16 MAG – Risparmio vuol dire saper scegliere con attenzione e competenza: la strategia vincente è giocare su frequenza di consumo e varietà, privilegiando i cibi salutari e limitando quelli superflui dal punto di vista nutrizionale, senza che peraltro questo significhi rinunce e sacrificio. E così in occasione del 25° Congresso Nazionale i dietisti Andid hanno presentato un nuovo decalogo ad hoc per i tempi di crisi.
“Una buona alimentazione – spiega la presidente Giovanna Cecchetto – si basa sulla preferenza di consumo di prodotti di origine vegetale (frutta, verdura, cereali e legumi) , sull’alternanza settimanale di prodotti di origine animale, utilizzando anche fonti di ottimo valore nutritivo e di costo limitato (latticini, formaggi, uova) e sulla scelta di acqua di rubinetto come fonte principale per l’idratazione. Inoltre la lotta allo spreco ottenuta attraverso la pianificazione del menù settimanale e della spesa, si traduce in ulteriore risparmio per la famiglia, consentendo saltuariamente la possibilità di concedersi qualche “sfizio” senza pericolose ricadute né sulla salute né sul portafoglio”.
Il decalogo:
-Consuma con regolarità almeno 3 pasti al giorno, cominciando dalla prima colazione.
-A tavola dai la preferenza ai prodotti di origine vegetale (frutta e verdura di stagione,legumi e cereali), possibilmente prodotti localmente (a filiera corta). Le verdure possono essere utilizzate anche per realizzare gustosi primi e secondi piatti. Ricorda: 5 porzioni al giorno tra frutta e verdura
-Ad ogni pasto principale inserisci almeno una porzione di cereali e derivati (pane, pasta, riso,mais, patate), privilegiando prodotti integrali e a ridotto contenuto in grassi; non dimenticare mai di aggiungere un piatto “generoso” di verdura cotta o cruda.
-Non eccedere nel consumo di prodotti di origine animale quali carne, salumi e insaccati, latticini e formaggi: durante la settimana, a pranzo e a cena, alterna la varietà privilegiando la carne bianca, inserisci il pesce (ottimo quello azzurro!) 1-2 volte a settimana, le uova 1-2 volte a settimana e limita i formaggi a 2-3 volte a settimana.
-I legumi secchi o freschi (ceci, fagioli, lenticchie, fave, piselli) – alimenti che appartengono da sempre alla tradizione gastronomica italiana – possono dar vita, combinati con i cereali, a saporiti ed invitanti piatti unici: introducili nella tua alimentazione almeno due volte a settimana
-Preferisci l’olio extravergine d’oliva sia per la cottura che come condimento a crudo; usa strumenti di cottura che permettono di limitarne la quantità.
-Pianifica, per quanto possibile, il menù settimanale e fai la spesa seguendo una lista degli acquisti preparata a casa. Non lasciarti suggestionare dalle campagne di marketing che invitano ad acquistare sottocosto prodotti alimentari non realmente necessari.
-Riduci, riusa, ricicla: così non sprecherai, potrai risparmiare e… guadagnare salute
-Ricordati di bere spesso: l’acqua di rubinetto va benissimo ma anche infusi o tisane non zuccherate.
-Vivi una vita attiva: utilizza ogni occasione della tua giornata per muoverti di più.
16 MAG – Canakinumab, farmaco per il trattamento dell’artrite idiopatica giovanile sistemica in forma attiva (SJIA) nei pazienti dai 2 anni di età, è stato approvato in questi giorni dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense. A darne annuncio è Novartis, casa farmaceutica che produce il farmaco, primo inibitore dell’interleuchina-1 beta approvato specificamente per la SJIA a richiedere una sola iniezione sottocutanea al mese.
La SJIA è il sottotipo più grave di artrite idiopatica giovanile e può colpire i bambini già da due anni di età e perdurare in età adulta. Sebbene la patologia possa avere conseguenze letali, le opzioni terapeutiche disponibili sono limitate. I corticosteroidi vengono spesso utilizzati per trattare i sintomi e il dolore, nonostante il loro utilizzo prolungato possa essere associato a eventi avversi potenzialmente gravi, come sindrome di Cushing, arresto della crescita e osteoporosi. L’approvazione si è basata sui risultati di due studi di fase III, condotti su pazienti con SJIA – rara e invalidante forma di artrite infantile, caratterizzata da febbre intermittente, rash e artrite – di età compresa tra i 2 e i 19 anni, che hanno evidenziato significativi miglioramenti nella maggior parte dei pazienti trattati con Canakinumab. Lo studio 1 ha mostrato come, al giorno 15, l’84% dei pazienti trattati con una dose sottocutanea del farmaco avesse raggiunto l’endpoint primario della risposta pediatrica ACR30 (American College of Rheumatology 30), mentre tra i pazienti che hanno ricevuto il placebo la percentuale è stata del 10%. Nella parte open-label dello studio 2, 92 dei 128 pazienti hanno tentato di ridurre il dosaggio di corticosteroidi. Tra questi 92, il 62% è riuscito a ridurne drasticamente l’utilizzo e il 46% ne ha sospeso completamente l’assunzione. Nella parte di controllo dello studio 2, i pazienti del gruppo trattato con il farmaco hanno registrato, nel raffronto con il gruppo che ha ricevuto il placebo, una riduzione relativa del 64% nel rischio di ricorrenza (rapporto di rischio: 0,36; 95% CI: da 0,17 a 0,75).
Canakinumab è stato oggetto di ricerche in numerose condizioni autoinfiammatorie rare, come la sindrome periodica associata al recettore del fattore di necrosi tumorale (TRAPS), la febbre mediterranea familiare resistente alla colchicina (FMF) e la sindrome da iper-Ig (HIDS). Allo stato attuale, il farmaco è considerato un agente investigazionale per queste condizioni. Come tale, il ruolo che il farmaco potrebbe svolgere nel trattamento di queste condizioni e i potenziali benefici legati al suo utilizzo sono ancora oggetto di valutazioni. “Questa approvazione segna, negli USA, la seconda indicazione di Canakinumab per i pazienti affetti da condizioni autoinfiammatorie rare,” ha sottolineato Timothy Wright, Global Head of Development di Novartis Farma. “Siamo impegnati nel valutare l’utilizzo del medicinale in altre patologie infiammatorie mediate dall’interleuchina-1 beta, tra cui numerose malattie rare per le quali attualmente non esistono
16 MAG – La distrofia muscolare dei cingoli è un gruppo eterogeneo di malattie caratterizzate da debolezza muscolare, che interessa in particolare i muscoli del cingolo pelvico e del cingolo scapolare, per il quale non esiste una terapia risolutiva e che spesso risulta difficile da diagnosticare. Quest’ultimo problema potrebbe essere stato risolto in una delle manifestazioni della classe di patologie, quella di tipo 1F, da una ricerca italiana dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli: alla base di questa rara forma ci sarebbe un difetto genetico in un gene localizzato sul cromosoma 7, quello di una proteina chiamata Transportina 3.
Il risultato, pubblicato in uno studio suPLoS One, è stato ottenuto tramite l’analisi del patrimonio genetico di 64 individui di una famiglia italo-spagnola affetti da una forma di distrofia dei cingoli dalle basi genetiche ancora sconosciute. “Come suggerisce anche il nome, questa malattia porta a una progressiva debolezza dei muscoli dei cingoli pelvico e scapolare, compromettendo così la capacità di sollevare pesi e camminare”, ha commentato Vincenzo Nigro, a capo del team che ha effettuato lo studio. I pazienti con questa mutazione presentano, oltre ai segni tipici della distrofia dei cingoli, debolezza facciale, disfagia, disartria, atrofia e contrattura dei muscoli delle mani. “Riconoscerla e diagnosticarla correttamente, però, non è facile – ha aggiunto Nigro – perché è molto eterogenea sia nella sua manifestazione clinica, età di insorgenza e gravità variano molto da un paziente all’altro, sia dal punto di vista genetico. Ancora oggi, nel 40 per cento dei casi non è possibile identificare lo specifico gene alterato nel paziente: questo non è velleitario, perché una precisa diagnosi molecolare innanzitutto conferma il tipo di patologia, poi dà informazioni su come evolverà nel tempo e permette di effettuare la consulenza genetica agli altri componenti della famiglia”.
L’analisi genetica è stata possibile grazie alle apparecchiature all’avanguardia disponibili presso l’Istituto Telethon di Napoli, quelle per il cosiddetto “next-generation sequencing”. “Grazie a questi approcci di straordinaria potenza oggi possiamo analizzare grandi quantitativi di Dna in tempi relativamente rapidi”, ha continuato il ricercatore. “Basti pensare che lo storico Progetto genoma umano ha richiesto ben 10 anni e 3 miliardi di dollari per arrivare al sequenziamento del patrimonio genetico dell’uomo. Oggi con i nostri macchinari possiamo analizzare in soli dieci giorni la parte codificante del genoma di 48 individui contemporaneamente, per un costo dei reagenti che non supera i 38 mila euro. In pratica, il Dna viene spezzettato, selezionato, sequenziato e poi “ricomposto” al computer per determinare la completa sequenza di lettere”. Questo lavoro di analisi è molto delicato e richiede alte competenze di bioinformatica per leggere i dati e trarne delle conclusioni corrette: al Tigem di Napoli ci sono ricercatori specializzati proprio in questo, come Margherita Mutarelli, tra gli autori dello studio. “Il risultato di questo lavoro è importante innanzitutto per le famiglie, cui possiamo finalmente fornire una diagnosi molecolare corretta, ma anche per la ricerca: quello messo in luce è un meccanismo patologico del tutto nuovo, che potrebbe spiegare anche altre malattie simili che colpiscono i muscoli”, ha poi concluso Nigro. “Il nostro lavoro, grazie anche al supporto di Telethon, continuerà quindi lungo due binari: da un lato chiarire il ruolo della proteina che abbiamo identificato come responsabile della forma 1F di distrofia dei cingoli, dall’altra utilizzare questa stessa tecnologia per andare alla ricerca dei geni responsabili delle forme ancora “orfane” di questa malattia. Ricordiamoci infatti che anche tra le malattie rare ce ne sono alcune più trascurate di altre, per le quali cioè non manca soltanto una cura efficace, ma anche una conoscenza minima di base”.
L’84% dei pazienti trattati con una dose sottocutanea del farmaco ha raggiunto la risposta pediatrica ACR30 (American College of Rheumatology 30), mentre tra i pazienti che hanno ricevuto il placebo la percentuale è stata solo del 10%. Canakinumab ha anche dimostrato di essere efficace per ridurre l’uso di corticosteroidi.
29 MAG – L’Italia è protagonista nella lotta al tumore della pelle. Sarà presto disponibile anche nel nostro Paese una nuova arma terapeutica contro la forma avanzata di melanoma: vemurafenib, la prima terapia personalizzata, è prodotta in Italia – nello stabilimento Roche di Segrate (Milano) – per tutto il mondo. Il melanoma metastatico colpisce ogni anno 1.800 italiani e si calcola faccia più di 4 vittime ogni 24 ore solo nel nostro Paese (circa 1.600 in un anno). La nuova terapia made-in-Italy è in grado di agire in modo specifico sulla mutazione del gene BRAF e di inibire la proteina mutata, che è stata individuata come responsabile della proliferazione cellulare nel 50% dei casi di melanoma metastatico. Si tratta di una nuova speranza per i pazienti italiani: vemurafenib ha infatti dimostrato di raddoppiare il tempo di sopravvivenza in un tumore in cui la media è inferiore a un anno (circa 6-9 mesi).
Intanto, i risultati dell’indagine “Gli italiani, l’ossessione abbronzatura e il melanoma”2 – divulgati in occasione dell’imminente arrivo in Italia di vemurafenib e dell’Euromelanoma Day 2013, che si celebra lunedì in tutta Europa – mettono in evidenza il “Paradosso da Sole Selvaggio”. Più di 1 italiano su 3 si spaventa quando si accorge di un nuovo neo, ma quest’estate non rinuncerà ad esporsi al sole in maniera intermittente e intensiva, dedicando all’abbronzatura la classica settimana annuale di vacanza. Non solo: 3 connazionali su 4 sottovalutano la pericolosità delle lampade abbronzanti, paragonate dagli esperti al fumo di sigarette per il tumore al polmone. Si tratta di abitudini scorrette, che rischiano di fare il gioco del nemico numero uno della pelle: il melanoma, che ogni anno colpisce quasi 200 mila persone in tutto il mondo e più di 7 mila italiani, con un incremento dell’incidenza del 30% negli ultimi 10 anni.
Il difetto si troverebbe in un gene di una proteina chiamata Transportina 3, localizzato sul cromosoma 7. Grazie alla scoperta sarà possibile fornire una diagnosi molecolare corretta, ma la tecnologia con cui è stato scovato potrebbe essere usata per andare alla ricerca dei geni responsabili di altre forme patologiche.
L’incidenza delle neoplasie alla prostata è aumentata del 53% in dieci anni. Al testicolo cresce del 6% l’anno. E 8 italiani su 10 tra gli over 60 soffre di patologie urologiche. A lanciare l’allarme l’Associazione Urologi Italiani in occasione del 20° Congresso nazionale a Montecatini Terme.
29 MAG – L’80% degli italiani con oltre 60 anni soffre di una patologia urologica. Non solo tumore della prostata, la neoplasia maschile più diffusa per la quale si registra un boom di incidenza del 53% negli ultimi dieci anni, ma anche incontinenza urinaria, neoplasia del rene, disfunzione erettile. Patologie che colpiscono sempre di più anche i giovani, se consideriamo che il tumore del testicolo ha fatto registrare un aumento del 45% negli ultimi 30 anni tra i ragazzi tra i 16 e i 24 anni. Ma i disturbi vengono troppo spesso sottovalutati.
È l’allarme lanciato dagli specialisti dell’Auro (Associazione Urologi Italiani), riuniti da oggi a Montecatini Terme in occasione del 20° Congresso Nazionale, per fare il punto sulle nuove terapie ed i progressi scientifici in questo campo. “Gli uomini italiani sono poco attenti alla loro salute – sottolinea Paolo Puppo, Responsabile dell’Urologia Oncologica Istituto Humanitas di Castellanza –, soprattutto quando il problema ha a che fare con la sfera sessuale. Un atteggiamento ben lontano da quello delle loro compagne: in caso di disturbi sessuali una donna impiega 2 settimane a chiedere una consulenza, un uomo ci mette 2 anni. E così il 70% degli over 50 non ha mai fatto l’esame del Psa, test principale per la diagnosi precoce del cancro alla prostata”.
Una neoplasia sempre più diffusa, come dimostrano le ultime statistiche. “Si tratta del tumore più frequente nell’uomo – dichiara Puppo –. La sua incidenza, infatti, raggiunge la soglia del 12% e sorpassa quella del polmone, ferma al 10%. Il tumore della prostata è raro negli individui con meno di 40 anni e aumenta progressivamente con l’età. È stato calcolato, quindi, che un uomo nel corso della vita presenta un rischio di sviluppare un carcinoma prostatico pari a circa il 15%. L’attribuzione delle categorie di rischio avviene solamente sulla base del PSA (Antigene Prostatico Specifico) e dei risultati della biopsia prostatica, che è il mezzo diagnostico per eccellenza”. La prevenzione è possibile e passa da uno stile di vita sano.
Alimentazione sana e attività fisica sono i fattori di rischio modificabili più importanti per impedire lo sviluppo, alterare il comportamento del tumore e arrestarne la progressione, suggeriscono gli esperti: “Molti elementi della dieta mediterranea possono giocare un ruolo importante nella prevenzione della neoplasia”.
Ma anche i più giovani devono prestare attenzione alla propria salute sessuale. “In Italia registriamo un aumento del 6% l’anno dell’incidenza dei tumori del testicolo, soprattutto tra gli under 24 – afferma Nicola Nicolai, della Struttura complessa di Urologia e responsabile della Chirurgia del Testicolo della Fondazione Istituto Nazionale dei Tumori di Milano –. Le cause risiedono nella modificazione dello stile di vita addirittura durante la gestazione, dove alimentazione, sedentarietà ed età materna sempre più elevata sono in grado di alterare equilibri ormonali responsabili della futura insorgenza della malattia. L’inquinamento atmosferico, probabilmente di più quello elettromagnetico, hanno probabilmente contribuito a questo aumento di incidenza. Ma in questa malattia la diagnosi precoce e l’autodiagnosi possono fare la differenza.
“Ragazzi e giovani adulti dovrebbero conoscere dimensioni e aspetto dei loro testicoli – aggiunge Nicolai –, esaminandoli periodicamente senza timore. Quando si notano delle anomalie bisogna sottoporsi a una visita urologica, senza far trascorrere settimane o mesi, come purtroppo ancora succede”.
Quando la prevenzione non raggiunge i risultati sperati, la tecnologia e le nuove strumentazioni vengono in aiuto dell’urologo al momento della cura. Senza dimenticare la collaborazioni tra specialisti.
“Il ruolo dei medici è fondamentale – sottolinea Puppo – prima di intervenire occorre definire il percorso attraverso l’interazione tra i vari specialisti, individuando il ruolo di ciascuna terapia a seconda del paziente. Ma la ricerca ha fatto passi da gigante e costituisce una grande arma in nostro possesso. Per individuare il tumore della prostata, ad esempio, spesso la biopsia tradizionale non è sufficiente, perché non riesce a raggiungere tutte le zone della ghiandola. A questo si sta finalmente ovviando con l’adozione di ecografi tridimensionali che simulano, ricostruiscono e registrano il percorso dell’ago all’interno della ghiandola. Con la biopsia in 3D si ha quindi finalmente un controllo di qualità del prelievo e la ragionevole certezza di aver effettuato una valida mappatura (mappaggio) della prostata”.
Anche la diagnostica per immagini è in grado di “vedere” il tumore della prostata. “La Risonanza Magnetica (RM) ha un’elevata sensibilità per il carcinoma prostatico – conclude Puppo –, peccato che sia praticamente impossibile eseguire una biopsia transrettale sotto RM. Fortunatamente sono stati di recente introdotti software cd di “fusione elastica”, che sono in grado di trasferire le informazioni della RM sull’immagine ecografica tridimensionale. È nata così la “fusion biopsy “ o biopsia con fusione, che già nelle prime serie si è dimostrata in grado di aumentare significativamente sino a raddoppiare l’accuratezza diagnostica. Verrà quindi ridotto il numero delle biopsie inutili e verrà fornito al clinico un inquadramento migliore, che consentirà di sbagliare sempre meno nell’attribuire una categoria di rischio al tumore prostatico”.
Il trattamento raddoppia nel melanoma metastatico il tempo di sopravvivenza, che in media è inferiore ai 9 mesi. Presentati i risultati di un’indagine sugli italiani e sulla conoscenza del tumore della pelle, che ha messo in luce abitudini scorrette e atteggiamenti spesso contraddittori molto diffusi.
Nei microbi intestinali ci sono firme genetiche che forniscono indizi sul rischio di sviluppare diabete di tipo 2, e tali firme sono popolazione-specifiche. Ecco le conclusioni di uno studio pubblicato su Nature e coordinato da Frederik Bäckhed, professore di microbiologia cellulare e direttore del Wallenberg Laboratory all’Università di Göteborg in Svezia. «Questi risultati contribuiscono a rafforzare l’ipotesi che il diabete e le alterazioni della flora intestinale siano legate a doppio filo» spiega il ricercatore, che da anni studia il ruolo del microbiota intestinale nelle malattie metaboliche.
Strumenti per predire l’incidenza «Il microbiota è un termine che ha ormai rimpiazzato quello di microflora, e indica l’ecosistema che ospita numerose specie di batteri in stretto contatto con la mucosa intestinale» spiega il microbiologo, che assieme ai colleghi descrive la caratterizzazione metagenomica del microbiota intestinale in una coorte di 145 donne europee settantenni con glicemia normale, intolleranza glucidica o diabete conclamato. «La metagenomica è l’uso della genomica nello studio di ecosistemi batterici nel loro ambiente naturale, senza doverli prelevare e coltivare in laboratorio» dice Bäckhed. E aggiunge: «Confrontando i nostri risultati con quelli ottenuti da una coorte cinese di 345 uomini e donne di età miste, si colgono differenze tra le popolazioni nei marcatori metagenomici per il diabete di tipo 2». Questi risultati suggeriscono che gli strumenti per predire l’incidenza di questo tipo di malattia metabolica o il rischio di svilupparla con lo studio del metagenoma devono essere specifici non solo per età, ma anche per area geografica. «Stabilire e mantenere interazioni vantaggiose tra microbiota e ospite sono requisiti fondamentali per la salute di quest’ultimo» continua Bäckhed, autore, tra l’altro, di un articolo di revisione pubblicato in febbraio su Nature Reviews in Microbiology. Sebbene i batteri intestinali siano stati studiati nel contesto delle malattie infiammatorie, è ormai chiaro che questa comunità microbica modula il sistema immunitario dell’ospite influenzandone il metabolismo.
Sconosciuti i meccanismi molecolari «I meccanismi molecolari alla base di queste interazioni restano in gran parte sconosciuti, ma studi recenti hanno cominciato a individuare le principali vie di segnalazione della regolazione omeostatica tra microbiota e organismo ospite» sottolinea il microbiologo. Per esempio, un collegamento tra microbiota intestinale e metabolismo è stato dimostrato nei topi germ-free, non colonizzati da batteri. Questi roditori hanno un’adiposità minore e richiedono un apporto calorico maggiore per ottenere lo stesso peso di topi con microbiota. Un’ipotesi è che i batteri intestinali influenzano l’adiposità e il metabolismo del glucosio stimolando l’infiammazione e l’accumulo di macrofagi nel tessuto adiposo. In particolare, esiste la dimostrazione che i lipopolisaccaridi provenienti da batteri intestinali Gram-negativi possono indurre obesità e insulino-resistenza. «Immensi progressi sono stati fatti non solo nell’identificazione dei ceppi del microbiota intestinale, ma anche nello sviluppo di strumenti genetici, come le metagenomica, capaci di analizzare l’interazione tra microbioma e malattie metaboliche. L’uso di questi strumenti permetterà nei prossimi anni di approfondire la comprensione dei bersagli molecolari nell’interazione tra microbiota e ospite, rivelando nuove strategie di trattamento» conclude Bäckhed.
Una dieta dimagrante a basso contenuto calorico può migliorare i sintomi della psoriasi nei pazienti sovrappeso, almeno secondo uno studio pubblicato su Jama Dermatology da un gruppo di ricerca danese. «La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle che ha una prevalenza di circa il 2% in Nord Europa e Nord America» esordiscePeter Jensen, dermatologo del Copenhagen university hospital Gentofte di Hellerup, Danimarca, e primo firmatario dell’articolo. Alla malattia cutanea si associa un aumento dei tradizionali fattori di rischio cardiovascolare, come il diabete, l’ipertensione e l’iperlipidemia, nonché un aumento del rischio di infarto. Ma non basta: la psoriasi si associa all’obesità e l’incremento ponderale ne aumenta il rischio. Ecco perché la perdita di peso ha un ruolo benefico nel trattamento della psoriasi negli obesi: l’ipotesi è che la malattia della pelle migliora perché il calo ponderale riduce l’infiammazione indotta dall’obesità» spiega il dermatologo danese che assieme ai colleghi ha svolto uno studio clinico randomizzato su 60 pazienti obesi con psoriasi. I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: uno seguiva una dieta ipocalorica di 800-1000 chilocalorie al giorno e l’altro continuava a mangiare in modo ordinario. Per verificare l’eventuale miglioramento della malattia cutanea sono stati usati il Pasi, Psoriasis area and severity index misurato dopo 16 settimane di follow up e il Dermatology life quality index (Dlqi). «Il trattamento dietetico ha mostrato un importante miglioramento clinico, verificato con il Pasi, e una significativa riduzione del Dlqi, con relativo aumento della qualità di vita nel gruppo di studio rispetto a quello di controllo» dice Jensen, e conclude: «Dato che psoriasi e obesità sono sempre più frequenti nei paesi sviluppati, è opportuno che i medici abbiano familiarità con le opzioni di trattamento di entrambe le patologie». E i risultati dello studio danese sottolineano l’importanza della perdita di peso come parte di un approccio terapeutico multimodale per trattare efficacemente sia la malattia cutanea sia le comorbidità associate al sovrappeso.
Un gruppo di ricercatori diretti da Ishan Barman, del Massachusetts institute of technology di Cambridge, ha messo a punto un nuovo algoritmo che permette di impiegare la cosiddetta spettroscopia Raman – una tecnica di indagine che sfrutta un effetto molto specifico prodotto dall’esposizione di campioni biologici a particolari frequenze laser – per la diagnosi delle lesioni tumorali della mammella così da ridurre il numero di biopsie. Secondo lo studio appena pubblicato sulla rivista Cancer Research, edita dall’American association for cancer research, l’impiego di questa tecnica potrebbe ridurre drasticamente il numero di biopsie ripetute: «Ogni anno negli Stati Uniti vengono effettuate circa 1,6 milioni di biopsie, e circa 250.000 nuovi tumori della mammella vengono diagnosticati» spiega Barman. «Se si riuscisse ad evitare 200.000 biopsie ripetute, ipotizzate in base a una stima prudente, il sistema sanitario potrebbe risparmiare un miliardo di dollari all’anno». La mammografia a raggi X attualmente in uso nella diagnosi precoce del cancro del seno non è in grado di distinguere se le microcalcificazioni sono associate a lesioni benigne o maligne, per cui è spesso necessaria una biopsia, che però presenta un’elevata percentuale di falsi negativi (tra il 15 e il 25%). La nuova tecnica, secondo i ricercatori, avrebbe invece valori predittivi positivi del 100%, e negativi del 96% per la diagnosi di tumore con o senza microcalcificazioni, e un’accuratezza complessiva dell’82% riguardo alla classificazione tra tessuto normale, lesioni benigne o maligne: «Il nostro studio dimostra il potenziale della spettroscopia Raman nel rilevare le microcalcificazioni e simultaneamente diagnosticare le lesioni associate con un alto grado di accuratezza, fornendo feedback in tempo reale durante le procedure bioptiche» scriveBarman, aggiungendo che la maggioranza dei tumori diagnosticati nel corso dello studio (su 33 donne di cui sono stati presi in esame 146 aree di tessuto complessive) carcinomi duttali in situ, ovvero le lesioni più spesso associate alle microcalcificazioni, che comportano particolari difficoltà con i metodi oggi in uso.
Un maggior consumo di acidi grassi polinsaturi n-3 provenienti dal pesce riduce il rischio di cancro al seno. Questi risultati supportano la prevenzione del tumore al seno attraverso la dieta e gli interventi sullo stile di vita. Lo affermaDuo Li, capo del Dipartimento di scienze alimentari e della nutrizione all’Università Zhejiang di Hangzhou in Cina e coordinatore di uno studio pubblicato sul Bmj. «Il tumore al seno è la principale causa di morte per cancro tra le donne, e in questi ultimi decenni gli studi epidemiologici hanno suggerito che una dieta e uno stile di vita sani sono fondamentali per la sua prevenzione» spiega Duo, sottolineando che i grassi alimentari sono tra i fattori dietetici più intensamente studiati in relazione al rischio di neoplasia mammaria. E tra i diversi acidi grassi gli n-3 polinsaturi, noti anche come n-3 Pufa , sono i più promettenti nell’inibire o limitare la carcinogenesi, almeno nei modelli animali. I risultati degli studi sull’uomo, invece, sono discordanti. Alcuni suggeriscono un’associazione inversa tra n-3 Pufa e rischio di cancro mammario, altri non trovano legami. Anche i trial prospettici sull’assunzione di pesce, la fonte più ricca di n-3 Pufa, indicano una relazione inversa, nulla, o addirittura positiva con il rischio di tumore al seno. Da qui l’idea dei ricercatori cinesi di riassumere con una revisione sistematica la relazione tra assunzione di pesce e di n-3 Pufa con il cancro al seno incidente sulla base di studi prospettici di coorte. «I trial selezionati da PubMed ed Embase fino a dicembre 2012 sono stati 11 sull’assunzione generica di pesce (13.323 casi di cancro al seno e 687.770 partecipanti), 17 su quella specifica di n-3 Pufa derivati dal pesce (16.178 casi di cancro al seno e 527.392 partecipanti) e 12 sull’acido alfa linolenico (14.284 casi di cancro al seno 405.592 partecipanti» dice il nutrizionista. E i dati raccolti indicano che l’assunzione di n-3 Pufa di origine ittica si associa a una riduzione del rischio di neoplasia mammaria del 14 per cento. Nessuna associazione significativa, invece, si osserva per l’assunzione di pesce o di acido alfa-linolenico. «La metanalisi fornisce solide prove che gli n-3 Pufa derivati dal pesce sono inversamente associati al rischio di cancro al seno. Viceversa, l’effetto protettivo del pesce o di singoli n-3 PUFA va approfondito con ulteriori studi prospettici» conclude Duo.