Valsartan migliora la secrezione insulinica e previene il diabete

Un trattamento di 26 settimane con valsartan aumenta il rilascio di insulina stimolato dal glucosio e la sensibilit? insulinica in soggetti normotesi con alterato metabolismo glucidico. Questi dati, ottenuti da Nynke J. Van der Zijl, del Centro medico della Libera universit? di Amsterdam, e collaboratori, possono in parte spiegare i benefici effetti riscontrati con valsartan nel ridurre l’incidenza del diabete di tipo 2. L’?quipe, dislocata in due centri (Amsterdam e Maastricht) ha indagato gli effetti preventivi esercitati dal sartano rispetto al diabete mediante uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, coinvolgendo soggetti con alterato metabolismo del glucosio e/o ridotta tolleranza al glucosio, a 40 dei quali ? stato somministrato per 26 settimane valsartan (320 mg/die) e a 39 un placebo, utilizzando un clamp combinato iperinsulinemico-euglicemico e iperglicemico con successiva stimolazione con arginina e test di tolleranza al glucosio (2 grammi) a 2 ore (Ogtt). Gli effetti dei trattamenti sono stati analizzati mediante metodo Ancova, aggiustati per centro, stato glucometabolico e sesso. Valsartan, rispetto al placebo, ha incrementato la prima e la seconda fase di secrezione insulinica indotta dal glucosio, mentre l’aumentata secrezione insulinica da stimolazione con arginina ? apparsa simile nei due gruppi. Inoltre, valsartan ha aumentato l’indice insulinogenico derivato dall’Ogtt (rappresentativo della prima fase di secrezione insulinica dopo un carico orale di glucosio). La sensibilit? insulinica derivata da clamp ? risultata significativamente maggiore con valsartan rispetto al placebo. Come atteso il trattamento con valsartan ha ridotto in modo significativo la pressione sistolica e diastolica rispetto al placebo. L’indice di massa corporea, infine, ? rimasto immodificato in entrambi i gruppi.

Diabetes Care, 2011 Feb 17.

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La presentazione dei rischi sanitari influenza le decisioni

Esporre chiaramente e nel dettaglio gli eventuali problemi a cui si pu? andare incontro affrontando un intervento sanitario ? il metodo da adottare affinch? un paziente faccia scelte informate e consapevoli. La percezione del rischio da parte di un soggetto che si appresta a sottoporsi a un’operazione chirurgica o a seguire una determinata terapia farmacologica, quindi, dipende da come si prospettano i probabili risultati. La domanda allora da porsi ? quale sia il migliore approccio al paziente, in buona sostanza che cosa bisogna dirgli. Questo argomento ? stato affrontato da una recente revisione sistematica Cochrane che si ? focalizzata su tutti gli studi pubblicati, randomizzati e non, che avessero come oggetto la presentazione del rischio, intesa come frequenze versus probabilit?, riduzione del rischio relativo (Rrr) versus riduzione del rischio assoluto (Arr), Rrr versus numero di pazienti da trattare (Nnt) e Arr versus Nnt. Dai 35 studi presi in considerazione, i cui partecipanti erano professionisti della salute e fruitori dei servizi, ? emerso che le frequenze naturali vengono recepite meglio delle probabilit? (differenza media standardizzata, Smd, 0,69). Confrontato con l’Arr, il Rrr presenta minime o nessuna differenza nel venire compreso (Smd 0,73) ma ? stato percepito come pi? ampio (Smd 0,41) e maggiormente persuasivo (Smd 0,66). Rispetto all’Nnt, il Rrr viene inteso pi? chiaramente (0,73), considerato maggiore (Smd 1,15) e pi? persuasivo (Smd 0,65). Confrontato con il Nnt, l’Arr ? un concetto pi? comprensibile (Smd 0,42) e considerato maggiore (Smd 0,79). ?Se i risultati vengono espressi come riduzioni di rischio relativo, il beneficio viene generalmente sopravvalutato, rendendo pi? propenso il paziente a sottoporsi a quello specifico intervento?, conclude Elie A. Akl del dipartimento di Medicina della State university of New York a Buffalo, e autore della revisione.

Cochrane Database Syst Rev, 2011; 3:CD006776

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Un solo test del Psa, prima dei 50 anni, ? predittivo

17 Apr 2011 Oncologia

Un singolo esame del Psa all’et? di 50 anni, o ancora prima, predice la diagnosi di cancro prostatico avanzato fino a trent’anni pi? tardi. L’impiego precoce del test per la stratificazione del rischio permetterebbe di ridurre la frequenza dello screening in un ampio gruppo di uomini a basso rischio e di aumentarla invece in un numero pi? limitato di uomini ad alto rischio. ? possibile che in questo modo migliori il rapporto rischio/beneficio dello screening. Sono queste le conclusioni di uno studio condotto da ricercatori statunitensi e svedesi, guidati da Hans Lilja, del Memorial Sloan-Kettering cancer center di New York. Lo studio riprende un precedente lavoro degli stessi autori in cui era emerso che un singolo test del Psa all’et? di 44-50 anni ha un elevato potere predittivo di diagnosi di cancro prostatico in una popolazione non sottoposta a screening; con il nuovo lavoro il follow up ? stato prolungato di ulteriori sette anni, permettendo di replicare l’analisi su un set di dati indipendente. Nel dettaglio, sono stati raccolti campioni di sangue da 21.277 uomini svedesi durante gli anni 1974-1986, quando i soggetti arruolati avevano un’et? compresa tra 33 e 50 anni. Al 2006, la diagnosi di carcinoma prostatico ? stata posta in 1.408 partecipanti; ? stata quindi eseguita la misurazione del Psa prendendo i campioni di plasma archiviati di 1.312 di questi casi (93%) e di 3.728 controlli. Al follow up mediano di 23 anni, il Psa al baseline era fortemente associato al successivo cancro prostatico (area sotto la curva 0,72; per tumori avanzati 0,75). Le associazioni tra livelli di Psa e tumore della prostata si sono dimostrate virtualmente identiche nelle analisi effettuate sul set di dati iniziale e di replicazione: l’ 81% di casi avanzati sono stati registrati negli uomini con PSA al di sopra della mediana (0.63 ng/mL in et? compresa tra 44 e 50 anni).

Cancer, 2011; 117(6):1210-9

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Prescrizione appropriata dei tests tireofunzionali nei pazienti ricoverati per p

L’interpretazione dei tests funzionali tiroidei nei pazienti ricoverati per patologie acute non ? sempre agevole. La “malattia” pu? infatti di per s? indurre modificazioni metaboliche che possono riflettersi sui risultati laboratoristici, senza tuttavia che tali alterazioni siano in realt? espressione di una vera disfunzione ghiandolare. Tale situazione deve essere tenuta presente per due fondamentali motivi
qualora ne derivi una decisione terapeutica, questa potrebbe comportare un possibile danno per il paziente
occorre attenersi ad una maggiore appropriatezza nella richiesta della valutazione tireofunzionale.
Alcuni colleghi inglesi – della Section of Diabetes and Endocrinology del Department of Medicine del Caerphilly Miners’ Hospital di Caerphilly – si sono posti il problema ed hanno approntato una analisi retrospettiva per valutare la frequenza, l’utilit? ed i costi dei test tireofunzionali effettuati sui pazienti ricoverati nel loro ospedale per patologie acute. Da una prima valutazione dei dati hanno rilevato che in oltre il 50% dei pazienti ricoverati sono stati prescritti tests tireofunzionali. Solo nel 43.9% dei casi l’indicazione all’esame era appropriata. Le alterazioni pi? frequentemente riscontrate riguardavano l’fT4 ed il TSH; quest’ultimo in pi? del 50% dei soggetti testati risultava abbassato nonostante la normalit? dei valori della fT4. A seguito di questa prima fase analitica, sono stati condotti audit clinici durante i quali ? stata discussa – con riferimento alle pi? recenti Linee Guida – l’appropriatezza prescrittiva dei tests e la loro interpretazione. Successivamente ? stata di nuovo effettuata una indagine retrospettiva per valutare se l’intervento educazionale avesse modificato i comportamenti prescrittivi. I risultati emersi hanno in modo inequivocabile dimostrato l’utilit? degli audit. Infatti dopo la loro effettuazione si ? assistito ad una riduzione del 21,7% delle richieste dei tests tireofunzionali e vi ? stata una maggiore percentuale di appropriatezza prescrittiva, passata dal 43,9 % della prima indagine al 73,7%, e con una migliore identificazione di reali disfunzioni ghiandolari confermate da un significativo aumento di riscontro di alterazioni del TSH. Il tutto si ? tradotto in un pi? efficace ed appropriato intervento terapeutico e di follow-up ed un risparmio dei costi sostenuti. Gli AA concludono con un consiglio pratico: nei pazienti ricoverati per patologie acute la appropriatezza della richiesta di indagini tireofunzionali ? tale solo per quelli che abbiano avuto precedenti malattie della tiroide, che presentino caratteristiche cliniche e fattori di rischio per queste malattie, che utilizzino farmaci potenzialmente interferenti con la funzione tiroidea o che abbiano tachiaritmie “inspiegabili”.

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Rischio di frattura e sistema nervoso simpatico: effetto favorevole dei beta-blo

Il sistema nervoso simpatico, attraverso le catecolamine che si legano ai recettori beta-adrenergici presenti sugli osteoblasti, inibisce la neoformazione di tessuto osseo e ne stimola il riassorbimento mediante una via c-AMP dipendente, che porta ad un incremento del nuclear factor κB (RANK) ligando. Uno studio australiano, il DOES (Dubbo Osteoporosis Epidemiology Study), ha verificato il ruolo dei betabloccanti nella riduzione del rischio di frattura. ? stata studiata la densit? minerale ossea (BMD) a livello della colonna lombare e femorale, mediante metodo DEXA. Negli uomini, l’utilizzo di beta-bloccanti ha comportato una pi? elevata densit? minerale ossea a livello femorale (0.96 versus 0.92 g/cm2, p<0.01 ) e vertebrale (1.31 versus 1.25 g/cm2, p<0.01), nonch??un minor rischio di fratture (Odds Ratio 0.49; intervallo di confidenza al 95% 0.32-0.75). Anche nelle donne si ? ottenuta una pi? elevata densit? minerale ossea a livello femorale (0.83 versus 0.81 g/cm2, p<0.01) e vertebrale (1.11 versus 1.06 g/cm2, p<0.01) e?un rischio di frattura inferiore rispetto ai soggetti non trattati (Odds Ratio 0,68; intervallo di confidenza al 95% 0.53-0.87). Va inoltre ricordato che lo studio MONICA/KORA - pubblicato nel 2007 - aveva evidenziato che i beta-bloccanti selettivi?esercitavano un migliore effetto protettivo.

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Buon controllo fattori di rischio riduce impatto aterotrombosi

Meno del 60% dei pazienti con malattia aterotrombotica stabile ha un buon controllo dei cinque fattori maggiori di rischio cardiovascolare, ma un migliore controllo di questi ultimi si associa a un impatto positivo sui tassi di eventi cardiovascolari e sulla mortalit? a tre anni. Sono questi i risultati salienti dello studio Reach (Reduction of atherothrombosis for continued health), condotto in diciotto paesi europei su 20.588 pazienti sintomatici, di et? media pari a 67 anni e per il 70,6% di sesso maschile, con malattia aterotrombotica o tre o pi? fattori di rischio. I ricercatori che hanno condotto il Reach, coordinati da Patrice P. Cacoub, dell’Ospedale La Piti?-Salp?tri?re di Parigi, hanno valutato i pazienti arruolati al basale, al dodicesimo, al ventiquattresimo e al trentaseiesimo mese, definendo come “buon controllo” dei fattori di rischio cardiovascolare almeno tre dei cinque fattori di rischio con valori in linea con quanto raccomandato dalle linee guida internazionali (pressione sistolica <140 mmHg; pressione diastolica <90 mmHg; glicemia a digiuno <110 mg/dl; colesterolemia totale <200 mg/dl; non fumatore). Nel dettaglio, il 59,4% dei partecipanti allo studio era caratterizzato da un buon controllo dei fattori di rischio al basale. Al trentaseiesimo mese, un buon controllo dei fattori di rischio, rispetto a un adeguato controllo, era associato a una riduzione della morte per cause cardiovascolari, dell'ictus non fatale, dell'infarto miocardico non fatale (rapporto crociato, Or: 0,76) e della mortalit? (Or: 0,89). I fattori predittivi indipendenti che hanno contribuito al buon controllo dei fattori di rischio includevano la residenza in Europa occidentale piuttosto che in quella orientale (Or: 1,29), un alto livello di scolarizzazione (Or: 1,16), una malattia coronarica stabile (Or: 1,18), una terapia con uno o pi? antitrombotici (Or: 1,59) e con uno o pi? ipolipidemizzanti (Or: 1,16). Heart, 2011 Feb 25

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Bpco: eterogeneit? nell’aderenza alle linee guida

13 Apr 2011 Pneumologia

Nonostante siano state divulgate svariate linee guida cliniche, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) ? ancora sottodiagnosticata e trattata in modo inadeguato a livello di medicina primaria. Un gruppo di ricercatori guidati da Gregory D. Salinas, CE Outcomes, LLC Birmingham (Usa), ha indagato i motivi per cui l’aderenza alle linee guida non ? ottimale. Si conclude che l’aderenza alle raccomandazioni per la spirometria pu? essere predetta in base all’accordo con le stesse raccomandazioni, con l’auto-efficacia, con l’aspettativa percepita dell’outcome nel caso in cui le raccomandazioni fossero seguite, e infine con la disponibilit? di risorse. L’aderenza alle raccomandazioni per l’uso di broncodilatatori long-acting (Labd) ? predetta, invece, solo dall’accordo con le raccomandazioni e dall’auto-efficacia. Lo studio trasversale ha incluso 309 medici di famiglia e 191 internisti: globalmente il 23,6% dei medici ha riferito di aderire alle linee guida per la spirometria in oltre il 90% dei casi e il 25,8% ha detto di seguire le linee guida per l’uso di Labd nei pazienti con Bpco. In generale solo in alcuni casi i medici esprimevano familiarit? con le linee guida, pi? i medici internisti di quelli di medicina generale. L’aderenza alle linee guida per la spirometria si associava con l’accordo alle linee guida, con la fiducia nell’interpretazione dei dati, con l’ambivalenza delle aspettative sull’outcome e con la capacit? di incorporare la spirometria nel flusso delle prestazioni assistenziali. L’aderenza alle linee guida per l’impiego di Labd si associava invece con l’accordo con le linee guida e con la fiducia nella valutazione della risposta farmacologica. Gli autori, infine, osservano che la familiarit? con le linee guida da sola pu? avere un impatto limitato sull’outcome del paziente, mentre altre barriere, come una scarsa fiducia e una ridotta aspettativa circa l’outcome, hanno maggiori probabilit? di avere impatto sull’aderenza alle linee guida.

Int J Chron Obstruct Pulmon Dis, 2011; 6:171-9

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Fa: rischio ictus ridotto con apixaban

13 Apr 2011 Cardiologia

Nei pazienti con fibrillazione atriale non candidabili alla terapia con antagonisti della vitamina K come il warfarin, l’impiego di apixaban (inibitore del fattore Xa)? riduce il rischio di ictus o embolia sistemica in modo statisticamente superiore all’acido acetilsalicilico (Asa), senza aumentare il rischio di sanguinamento maggiore o emorragia intracranica. ? questo l’esito del trial Averroes (Apixaban versus acetylsalicylic acid to prevent strokes in Af patients who have failed or are unsuitable for vitamin K antagonist treatment), condotto da Stuart J. Connolly, del Population health research institute di Hamilton, Ontario (Canada), e collaboratori. I ricercatori hanno assegnato 5.599 pazienti affetti da fibrillazione atriale con almeno un fattore di rischio per ictus a ricevere in modo randomizzato 5 mg di apixaban bis/die oppure Asa, da 81 a 324 mg/die. Dopo un follow-up di 1,1 anni, si sono rilevati 44 casi di sanguinamento maggiore (1,4% per anno) nel gruppo apixaban e 39 (1,2% per anno) in quello Asa, equivalente a un rischio accresciuto in modo non significativo di 1,13 volte nei soggetti trattati con apixaban. Dato ancora pi? significativo ? il mancato aumento di rischio di ictus emorragico nel gruppo apixaban, in cui si sono avuti 11 casi contro i 13 del gruppo Asa. L’outcome primario (ictus o embolia sistemica) si ? registrato in 51 soggetti in terapia con apixaban (1,6% per anno) contro i 113 (3,7% per anno) dei trattati con Asa, equivalente a una riduzione significativa di rischio del 55% nel gruppo apixaban. Infine ? apparso ridotto, con apixaban rispetto ad Asa, anche il rischio di ospedalizzazione per cause cardiovascolari: 12,6% vs 15,9% per anno, rispettivamente.

N Engl J Med, 2011 Feb 10.

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Semplificare la valutazione ecografica delle masse pelviche

12 Apr 2011 Ginecologia

Con alcune semplici regole si potrebbe migliorare il management delle donne sottoposte a ecografia per la presenza di masse a livello degli annessi; solo nei casi in cui, grazie a queste regole, non si dovesse arrivare a risultati conclusivi, l’esame diagnostico pi? accurato resta la valutazione soggettiva dell’imaging ecografico da parte di un esperto. Queste le conclusioni dello studio prospettico di validazione dello Iota group, con la firma come primo autore di Dirk Timmerman, degli Ospedali universitari di Lovanio (Belgio), e la partecipazione di cinque ginecologi italiani. L’indagine, condotta in 19 centri di otto Paesi, ha coinvolto 1.938 donne con masse pelviche, sottoposte a ecografia in base a un protocollo standardizzato di ricerca. Sono stati identificati tumori benigni (72%), primari invasivi (19,2%), maligni borderline (5,7%) e metastatici nell’ovaio (3%). Le regole utilizzate per la valutazione comprendevano cinque segni ecografici (tra cui forma, dimensione, solidit?, e risultati dell’esame color-Doppler) per predire i tumori maligni (caratteristiche M) e cinque segni per predire i tumori benigni (caratteristiche B). La massa era classificata come maligna in presenza di una o pi? caratteristiche M in assenza di quelle B. Al contrario se erano presenti una o pi? caratteristiche B in assenza di quelle M la massa era classificata come benigna. In assenza di caratteristiche M e B i risultati erano considerati non conclusivi. Il protocollo ha portato a risultati conclusivi nel 77% delle masse con una sensibilit? del 92% e una specificit? del 96%. La corrispondente valutazione soggettiva ? apparsa caratterizzata da una sensibilit? del 91% e da una specificit? del 96%. Riservare la valutazione soggettiva solo alle masse per cui le regole non fornivano risultati conclusivi garantiva una sensibilit? del 91% e una specificit? del 93% rispetto al 90% e al 93% registrato quando la valutazione soggettiva era praticata in tutte le masse.

BMJ, 2010 Dec 14; 341:c6839

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Ancora da decidere lo standard terapeutico per epatite B

La scelta del trattamento ottimale per l’epatite cronica B ? ancora oggi un tema di vitale importanza a livello mondiale. Tra le varie opzioni terapeutiche a disposizione, si raccomanda l’uso di tenofovir e adefovir, ma i risultati degli studi di confronto tra le due molecole non sono concordanti. Di qui l’idea – da parte di Shu-Shan Zhao e colleghi, del dipartimento di Malattie infettive dell’Ospedale Xiangya di Changsha, in Cina – di eseguire una revisione sistematica coordinata con metanalisi degli studi clinici di confronto tra tenofovir e adefovir finora pubblicati. Al termine di un lavoro di ricerca e selezione, sono stati presi in considerazione sei studi che hanno coinvolto un totale di 910 pazienti, di cui 576 trattati con tenofovir e 334 con adefovir. Dopo 48 settimane di trattamento, tenofovir ? risultato superiore ad adefovir nella soppressione del Dna virale (rapporto di rischio, Rr: 2,59), mentre non sono emerse differenze significative a proposito della normalizzazione di alanina aminotransferasi (Rr: 1,15), della sieroconversione HBeAg (Rr: 1,32) e del tasso di perdita di HBsAg (Rr: 1,19). Si tratta comunque di dati insufficienti per cui, sostengono gli esperti, c’? assoluto bisogno di ulteriori trial multicentrici e randomizzati per favorire l’evoluzione degli standard di trattamento dell’epatite cronica B.

Virol J, 2011; 8(1):111

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