Ca prostatico, Cochrane sugli inibitori della 5-alfa-reduttasi

21 Mar 2011 Urologia

L’impiego degli inibitori della 5-alfa-reduttasi (5-alfa-RIs), nell’ambito della chemioprevenzione del cancro della prostata, riduce effettivamente il rischio di incorrere in una diagnosi della malattia fra gli uomini che si sottopongono regolarmente allo screening ad hoc. Tuttavia, a fronte di un aumento delle disfunzioni erettili e sessuali, le informazioni sono inadeguate per valutare gli effetti di questa classe farmacologica sulla mortalit? per cancro prostatico o per tutte le cause. La revisione sistematica Cochrane che ha approfondito la questione ? stata condotta da Timothy J. Wilt e collaboratori del Minneapolis VA Center for Chronic Disease Outcomes Research su otto studi clinici della durata di almeno un anno che hanno analizzato l’effetto dei 5-alfa-RIs versus i controlli. Rispetto al placebo, i 5-alfa-RIs hanno prodotto una riduzione del 25% del rischio di tumori prostatici identificati per causa con una riduzione dell’1,4% del rischio assoluto. Un trial eseguito su pazienti con ipertrofia prostatica benigna ha mostrato come il rischio di cancro prostatico identificato per causa fosse significativamente pi? basso con l’impiego di dutasteride e la combinazione dutasteride pi? tamsulosina rispetto alla monoterapia con tamsulosina. Sei studi clinici versus placebo si sono focalizzati sulle diagnosi globali della neoplasia verificando una riduzione pari al 26% del rischio relativo a favore dei 5- alfa-RIs. Queste riduzioni sono state osservate in diverse categorie di et?, etnia e storia familiare di cancro prostatico. Uno studio placebo-controllato che ha arruolato pazienti ritenuti ad alto rischio non ha riportato riduzioni della malattia identificata per causa con l’agobiopsia ma ha evidenziato una riduzione del 23% del dato globale relativo al tumore incidente identificato tramite biopsia. Tali riduzioni sono state rilevate in tutti i sottogruppi di et?, storia familiare, livello di Psa e volume prostatico. Rispetto al placebo, infine, i 5-alfa-RIs sono caratterizzati da una maggiore incidenza di disfunzione erettile, riduzione della libido e ginecomastia.

BJU Int, 2010; 106(10):1444-51

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Il sesso allunga la vita dei maschi (fedeli)

MILANO – Un’attivit? sessuale piena e piacevole protegge gli uomini dai problemi cardiovascolari. Soprattutto se lui ? fedele e felice in coppia, o se tradisce la partner solo saltuariamente. Lo affermano alcuni studi che saranno presentati al congresso della Societ? italiana di andrologia e medicina della sessualit? (Siams), dal 4 al 6 novembre a Modena
STRESS E SENSI DI COLPA – In uno degli studi, realizzato dal Dipartimento di fisiopatologia clinica dell’Universit? di Firenze, ? stato esaminato un campione di 4mila uomini fotografando il rapporto di coppia, le disfunzioni sessuali e il livello di testosterone. I dati sono stati incrociati con quelli dei registri delle Asl sugli eventi cardiovascolari. Uno dei risultati ? che gli infedeli occasionali hanno un pi? basso rischio cardiovascolare, ma il vantaggio viene perso se l’amante ? fissa. Chi mantiene un rapporto parallelo a lungo dichiara di vivere un maggiore livello di stress al lavoro, pi? conflitto nella coppia primaria e nella famiglia e sensi di colpa. Una situazione che induce l’uomo ad adottare comportamenti a rischio: aumento del peso corporeo, tensioni sul lavoro e a casa, abuso di alcol e fumo. Al contrario, se gli uomini sono fedeli, il testosterone svolge un ruolo protettivo, ma solo se la coppia ? affiatata fisicamente: la quantit? dell’ormone ? influenzata anche dalla qualit? dei rapporti sessuali. Sono d’altra parte gli uomini fedeli a soffrire di pi? di ipogonadismo (calo di produzione di ormoni androgeni), soprattutto se si sentono trascurati dalla partner. In tal caso subentrano i sintomi del cosiddetto “effetto della vedovanza”, che induce i neovedovi a curarsi di meno, a una maggiore depressione e a morire prima del tempo a causa di patologie cardiovascolari. Al contrario, dall’indagine emerge che l’interesse erotico femminile percepito dall’uomo ? gi? sufficiente ad abbassare il rischio cardiovascolare. ?Il circolo virtuoso ? semplice: pi? sesso uguale pi? testosterone, meno depressione, migliore performance cardiovascolare, miglior metabolismo – spiega Emmanuele Jannini, coordinatore della commissione scientifica Siams -. I dati dimostrano che l’attivit? sessuale frequente e soddisfacente dovrebbe essere prescritta come una medicina per curare patologie psichiche (depressione), relazionali (problemi di coppia), dismetabolismi: a letto si recupera la linea e un diabetico che ha una buona attivit? sessuale si cura meglio. Il sesso ? utile addirittura per prevenire neoplasie come quelle della prostata?.
BRUCIANO GLI ZUCCHERI – Su un piano strettamente fisico, l’attivit? sotto le lenzuola fa “bruciare” meglio lo zucchero nel sangue e migliora il metabolismo. Sempre merito del testosterone, in grado di ridurre la resistenza all’insulina, gli stati infiammatori e la massa grassa corporea. Al contrario, quando l’amore si spegne o ? conflittuale, peggiora la sindrome metabolica, aumentano le citochine infiammatorie e il rischio cardiovascolare. Questo aspetto ? stato approfondito in particolare da una ricerca del Dipartimento di fisiopatologia medica dell’Universit? La Sapienza di Roma su 45 uomini di mezza et? con ipogonadismo e sindrome metabolica. Durante lo studio sono stati studiati i livelli di insulina, la composizione corporea e le citochine infiammatorie dei pazienti. ?All’ipogonadismo si associa frequentemente la comparsa della sindrome metabolica o da insulino-resistenza, una situazione ad alto rischio cardiovascolare e che riguarda una fetta elevata di popolazione in et? matura – spiega Andrea Lenzi, direttore della ricerca e docente di endocrinologia alla Sapienza -. Somministrando testosterone al campione abbiamo scoperto che la capacit? dell’insulina di fare entrare zuccheri nelle cellule aumenta in media del 25%, mentre le citochine diminuiscono del 20%, riducendo cos? gli stati pro-infiammatori. Inoltre, migliora la composizione della massa magra corporea a scapito della grassa. Questi fattori predispongono alla comparsa di patologie a carico del sistema cardiocircolatorio, al diabete e alle patologie cardiocircolatorie

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Cefalee acute a rischio di emorragia subaracnoidea: tre regole

19 Mar 2011 Neurologia

Alcune caratteristiche cliniche della cefalea acuta hanno un ruolo predittivo di emorragia subaracnoidea e di fronte a un paziente con mal di testa che raggiunge il picco entro un’ora dall’esordio ? possibile adottare apposite regole per le decisioni cliniche. Lo studio prospettico che ha definito le caratteristiche cliniche ad alto rischio di emorragia subaracnoidea nei pazienti con cefalea acuta ? stato condotto da Jeffrey J. Perry del dipartimento di Medicina d’emergenza dell’universit? di Ottawa e dell’Ottawa hospital research institute (Canada), e collaboratori, su 1.999 pazienti che si erano presentati in pronto soccorso con un mal di testa che aveva raggiunto il picco in un’ora: di questi soggetti 130 avevano un’emorragia subaracnoidea. Dopo cinque anni d’indagine, sono state ricavate tre regole decisionali in base alle quali ? opportuno procedere ad ulteriori accertamenti per escludere l’emorragia e che contribuiscono a ridurre il ricorso a indagini non necessarie. La prima stabilisce che ? necessario escludere l’emorragia subaracnoidea in presenza di almeno uno dei seguenti fattori: et? superiore a 40 anni, dolore o rigidit? del collo, perdita di coscienza accertata, esordio in seguito a sforzo. La seconda suggerisce come criteri di sospetto l’arrivo del paziente in ambulanza, et? superiore a 45 anni, almeno un episodio di vomito e pressione arteriosa diastolica superiore a 100 mmHg. La terza regola, infine, raccomanda ulteriori indagini se il paziente soddisfa almeno uno dei seguenti quattro punti: arrivo in ambulanza, valore di pressione arteriosa sistolica superiore a 160 mmHg, dolore o rigidit? del collo, et? compresa tra 45 e 55 anni. Gli autori sostengono infine che l’impiego di una di queste regole potrebbe ridurre il ricorso ad accertamenti come la tomografia computerizzata e/o la rachicentesi dall’attuale 82,9% al 63,7-73,5%.

BMJ, 2010; 341: c5204

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Medicina: muscoli piu’ forti con meno proteine nel piatto, studio Telethon

Una dieta povera di proteine pu? aiutare a combattere la degenerazione muscolare causata da malattie come la distrofia. Ma pi? in generale, mangiare meno carne potrebbe contribuire a rallentare i processi di invecchiamento. Lo suggerisce uno studio italiano finanziato da Telethon e pubblicato su ‘Nature Medicine’, condotto da Paolo Bonaldo, dell’universit? di Padova, e Marco Sandri, dell’Istituto veneto di medicina molecolare e dell’ateneo padovano. Alla ricerca hanno collaborato anche altri ricercatori Telethon, come Luciano Merlini dell’universit? di Ferrara, Nadir Maraldi dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna e Paolo Bernardi dell’universit? di Padova

Il team italiano ha dimostrato per la prima volta che si possono migliorare i sintomi della miopatia di Bethlem e della distrofia muscolare di Ullrich controllando la cosiddetta autofagia, il processo fisiologico che rimuove dalle cellule sostanze tossiche o porzioni cellulari danneggiate. Le due malattie genetiche rare – spiega Telethon in una nota – sono dovute a un difetto nel collagene VI, la proteina responsabile dell’ancoraggio delle fibre muscolari alla loro struttura esterna di supporto (la matrice).
Nel 2008 gli stessi ricercatori avevano dimostrato che il difetto genetico causa un’alterazione dei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule: con la progressione della malattia, i mitocondri difettosi si accumulano nelle cellule muscolari e le portano alla morte. Ora gli scienziati hanno osservato che questi meccanismi sono strettamente correlati a una inefficiente autofagia sia nei topi distrofici sia nelle biopsie muscolari prelevate dai pazienti. Hanno provato inoltre che, grazie a una dieta povera di proteine o a un trattamento farmacologico ad hoc, si pu? promuovere la ‘pulizia cellulare’ nei topi distrofici quanto basta per rimuovere i mitocondri difettosi e mantenere le fibre muscolari pulite dalle sostanze di scarto. In questo modo si ottiene un miglioramento significativo della salute dei muscoli, che nel modello animale si ? tradotto anche in un aumento della forza muscolare.
“L’autofagia ? molto importante per un riciclo ‘intelligente’ delle sostanze che si accumulano nella cellula – spiega Bonaldo – Fornisce energia quando l’apporto metabolico ? insufficiente ed evita la morte cellulare quando la cellula ? affollata da materiali di scarto. Poterla controllare con la dieta o con un trattamento farmacologico mirato potrebbe rivelarsi una strategia vincente per contrastare la progressione della distrofia di Ullrich e della miopatia di Bethlem”.
Pi? in generale, ritengono gli scienziati, “il controllo dell’autofagia potrebbe contribuire a contrastare l’invecchiamento delle cellule legato all’et?: consumando una dieta povera di proteine e di aminoacidi e facendo tanto movimento, si pu? ‘dare una mano’ ad attivare questo meccanismo e a mantenere attivo il metabolismo basale del nostro corpo”, puntualizzano gli studiosi.
“E’ importante per? mantenere un giusto equilibrio”, avverte Sandri. Infatti, “se l’autofagia viene attivata in modo eccessivo la cellula ? portata di fatto ad ‘autodigerirsi’ e quindi a morire. Occorre quindi poter controllare questa attivazione: come accade generalmente in natura, il giusto equilibrio ? sempre la strategia vincente”.

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Distrofie muscolari congenite, italiani i primi dati di prevalenza

17 Mar 2011 Neurologia

Per la prima volta uno studio di popolazione ha stabilito la prevalenza delle distrofie muscolari congenite (Cmd) e dei deficit cognitivi e formulato una classificazione sulla base dei reperti clinici, di risonanza magnetica e genetici. Gli autori, Eugenio Mercuri direttore dell’Unit? operativa di Neuropsichiatria infantile al Policlinico Gemelli di Roma, e collaboratori, hanno anche dimostrato che il deficit cognitivo non ? sempre associato alla riduzione di alfa-distroglicano (alfa-Dg) o di alfa-2-laminina oppure a modificazioni strutturali del cervello. Un deficit cognitivo ? stato accertato in 92 pazienti sui 160 (58%) casi di Cmd seguiti in uno dei centri neuromuscolari italiani. Una riduzione di alfa-Dg dopo biopsia muscolare ? stata osservata in 73 pazienti sui 92 con deficit cognitivo (79%): di questi 73 pazienti, 42 erano portatori di mutazioni su geni conosciuti. Altri sei pazienti sui 92 (7%) hanno mostrato una riduzione di alfa-2-laminina alla biopsia muscolare; di questi, cinque erano portatori di mutazioni su Lama2. I restanti 13 pazienti, sui 92 casi di Cmd con deficit cognitivo, avevano una normale espressione di alfa-Dg e alfa-2-laminina a livello del muscolo.

Neurology, 2010; 75(10):898-903

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Efficace e tollerabile il vaccino cinese contro l’epatite E

Un vaccino ricombinante contro il virus dell’epatite E si ? dimostrato efficace e ben tollerato nella prevenzione della malattia. Il prodotto, denominato Hev 239 e sviluppato in Cina, ? stato oggetto di uno studio clinico randomizzato, in doppio cieco e placebo controllato di fase 3 cui hanno partecipato soggetti di et? compresa tra 16 e 65 anni suddivisi in due gruppi di trattamento: nel primo si ? proceduto alla vaccinazione con tre dosi di Hev 239 (n=56.302) e nel secondo con tre dosi di placebo (ovvero un vaccino per l’epatite B) (n=56.302) somministrate per via intramuscolare al mese 0, 1 e 6. I soggetti arruolati sono stati seguiti per 19 mesi. Tre dosi di vaccino anti-Hev sono state somministrate nell’86% dei partecipanti inseriti nel gruppo trattato con Hev 239 cos? come l’86% dei soggetti del gruppo placebo ha ricevuto tre iniezioni di placebo. I dati raccolti in questi soggetti sono stati utilizzati per l’analisi primaria di efficacia. Nel corso dei 12 mesi successivi ai 30 giorni dopo la somministrazione della terza dose, 15 partecipanti per protocollo hanno sviluppato epatite E nel gruppo placebo mentre nessun caso di malattia ? stato osservato nel gruppo avviato alla vaccinazione. L’efficacia del vaccino dopo tre dosi era pari al 100%. Gli eventi avversi attribuibili al vaccino erano poco numerosi e di lieve entit?: non ? stato registrato alcun caso di gravi eventi avversi correlati alla vaccinazione. L’indagine ? stata condotta nella provincia cinese di Jiangsu da Feng-Cai Zhu e collaboratori del Centro provinciale per il controllo e la prevenzione delle malattie di Nanjing.

Lancet, 2010; 376(9744):895-902

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Contraccezione orale per l’endometriosi, evidenze insufficienti

15 Mar 2011 Ginecologia

Il rischio di sviluppare endometriosi sembra ridursi durante l’impiego dei contraccettivi orali (Oc). Non si pu? escludere che il dato – emerso al termine di una metanalisi e una revisione sistematica eseguite da Luigi Fedele, Paolo Vercellini e collaboratori della Clinica ostetrica e ginecologica I, istituto Luigi Mangiagalli, universit? Statale di Milano – sia espressione della decisione di ritardare la valutazione chirurgica per la temporanea soppressione della sintomatologia dolorosa. Ostacoli di natura metodologica possono spiegare il riscontro di un trend suggestivo di un aumento del rischio di endometriosi dopo l’interruzione di Oc, un dato che richiede per? ulteriori chiarimenti. Allo stato attuale, concludono gli autori, l’ipotesi di raccomandare gli Oc per la prevenzione primaria dell’endometriosi non appare sufficientemente provata dai dati scientifici. I ricercatori milanesi hanno selezionato 18 studi (sei trasversali, sette caso-controllo e cinque di coorte) su un totale di 708 lavori potenzialmente rilevanti. La combinazione dei risultati derivati da tutti i report inclusi nelle analisi, indipendentemente dal disegno dello studio, ha evidenziato un rischio relativo comune pari a 0,63 per le utilizzatrici correnti di Oc, a 1,21 per le donne che avevano fatto uso di Oc in passato e a 1,19 per le donne che non hanno mai assunto Oc. Inconvenienti di carattere metodologico, come le incertezze sulla relazione temporale tra l’esposizione e l’outcome negli studi trasversali e la selezione subottimale dei controlli negli studi caso-controllo, pongono limiti alla qualit? delle evidenze attualmente disponibili.

Hum Reprod Update, 2010 Sep 10

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L’obesit? giovanile predispone alla forma grave in et? adulta

L’obesit? nell’adolescenza si associa in modo significativo a un aumento del rischio di grave obesit? incidente nell’adulto, con variazioni in base al sesso e all’etnia. Il dato emerge da un’indagine condotta dall’?quipe di Natalie S. The, del dipartimento di Nutrizione dell’university of North Carolina, a Chapel Hill. La ricerca ha coinvolto una coorte di 8.834 ragazzi, di et? compresa tra 12 e 21 anni, facenti parte dell’Us National longitudinal study of adolescent health, arruolati nel 1996 e sottoposti a follow-up in et? adulta (tra i 18 e 27 anni nel 2001-2002 e tra 24 e 33 anni nel 2007-2009). I nuovi casi di grave obesit? sviluppatisi in et? adulta sono stati calcolati tenendo conto del genere, dell’etnia e delle condizioni di peso corporeo in et? adolescenziale. L’obesit? adolescenziale era definita da un indice di massa corporea (Bmi) =/> 95? percentile del valore previsto dalle carte di crescita specifiche per et? e sesso oppure da un Bmi =/> 30 in soggetti di et? inferiore a 20 anni. L’obesit? severa dell’et? adulta comprendeva invece un Bmi =/> 40 a partire dai 20 anni d’et?. Nel 1996, 79 adolescenti (1,0%) erano fortemente obesi; di questi, 60 (70,5%) lo erano ancora in et? adulta. Nel 2009, 703 adolescenti che non erano gravemente obesi all’inizio della ricerca (7,9%) erano diventati tali in et? adulta, con i tassi pi? alti registrati nelle donne nere non ispaniche. Gli adolescenti obesi erano esposti a un rischio significativamente maggiore di sviluppare obesit? severa in et? adulta rispetto agli adolescenti normopeso o in sovrappeso (rapporto di rischio: 16,0).
JAMA, 2010; 304(18): 2042-7

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Tumori vescicali sfavorevoli e patologia prostatica benigna

Negli uomini l’et? influenza negativamente le caratteristiche cliniche dei tumori uroteliali della vescica: la percentuale di tumori sfavorevoli aumenta con l’et?. Variazioni degne di nota della differenziazione tumorale iniziano ad apparire a partire dall’et? di 50 anni e la storia naturale della neoplasia sembra differire in base alla presenza di ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne. Si nota la tendenza a presentare un carcinoma con caratteristiche sfavorevoli negli uomini cui sono state diagnosticate ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne. Queste informazioni scaturiscono da uno studio condotto da Nian-zhao Zhang, del dipartimento di Urologia dell’ospedale Qilu, presso l’universit? di Shandong a Jinan (Cina), e collaboratori, su 356 pazienti con nuova diagnosi di tumori uroteliali della vescica: in questo gruppo di tumori la percentuale di carcinomi aumentava in modo significativo con l’et? mentre sono state riscontrate differenze fra i tre gruppi d’et? nella distribuzione dei carcinomi di grado elevato. La percentuale di carcinomi di grado elevato aumentava in modo significativo insieme all’et? soprattutto nei casi di carcinoma non invasivo del comparto muscolare: le differenze risultavano significative fra il gruppo con et? =/< 50 anni e i gruppi di et? compresa tra 51 e 69 anni e =/> 70 anni. Un dato interessante ? che i pazienti con ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne avevano una diagnosi pi? frequente di tumori scarsamente differenziati rispetto ai soggetti non portatori di patologia prostatica benigna: l’analisi di regressione logistica ha confermato le associazioni fra ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne e carcinoma sfavorevole.

Urol Oncol, 2010 Sep 24

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Steatosi non alcoliche: esiste un legame tra fegato e pancreas

La steatosi epatica non alcolica (Nafld) ? correlata alla steatosi pancreatica non alcolica (Ps). Questa relazione sembra essere mediata dall’obesit?. Inoltre il grasso intralobulare pancreatico ? associato alla steatoepatite non alcolica (Nash). Sono le conclusioni di Erwin-Jan M. Geenen, del dipartimento di Gastroenterologia ed epatologia del Centro medico universitario di Amsterdam, e collaboratori, autori di uno studio condotto su materiali raccolti post-mortem di 80 pazienti, i cui dati clinici e istologici sono stati ricercati e riesaminati. Non sono stati inclusi nell’analisi soggetti con malattia epatica o pancreatica ma con storia di potus.
Per attribuire un grado istologico di malattia al fegato si ? usato il Fatty liver disease activity score, mentre la valutazione della gravit? della Ps ? stata effettuata mediante Pancreatic lipomatosis score. Per analizzare le correlazioni si ? ricorso alla regressione logistica ordinale. Il grasso pancreatico, sia interlobulare sia totale, ? apparso correlato al punteggio di attivit? Nafld nei pazienti non in trattamento con farmaci steatogeni; quando veniva applicata una correzione per l’indice di massa corporea, per?, non si poteva riscontrare alcuna correlazione. Il grasso pancreatico totale si ? dimostrato un fattore predittivo significativo per la presenza di Nafld, mentre il grasso pancreatico intralobulare, ma non quello totale, ? risultato correlato alla Nash.

Pancreas, 2010 Sep 23

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