Epatite B cronica: l’HBsAg deve calare entro 12 settimane

Il trattamento con interferone pegilato (Peg-Ifn), nei pazienti con epatite B cronica positivi all’antigene e (HBeAg), induce un significativo declino dei livelli sierici dell’antigene di superficie (HBsAg). I soggetti che non vanno incontro a riduzione di HBsAg dopo 12 settimane di terapia hanno poche probabilit? di sviluppare una risposta sostenuta e nessuna chance di perdere HBsAg e pertanto dovrebbero essere avviati all’interruzione del trattamento. Sono le conclusioni di uno studio olandese, condotto a Rotterdam da Milan J. Sonneveld e collaboratori del Centro medico dell’universit? Erasmus. Sono stati coinvolti 221 pazienti trattati con Peg-Ifn alfa-2-b, con o senza lamivudina, per 52 settimane. I livelli sierici di HBsAg sono stati misurati in campioni raccolti al basale e alle settimane 4, 8, 12, 24, 52 e 78 e il declino dell’antigene ? stato confrontato tra bracci di trattamento e tra pazienti responsivi e non responsivi alla terapia. La risposta al trattamento ? stata definita come perdita di HBeAg con HBv Dna < 10.000 copie/ml alla settimana 26 dopo la terapia (settimana 78); 43 pazienti su 221 (19%) hanno ottenuto una risposta. Dopo un anno di somministrazione di Peg-Ifn, con o senza lamivudina, si ? registrato un calo significativo di HBsAg nel siero, che ? persistito dopo il trattamento (declino: 0,9 log UI/ml alla settimana 78). I pazienti trattati con terapia di combinazione hanno avuto una diminuzione pi? pronunciata in corso di trattamento, ma successivamente si sono viste ricadute. I soggetti responder hanno manifestato un declino di HBsAg sierico ancora pi? evidente rispetto ai non responder (declino alla settimana 52: 3,3 vs 0,7 log UI/mL). I pazienti che non ottenevano un calo alla settimana 12 avevano una probabilit? del 97% di mancata risposta al follow-up post-trattamento e nessuna possibilit? di perdere HBsAg. In un sottogruppo rappresentativo di 149 soggetti, si sono ottenuti risultati simili per la predizione della risposta al trattamento a un follow-up di lungo termine (in media 3,0 anni). Hepatology, 2010 Jul 29.

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Tiroidite di Hashimoto: in Sicilia i casi sono aumentati

Tra il 1975 e il 2005 la divisione di Endocrinologia del Policlinico universitario Gaetano Martino di Messina ha rilevato un notevole aumento della frequenza annua di casi di tiroidite di Hashimoto (Ht) e, a partire dalla met? degli anni ’90, una diminuzione progressiva sia dell’et? di comparsa della malattia autoimmune sia del rapporto tra malati di sesso femminile/maschile. Sono questi i dati salienti di una rilevazione condotta da Salvatore Benvenga e collaboratori della sezione di Oncologia clinica del dipartimento di Patologia umana dell’universit? di Messina. Finora pochi studi avevano valutato i cambiamenti di frequenza della Ht, anno per anno, lungo un ampio periodo di tempo. Tra il 1988 e il 2007, l’?quipe siciliana ha effettuato 8.397 esami citologici adeguati mediante agoaspirazione con ago sottile (Fnac) su 8.397 persone inviate in ospedale per l’analisi di un nodulo tiroideo solitario o dominante (totale Fnac e persone: 8.520), con un aumento di 14 volte nel 2007 rispetto al 1988. Nel corso di questi vent’anni, i casi di Ht, tiroidite di De Quervain (Dqt) e tiroidite di Riedel (Rt) sono stati, rispettivamente, 490, 36 e due. I casi di Ht sono stati uno solo nel 1988 e 90 nel 2007, con un significativo trend temporale in salita; al contempo il trend temporale diventa significativamente discendente in relazione all’et? al momento del Fnac. All’opposto, negli stessi anni i casi di Dqt erano zero e uno, rispettivamente, senza alcun trend temporale significativo. L’aumento di frequenza di Ht ? iniziato nel 1996 (350% rispetto al 1995). Fino al 1995 c’era solo un paziente, ma nel 2005-2007 ce n’erano 22. Questi dati citologici, commentano gli autori, forniscono una conferma indipendente ai riscontri dell’Endocrinologia del Policlinico e supportano ulteriormente la conclusione che soltanto modificazioni ambientali, interagendo con fattori genetici, possano spiegare cambiamenti cos? marcati e avvenuti in un periodo di tempo relativamente breve.

Ann Endocrinol, 2010 Sep 1.

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Monoterapia antiaggregante associata a meno emorragie

Nei pazienti con fibrillazione atriale (Fa), che spesso necessitano di una terapia anticoagulante e antipiastrinica, il ricorso a una monoterapia ? preferibile, in termini di sicurezza, rispetto a trattamenti basati su due o tre farmaci. Uno studio di coorte, effettuato nel dipartimento di Cardiologia dell’Ospedale dell’universit? di Copenhagen a Gentofte (Danimarca) da Morten L. Hansen e collaboratori, ha infatti dimostrato che tutte le terapie di combinazione basate su warfarin, acido acetilsalicilico (Asa) e clopidogrel sono associate a un aumentato rischio di sanguinamento, non fatale e fatale. In particolare la terapia doppia con warfarin e clopidogrel e quella tripla, ossia basata sull’impiego di tutti e tre i farmaci, determinano un rischio emorragico tre volte maggiore rispetto alla somministrazione del warfarin da solo. I ricercatori hanno utilizzato i registri nazionali per identificare tutti i pazienti danesi sopravvissuti alla prima ospedalizzazione per Fa tra il 1? gennaio 1997 e il 31 dicembre 2006 e accertare la loro terapia post-ospedaliera con warfarin, Asa, clopidogrel o associazioni di questi farmaci; erano stati quindi impiegati modelli di rischio proporzionale di Cox per il calcolo del rischio emorragico non fatale e fatale. Su 118.606 pazienti sopravvissuti all’ospedalizzazione per Fa, 82.854 (69,9%) avevano ricevuto almeno una prescrizione di warfarin, Asa o clopidogrel dopo le dimissioni. Nel corso di un follow-up medio di 3,3 anni, 13.573 soggetti (11,4%) hanno manifestato un sanguinamento non fatale o fatale. Il tasso crudo di incidenza di emorragia era maggiore per la terapia doppia con clopidogrel e warfarin (13,9% per paziente/anno) e quella tripla (15,7% per paziente/anno). Usando la monoterapia con warfarin come riferimento, le hazard ratio (Hr) per l’endpoint combinato sono risultate pari a 0,93 per l’Asa, 1,06 per clopidogrel, 1,66 per Asa/clopidogrel, 1,83 per warfarin/Asa, 3,08 per warfarin/clopidogrel e 3,70 per warfarin/Asa/clopidogrel.

Arch Intern Med, 2010; 170(16):1433-41

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Cassazione civile – Fuoriuscita liquidi di infusione venosa

La Suprema corte ha confermato la sentenza di condanna al risarcimento del danno a carico della Azienda ospedaliera e del primario del reparto di terapia intensiva di cardiologica in favore del paziente che subiva gravi lesioni a causa della fuoriuscita di liquidi di infusione venosa dal sistema della vena basilica di destra somministrati per fronteggiare una sindrome cardiocircolatoria acuta. Si sosteneva, a difesa, che del tutto illogicamente si era attribuita una responsabilit? al personale medico ed in particolare al primario, dovendosi assolutamente escludere che il medico risponda di una attivit? meramente pratica, quale quella di controllo delle quantit? dei farmaci somministrati mediante infusione in vena, riconducibile in realt? al personale parasanitario. La Corte di cassazione civile, sottolineando come non fossero in discussione la validit? e l’efficacia della terapia prescelta, bens? le modalit? con cui essa venne eseguita, ha confermato la condanna, rilevando l’assenza di provada parte degli interessati (ospedale e primario) che l’evento di danno fosse in concreto dipeso da un avvenimento imprevisto ed imprevedibile.

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Europa unita contro l’epatite C

In Italia si stima che oltre 1 milione di persone abbia contratto l’infezione cronica da Hcv e in Europa sono 9 milioni, con un gradiente decrescente da nord a sud e da est a ovest, destinato per? a modificarsi in conseguenza degli attuali flussi migratori. ? sulla base di questi numeri emersi a Milano nel corso di un media tutorial sull’argomento, nonch? sulla maggior accuratezza nella diagnosi e prognosi e sull’efficacia e sicurezza delle cure, raggiunte in questo ultimo decennio, che un gruppo di esperti si recher? a Bruxelles il prossimo ottobre a chiedere di estendere lo screening dell’infezione C a segmenti di popolazione sempre pi? vasti. ?La diagnosi precoce ? molto importante perch? permette di curare la malattia in uno stadio iniziale e quindi con maggiori probabilit? di successo – spiega Patrick Marcellin, professore di Epatologia all’universit? di Parigi – La gravit? e lo stadio della malattia influiscono, infatti, sul risultato del trattamento e sono fattori determinanti per la selezione dei pazienti con maggiore probabilit? di risposta ai farmaci?. ?In futuro – continua Massimo Colombo, ordinario di Gastroenterologia, universit? degli Studi di Milano – la ricerca porter? all’introduzione di farmaci antivirali diretti, da associare all’attuale terapia duale a base di peginterferone e ribavirina. La prospettiva ? quella di individuare le infezioni asintomatiche in stadio precoce e bloccarle prima della loro evoluzione, con un auspicabile e realistico calo dell’incidenza dei tumori epatici?.

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Con troppi farmaci la frattura incombe

Non sono tante le ricerche volte a dimostrare se esista una correlazione tra la concomitanza di pi? terapie farmacologiche e la frattura dell’anca nei soggetti anziani. Questo studio caso-controllo, condotto da ricercatori di Taiwan, ? stato portato a termine con l’intenzione di fornire dati inconfutabili su questo problema. I dati raccolti sono stati estrapolati dal database della Taiwan bureau of national health insurance, compagnia assicurativa che garantisce una copertura assistenziale al 98% degli abitanti dell’isola. Sono stati identificati 2.328 pazienti anziani che, negli anni compresi tra il 2005 e il 2007, avevano subito una frattura dell’anca. Per l’effettuazione della ricerca ? stato considerato anche un gruppo di controllo costituito da 9.312 individui senza la lesione ossea, selezionati in modo randomizzato. Nella raccolta dei dati sono stati presi in esame le caratteristiche dei pazienti, le terapie farmacologiche e tutti i tipi di fratture d’anca che si sono registrate. Rispetto al gruppo di controllo, i pazienti fratturati erano pi? anziani, assumevano almeno cinque farmaci al giorno ed erano composti maggiormente da donne. L’odds ratio (Or) della frattura d’anca ? apparsa aumentata contestualmente al numero di farmaci usati ogni giorno e con l’et?. In particolare, l’Or di chi assumeva dieci o pi? farmaci al giorno ? risultata pari a 8,42 effettuando un confronto con chi invece prendeva 0-1 medicine al giorno. Se a questo dato aggiungiamo anche l’et?, emerge che, nei pazienti over 85 che assumevano dieci o pi? farmaci al giorno, la probabilit? di andare incontro a un danno osseo cresceva fino a 23 volte rispetto a soggetti di et? compresa tra 65 e 74 anni che seguivano una terapia con 0-1 farmaci al giorno. I ricercatori hanno concluso quindi che il rischio di frattura dell’anca negli anziani aumenta in proporzione al numero dei farmaci usati, in particolare nelle donne; inoltre, maggiore ? l’et? e pi? il pericolo “frattura” ? incombente.

Medicine, 2010; 89(5):295-9

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Emorragie mestruali gravi, metodi a confronto

Nelle donne affette da sanguinamento mestruale idiopatico severo, il rilascio di levonorgestrel attraverso un sistema intrauterino riduce la perdita ematica in modo pi? efficace e con maggiori probabilit? di successo rispetto alla somministrazione orale (Os) di medrossiprogesterone acetato. Il dato scaturisce da una multicentrica randomizzata condotta su 165 donne di almeno 18 anni d’et? e con sanguinamento mestruale severo (perdita di almeno 80 mL per ciclo), randomizzate a ricevere uno dei due tipi di terapia. I dati di efficacia e sicurezza di sei cicli di trattamento con un sistema intrauterino a rilascio di levonorgestrel, condotti in 82 pazienti, sono stati dunque confrontati con quelli basati sull’assunzione di medrossiprogesterone acetato per Os (10 mg/die per dieci giorni, partendo dal 16? di ogni ciclo) effettuati in 83 pazienti. Al termine dello studio, la riduzione assoluta della perdita mediana di sangue mestruale ? risultata significativamente maggiore nel gruppo trattato con levonorgestrel a rilascio intrauterino (-128,8 mL) rispetto al gruppo medrossiprogesterone (-17,8 mL). La percentuale di donne in cui l’esito del trattamento ? stato coronato da successo (inteso come emorragia inferiore a 80 mL e minore del 50% o pi? rispetto al basale) ? risultata significativamente pi? alta nel gruppo levonorgestrel (84,8%) rispetto a quello medrossiprogesterone (22,2%).

Obstet Gynecol, 2010; 116(3):625-32

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Poche evidenze per estrogeni nel prolasso pelvico

L’evidenza a sostegno dell’impiego di estrogeni per la prevenzione e la gestione del prolasso degli organi pelvici in post-menopausa ? tuttora limitata: sono dunque necessari rigorosi studi clinici randomizzati e con follow-up a lungo termine per valutare il ruolo di questi ormoni, soprattutto come trattamento aggiuntivo per le donne che usano il pessario vaginale, e anche prima e dopo la chirurgia di correzione del prolasso. Emergono, tuttavia, due osservazioni interessanti: l’impiego di estrogeni insieme agli esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico pu? ridurre l’incidenza di cistite post-operatoria, mentre raloxifene somministrato per via orale pu? ridurre il ricorso alla chirurgia per il prolasso nelle donne over-60, sebbene tale strategia non possa essere assunta come un’indicazione per la pratica clinica. Questo ? quanto si evince dai risultati di una revisione sistematica Cochrane degli studi controllati relativi alla prevenzione e al trattamento del prolasso pelvico mediante estrogeni o farmaci ad azione estrogenica. Gli autori, Sharif I. Ismail e collaboratori del Dipartimento di ostetricia e ginecologia del Singleton Hospital a Swansea (Regno Unito), hanno identificato tre trial e una metanalisi di altri tre studi sugli effetti avversi. Due trial includevano 148 donne con prolasso, uno studio 58 donne in postmenopausa e la metanalisi una popolazione mista (con o senza prolasso) di 6.984 donne in postmenopausa. La metanalisi e un altro piccolo studio hanno indagato l’effetto dei modulatori selettivi del recettore degli estrogeni (Serm) per il trattamento o la prevenzione dell’osteoporosi, ma hanno anche prodotto dati relativi agli effetti sul prolasso. Le terapie sperimentate comprendevano estradiolo, estrogeni coniugati equini e i Serm raloxifene e tamoxifene. Un trial di piccole dimensioni ha evidenziato una riduzione dell’incidenza di cistite nelle prime quattro settimane dopo l’intervento nelle pazienti trattate con estradiolo per tre settimane prima di essere sottoposte a correzione chirurgica del prolasso; gli autori precisano comunque che questo risultato deve essere confermato da uno studio di maggiori dimensioni. Una metanalisi sugli eventi avversi di raloxifene, utilizzato nell’ottica della prevenzione dell’osteoporosi in postmenopausa, ha mostrato una riduzione statisticamente significativa della necessit? di ricorrere alla chirurgia dopo tre anni di follow-up (Or: 0,50); tale risultato, per?, raggiungeva la significativit? statistica solo nelle pazienti di et? superiore a 60 anni (Or: 0,68) e il numero totale di donne avviate all’intervento per il prolasso era piccolo.

Cochrane Database Syst Rev, 2010; 9:CD007063

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Etanolo in utero altera la pressione nella prole

Un’intensa esposizione all’etanolo in fase prenatale riduce il numero di nefroni, probabilmente a causa di un’inibita morfogenesi delle ramificazioni ureteriche, e ci? pu? influenzare negativamente le funzioni cardiovascolare e renale in et? adulta. Questa ricerca si ? posta l’obiettivo di approfondire le conseguenze della presenza di alti dosaggi di etanolo durante la gravidanza su dotazione di nefroni, pressione arteriosa media e funzionalit? renale nella prole. Lo studio, condotto su modello animale della fase di sviluppo embrionale, prevedeva la somministrazione di etanolo o una formulazione salina, nei giorni 13,5 e 14,5. Al compimento del primo mese, chi aveva ricevuto etanolo presentava un numero di nefroni inferiore rispetto ai controlli: tale riduzione era pari al 15% nei maschi e al 10% nelle femmine. La pressione arteriosa media nel gruppo etanolo era maggiore del 10% rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, negli embrioni esposti all’etanolo il tasso di filtrazione glomerulare (Gfr) ? risultato maggiore del 20% nei maschi ma del 15% minore nelle femmine. Da notare, infine, che le cellule embrionali renali esposte all’etanolo per 48 ore in coltura hanno evidenziato una riduzione del 15% dei punti di diramazione ureterali rispetto ai controlli.

J Am Soc Nephrol, 2010 Sep 9.

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Hpv 16 e 18 meno colpepoli in et? avanzata

Uno studio multicentrico italiano, condotto dall’Hpv prevalence italian working group e guidato da Paolo Giorgi Rossi e Francesca M. Carozzi, ha valutato la distribuzione dei tipi di papillomavirus umano coinvolti nella comparsa di carcinoma cervicale invasivo e di neoplasia intraepiteliale cervicale 2/3 (Cin2/3). I ricercatori hanno osservato che la proporzione di carcinomi invasivi, causati da Hpv16/18, diminuisce con l’et? al momento della diagnosi e che il rischio assoluto di carcinoma cervicale invasivo, dovuto a Hpv non-16/18, ? molto ridotto nelle donne di et? inferiore ai 35 anni. Ci? potrebbe suggerire di innalzare l’et? in cui dovrebbe iniziare lo screening pubblico nelle donne sottoposte a vaccinazione. La ricerca si ? svolta in otto strutture ospedaliere distribuite in sei regioni dell’Italia centro-meridionale. Tra i 1.162 casi selezionati inizialmente, 722 campioni sono stati ulteriormente analizzati, ottenendo i seguenti risultati: 144 Cin2, 385 Cin3, 157 carcinomi squamosi invasivi e 36 adenocarcinomi. La proporzione di Hpv16/18 ? risultata, rispettivamente, pari a 60,8% nei casi Cin 2, 76,6% in quelli Cin 3 e 78,8% nei carcinomi invasivi. Si ? anche registrata una significativa tendenza alla riduzione, correlata all’et?, del coinvolgimento di Hpv16/18 nei cancri invasivi: da un valore pari al 92% nelle donne di et? inferiore ai 35 anni, si scende fino a 73% in quelle di et? superiore a 55 anni. La proporzione di coinfezioni si ? attestata sul 16,8% nei casi Cin2, sul 15,5% nei Cin3 e sul 15,5% nei carcinomi invasivi.

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