Retinopatia diabetica correlata a declino cognitivo

La retinopatia diabetica ? associata in modo indipendente al declino cognitivo negli uomini anziani affetti da diabete di tipo 2: ci? supporta l’ipotesi che la malattia microvascolare cerebrale possa contribuire all’osservata accelerazione del decadimento delle funzioni mentali in rapporto all’et?. ? questa la conclusione di uno studio svolto da Jie Ding e collaboratori del Centro per le scienze della salute della popolazione dell’Universit? di Edinburgo su 1.046 uomini e donne viventi nella stessa citt?, con diabete di tipo 2, di et? tra i 60 e i 75 anni. Innanzitutto i partecipanti sono stati sottoposti a fotografia retinica digitale binoculare e a una batteria di sette test sulle funzioni cognitive. Inoltre ? stato generato un punteggio di abilit? cognitiva generale (g) a partire dai componenti principali dell’analisi. La gradazione della retinopatia diabetica ? stata invece effettuata utilizzando una modificazione dell’Early treatment of diabetic retinopathy scale. Dopo aggiustamenti per l’et? e il sesso, ? stata osservata una significativa correlazione tra la crescente gravit? della retinopatia diabetica (assente, lieve e moderata-grave) e la maggior parte delle misure cognitive. In particolare, i partecipanti affetti da una retinopatia da moderata a grave mostravano peggiori performance al “g” e ai test individuali. C’era poi, sempre per “g”, una significativa interazione tra genere e retinopatia: nei maschi, cio?, le associazioni tra retinopatia e “g” (in particolare con i test di fluenza verbale, flessibilit? mentale e velocit? di processazione) persistevano anche dopo aggiustamenti di vario tipo, quali il vocabolario (per valutare il declino cognitivo), il grado di depressione, le caratteristiche socio-demografiche, i fattori di rischio cardiovascolari e la malattia macrovascolare.

Diabetes, 2010 Aug 26. [Epub ahead of print]

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Girovita e mortalit? per tutte le cause negli over-49

Nuovi dati enfatizzano l’importanza del valore del girovita (Wc) come fattore di rischio di mortalit? nella popolazione anziana, indipendentemente dall’indice di massa corporea (Bmi). Lo studio, firmato da Eric Jacobs e collaboratori sotto l’egida dell’Epidemiology research program dell’American cancer society (Atlanta), ha esaminato l’associazione tra Wc e mortalit? in 48.500 uomini e 56.343 donne, con un’et? di almeno 50 anni, inclusi nel Cancer prevention study II nutrition cohort. Dopo aggiustamento per il Bmi e altri fattori di rischio, ? emersa un’associazione tra livelli molto alti di Wc e un aumento di circa due volte del rischio di mortalit? tra gli uomini (rischio relativo = 2,02) e tra le donne (rischio relativo = 2,36). L’associazione tra Wc e mortalit? si ? confermata in tutte le categorie di Bmi. Negli uomini, un incremento di 10 centimetri di Wc ha comportato un rischio relativo pari a 1,16, 1,18 e 1,21 rispettivamente nelle categorie di Bmi normale (da 18,5 a <25), indicativo di sovrappeso (da 25 a <30) e indicativo di obesit? (> o = 30). Nelle donne, invece, i corrispondenti rischi relativi si sono attestati su 1,25, 1,15 e 1,13.

Arch Intern Med, 2010; 170(15):1293-301

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Deficit di vit. D: alte dosi per os ogni tre-quattro mesi

18 Feb 2011 Ortopedia

Per garantire all’organismo un’opportuna quantit? di vitamina D, ormone fondamentale per la salute delle ossa, soprattutto negli anziani a rischio di fratture, adesso ? sufficiente assumere ogni tre-quattro mesi una sola “superpillola”, costituita da una dose orale da 600.000 UI di colecalciferolo, invece della tradizionale dose quotidiana solitamente raccomandata in caso di carenza. La notizia giunge dalle pagine del Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism che ha pubblicato recentemente i risultati di uno studio realizzato all’Universit? “La Sapienza” di Roma dall’?quipe di Salvatore Minisola, presidente della Siommms (Societ? italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro). La ricerca ? stata effettuata su due diversi campioni: un primo gruppo composto da persone anziane gravemente carenti di vitamina D; un secondo formato da soggetti giovani con deficit determinati essenzialmente da scarsa esposizione al sole. In entrambi i casi si ? verificato (mediante prelievi ematici al 3?, 15?, 30? e 90? giorno) che ? sufficiente assumere per os la pillola ad alto dosaggio per determinare un aumento significativo, rapido e duraturo dei livelli di vitamina D, con una concomitante diminuzione dei livelli di paratormone. ?Questo metodo? spiega Elisabetta Romagnoli, dirigente medico del Policlinico Umberto I e co-autrice dello studio ?permette di soddisfare pienamente le necessit? di quanti soffrono di deficit ormonali pi? o meno importanti e di coloro i quali, per motivi vari, non si espongono abitualmente al sole?. E tutto ci? con un ulteriore, evidente vantaggio per il paziente: ?Per chiunque, a qualunque et?, ? molto pi? comodo prendere un farmaco tre o quattro volte all’anno, piuttosto che tutti i giorni?.
J Clin Endocrinol Metab, 2010 Jul 21. [Epub ahead of print]

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Sinergia anti-fratture tra statine e terapia ormonale

Nelle donne in post-menopausa, l’impiego concomitante di statine e terapia ormonale sostitutiva pu? avere un effetto protettivo sinergico contro le fratture scheletriche. Lo attesta uno studio effettuato su dati del New Mexico da Ludmila Bakhireva e collaboratori del College of Pharmacy e School of Medicine dell’University of New Mexico, Albuquerque, che ha preso in considerazione 1.001 donne con fratture incidenti di femore, avambraccio, polso e vertebre occorse nel periodo compreso tra il 2000 e il 2005 e 2607 controlli senza fratture nello stesso periodo. La terapia ormonale ? stata classificata come “corrente” (12 mesi prima dell’index date) oppure “trascorsa” o “mai praticata”. Il rischio fratturativo ? stato accertato tra chi praticava un uso continuo (rapporto di possesso del farmaco >/= 80% durante i 12 mesi prima dell’index date) e corrente (3 mesi prima dell’index date) di statine in relazione ai pazienti senza iperlipidemia che non hanno fatto uso di farmaci contro l’iperlipidemia. Il 19% dei partecipanti allo studio faceva uso corrente della terapia ormonale mentre il 9,5% e il 4,8% sono stati classificati rispettivamente come utilizzatori correnti e continui di statine. Non ? stata osservata alcuna associazione tra impiego continuo di statine e fratture tra le pazienti che non avevano mai fatto uso della terapia ormonale o tra quelle in cui ? stato accertato solo l’impiego trascorso (odds ratio 0,80). Un forte effetto protettivo ? stato invece registrato fra le donne in cura con statine e in terapia ormonale per un anno (odds ratio 0,19). Quest’ultimo risultato ? indipendente dall’et?, dall’impiego di corticosteroidi, bisfosfonati, diuretici tiazidici, calcitonina, metotrexate e farmaci antiepilettici, dalla presenza o meno di nefropatia cronica e dall’indice di comorbidit? di Charlson.

Pharmacotherapy, 2010; 30(9):879-87

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Infliximab per la colite ulcerosa, outcome e fattori predittivi

Nei pazienti con colite ulcerosa una mancata risposta primaria a infliximab si osserva in un quinto dei casi e aumenta di sette volte i rischi di colectomia e di quattro volte quelli di ospedalizzazione. L’ottimizzazione della terapia con infliximab, la colectomia e il ricovero in ospedale si richiedono rispettivamente nella met?, in un quinto e in un terzo dei pazienti. Laddove infliximab trova indicazione per colite acuta severa i rischi di ottimizzazione della terapia, colectomia e ospedalizzazione correlata alla malattia risultano triplicati. Queste le conclusioni di una multicentrica retrospettiva effettuata da Abderrahim Oussalah e collaboratori dell’Inserm e del Dipartimento di epato-gastroenterologia dell’Ospedale universitario di Nancy (Francia), su 191 pazienti con colite ulcerosa (Uc) trattati con almeno un’infusione di infliximab e seguiti per un follow-up mediano di 18 mesi. Una mancata risposta primaria ? stata notata in 42 pazienti (22%). Un valore di emoglobina 10 mg/l all’instaurazione della terapia” (Hr = 5,11), “indicazione di infliximab per colite acuta severa” (Hr = 3,40) e “trattamento pregresso con ciclosporina” (Hr = 2,53). Almeno un ricovero in ospedale si ? reso necessario per 69 pazienti (36,1%) mentre il tasso di ospedalizzazione correlato a Uc ? risultato pari a 29 per 100 anni-paziente. Di seguito, infine, i fattori predittivi della prima ospedalizzazione: “mancata risposta clinica dopo induzione con infliximab” (Hr = 3,87), “indicazione di infliximab per colite acuta severa” (Hr = 3,13), “durata della malattia al momento dell’inizio della terapia

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Una quota sostanziale di Bpco non ? causata dal fumo

15 Feb 2011 Pneumologia

In termini di salute pubblica, una quota sostanziale di casi di broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) ? attribuibile a fattori di rischio diversi dal fumo di sigaretta. Pertanto, secondo l’American thoracic society, per prevenire disabilit? e mortalit? correlate a Bpco si deve insistere sulla prevenzione e contrastare l’esposizione al fumo e ad altri fattori di rischio meno riconosciuti. La raccomandazione si fonda sul lavoro condotto da un sottocomitato ad hoc della American thoracic society environmental and occupational health assembly, focalizzato all’approfondimento delle conoscenze sulla Bpco non dovuta al fumo. Gli autori, del gruppo di studio, guidati da Mark Eisner, rilevano che la frazione della popolazione la cui malattia ? attribuibile al fumo varia dal 9,7% al 97,9% ma risulta inferiore all’80% nella maggior parte degli studi: il dato suggerisce che una quota sostanziale dell’impatto della malattia sia attribuibile a fattori di rischio diversi dal fumo. Sulla base della revisione della letteratura, effettuata dal sottocomitato, si ? concluso che specifiche sindromi genetiche e le esposizioni occupazionali siano causalmente associate allo sviluppo di Bpco. Il traffico e altri inquinanti ambientali outdoor, il fumo passivo, il fumo di biomassa e fattori dietetici risultano associati alla Bpco ma in questi casi non sono soddisfatti i criteri che stabiliscono l’esistenza di una relazione causale. L’asma cronico e la tubercolosi sono associati alla perdita irreversibile della funzione polmonare, ma non ? ancora chiaro se sussistono importanti differenze fenotipiche rispetto alla Bpco che si riscontra tipicamente in ambito clinico.

Am J Respir Crit Care Med, 2010; 182(5):693-718

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Postmenopausa, cuore a rischio con Dhea-S basso

13 Feb 2011 Cardiologia

Nelle donne in postmenopausa, portatrici di fattori di rischio coronarico e sottoposte a coronarografia per sospetta ischemia miocardica, ridotti livelli di deidroepiandrosterone solfato (Dhea-S) sono associati a una maggiore mortalit? cardiovascolare e per tutte le cause. ? il risultato di uno studio multicentrico statunitense che ha verificato i rischi connessi al declino con l’et? di uno dei maggiori pro-ormoni circolanti. Nel trial sono state coinvolte 270 donne in postmenopausa, sottoposte a coronarografia e a dosaggio degli ormoni nel sangue per sospetta ischemia, le quali sono state quindi seguite annualmente. Come outcome primario si ? considerata la mortalit? cardiovascolare; le analisi secondarie comprendevano la mortalit? per tutte le cause, gli eventi cardiovascolari non fatali (infarto miocardico, ictus e scompenso cardiaco congestizio) e la malattia coronarica ostruttiva. Analizzando i dati, si ? visto che le donne nel terzile inferiore Dhea-S avevano la pi? alta mortalit? cardiovascolare (17% tasso di mortalit? a 6 anni vs 8%) e per tutte le cause (21 vs 10%) rispetto alle donne con i livelli pi? elevati dell’ormone. L’accresciuto rischio di morte cardiovascolare (Hr: 2,55) si ? mantenuto immodificato dopo aggiustamento per molteplici fattori di rischio cardiovascolare (Hr: 2,43) ma ? divenuto non signficativo in seguito a ulteriori correzioni per la presenza o la gravit? di malattia coronarica ostruttiva (Hr: 1,99). Risultati simili sono stati ottenuti in relazione alla mortalit? per tutte le cause. Bassi livelli di Dhea-S, infine, sono apparsi solo marginalmente ma non indipendentemente associati con coronaropatia ostruttiva.

J Clin Endocrinol Metab, 2010 Aug 25. [Epub ahead of print]

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Bassi livelli di albumina: anziani pi? a rischio scompenso

12 Feb 2011 Geriatria

Ridotti livelli sierici di albumina nel soggetto anziano sono associati a un rischio aumentato di scompenso cardiaco (Hf) secondo una relazione tempo-dipendente ma in modo indipendente rispetto a fenomeni infiammatori o all’incidenza di eventi coronarici. Lo ha dimostrato uno studio condotto da Deepa N. Gopal, della Boston university, e collaboratori, coinvolgendo 2.907 persone senza Hf (et? media 73,6 /-2,9 anni, 48,0% maschi, 58,7% bianchi). Durante un periodo mediano di follow-up di 9,4 anni, l’11,8% dei partecipanti ha sviluppato un Hf. Dall’analisi dei dati ? emerso che l’albumina rappresenta un fattore predittivo tempo-dipendente di Hf, con significativit? mantenuta fino a sei anni (Hr basale per -1g/L:1,14; tasso annuo di declino Hr: 2,1%). Tale correlazione si mantiene dopo il ricorso a modelli che tengono conto degli elementi predittivi di Hf, dei marker infiammatori e degli eventi coronarici (Hr basale per -1g/L: 1,13; tasso annuo di declino Hr: 1,8%) e quando la mortalit? viene calcolata in modelli aggiustati di rischi concorrenti (Hr basale per -1g/L: 1,13; tasso annuo di declino Hr: 1,9%).L’associazione tra albumina e rischio di Hf, in modelli corretti, ? apparsa simile negli uomini (Hr per -1g/L: 1,13) e nelle donne (Hr per -1g/L: 1,12), cos? come nei soggetti bianchi o neri (Hr per -1g/L: 1,13 in entrambi i casi).

Am Heart J, 2010; 160(2):279-85

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Scelte terapeutiche per cancro ovarico

11 Feb 2011 Oncologia

Nelle pazienti con carcinoma ovarico allo stadio IIIC o IV, la chemioterapia neoadiuvante seguita da chirurgia debulking non ? inferiore all’approccio che prevede la chirurgia debulking primaria seguita da chemioterapia. La resezione completa di tutta la malattia macroscopica, quando eseguita come trattamento primario o dopo chemioterapia neoadiuvante, rimane l’obiettivo a prescindere dal momento in cui la chirurgia citoriduttiva venga praticata. Il dato emerge da uno studio clinico condotto dal gruppo guidato da Ignace Vergote degli University hospitals di Lovanio e dell’European organization for research and treatment of cancer headquarters di Bruxelles ed effettuato su 632 pazienti con carcinoma ovarico allo stadio IIIC o IV, carcinoma delle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario. La maggioranza di queste pazienti aveva una malattia estesa di stadio IIIC o IV al momento della chirurgia primaria, con lesioni metastatiche di dimensioni maggiori a 5 centimetri di diametro nel 74,5% dei casi e maggiori di 10 centimetri nel 61,6%. Le pazienti sono state trattate con la chirurgia primaria debulking seguita da un regime chemioterapico a base di platino oppure con la chemioterapia neoadiuvante, sempre a base di platino, seguita da chirurgia debulking cosiddetta di intervallo. Dopo l’intervento, i tassi di effetti avversi e la mortalit? hanno mostrato la tendenza a essere pi? elevati in seguito a chirurgia primaria rispetto all’approccio di intervallo. L’hazard ratio per il decesso all’analisi intention-to-treat ? risultata pari a 0,98 nel gruppo avviato a chemio neoadiuvante rispetto a chirurgia primaria seguita dalla chemioterapia mentre l’hazard ratio per la progressione di malattia si ? attestata sull’1,01. In entrambi i gruppi, la rimozione completa di tutta la malattia macroscopica si ? distinta come la pi? forte variabile indipendente nel predire la sopravvivenza globale. Lo studio ? targato European organization for research and treatment of cancer – Gynaecological cancer group e Ncic clinical trials group – a Gynecologic cancer intergroup collaboration.

N Engl J Med, 2010; 363:943-53

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Nuova gestazione, dopo un aborto, entro 6 mesi ? meglio

10 Feb 2011 Ginecologia

Le donne che concepiscono entro sei mesi dopo un primo aborto mostrano, durante la seconda gravidanza, i migliori outcome riproduttivi e i pi? bassi tassi di complicazioni. Sohinee Bhattacharya del Dugald Baird centre for research on women’s health, Aberdeen maternity hospital, e collaboratori, giungono a questa conclusione dopo aver analizzato retrospettivamente i dati relativi a 30.937 donne incorse in un aborto durante la loro prima gravidanza e che successivamente hanno intrapreso una seconda gravidanza. Rispetto alle donne con un intervallo intergravidico di 6-12 mesi, quelle che hanno nuovamente concepito entro sei mesi sono risultate meno esposte al rischio di un altro aborto (odds ratio aggiustata 0,66), interruzione della gravidanza (0,43) o gravidanza ectopica (0,48). Le donne con un intervallo intergravidico superiore a 24 mesi avevano invece maggiori probabilit? di incorrere in una gravidanza ectopica (1,97) o interruzione della gravidanza (2,40). Rispetto alle donne con un intervallo di 6-12 mesi, le pazienti che hanno nuovamente concepito entro sei mesi con nascita di nato vivo avevano meno probabilit? di incorrere in parto cesareo (0,90), parto pretermine (0,89) o di avere un figlio con basso peso alla nascita (0,84); risultava per? pi? probabile in questi casi il ricorso all’induzione del travaglio (1,08).

Bmj, 2010; 341:c3967

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