S? a chirurgia profilattica con mutazioni di Brca1 e 2

9 Feb 2011 Oncologia

Nelle donne portatrici di mutazioni dei geni Brca1 e Brca2, la mastectomia profilattica si associa a una riduzione del rischio di cancro mammario. Nella stessa tipologia di pazienti la salpingo-ooforectomia riduce il rischio di cancro ovarico, prima diagnosi di cancro mammario, mortalit? per tutte le cause, mortalit? specifica per tumore al seno e per cancro ovarico. Questi dati sono frutto di una multicentrica prospettica effettuata da Susan Domchek, Abramson cancer center della university of Pennsylvania school of medicine di Philadelphia, e collaboratori, su una coorte di 2.482 donne con mutazioni di Brca 1 e 2 accertate tra il 1974 e il 2008 e seguite fino alla fine del 2009 in collaborazione con 22 centri clinici e di ricerca genetica europei e nordamericani: nessun caso di tumore al seno ? stato diagnosticato tra le 247 donne avviate a mastectomia profilattica rispetto ai 98 casi registrati tra le donne non sottoposte alla procedura chirurgica. Rispetto alle donne non sottoposte a salpingo-ooforectomia a scopo profilattico, le donne avviate all’intervento hanno beneficiato di una riduzione del rischio di cancro ovarico, comprese quelle con pregresso cancro mammario (6% vs 1%, hazard ratio, HR 0,14) e quelle che in precedenza non avevano sviluppato un tumore al seno (6% vs 2%, HR 0,28). La salpingo-ooforectomia ha ridotto anche il rischio di prima diagnosi di cancro mammario nelle portatrici di mutazione di Brca1 (20% vs 14%, HR 0,63) e Brca2 (23% vs 7%, HR 0,36). Sempre rispetto alla donne non trattate con salpingo-ooforectomia profilattica, nelle pazienti sottoposte all’intervento ? emersa un’associazione con la riduzione della mortalit? per tutte le cause (10% vs 3%, HR 0,40), della mortalit? specifica per il cancro al seno (6% vs 2%, HR 0,44) e della mortalit? specifica per il cancro ovarico (3% vs 0,4%, HR 0,21).

Jama, 2010; 304(9):967-75

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Ipertensione polmonare: valore prognostico delle citochine

Nei soggetti colpiti da ipertensione polmonare (Pah) idiopatica e familiare si determina la disregolazione di un ampio spettro di mediatori infiammatori e i livelli di citochine circolanti, finora non considerate sotto questo profilo, hanno un notevole impatto nella predizione della sopravvivenza del paziente, candidandosi pertanto a utili biomarker prognostici. Lo hanno verificato Elaine Soon e collaboratori del Dipartimento di medicina dell’universit? di Cambridge (Addenbrookes’ hospital), i quali hanno evidenziato come il riscontro di alti livelli di citochine infiammatorie in questi pazienti sia indicativo di una prognosi peggiore. I ricercatori, in particolare, hanno misurato in 60 pazienti con Pah idiopatica e familiare e in 21 volontari sani (impiegati come soggetti di controllo) i livelli delle citochine sieriche: fattore di necrosi tumorale alfa, interferone gamma e interleuchina-1beta, -2, -4, -5, -6, -8, -10, -12p70 e -13. Sono stati poi raccolti ulteriori dati clinici, relativi a emodinamica, distanza percorsa in sei minuti di cammino e tempo di sopravvivenza rilevato dal campionamento all’exitus o al trapianto. I pazienti con Pah, rispetto ai soggetti sani di controllo, hanno fatto registrare livelli significativamente superiori di interleuchina-1beta, -2, -4, -6, -8, -10 e -12p70 e di fattore di necrosi tumorale alfa. L’analisi con il metodo di Kaplan-Meier, poi, ha dimostrato che i livelli di interleuchina-6, 8, 10 e 12p70 erano predittivi circa la sopravvivenza dei pazienti. Per esempio, il valore della sopravvivenza a cinque anni con livelli di interleuchina-6 >9 pg/mL risultava pari a 30%, a fronte del 63% dei pazienti con livelli

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Prudenza medica nei soggetti a rischio

Il fatto che aveva originato la controversia riguardava un andrologo al quale era stata attribuita la responsabilit? del decesso di un paziente per avere omesso di prescrivere accertamenti che avrebbero portato ad una diagnosi pi? precoce e quindi permesso la cura della malattia tumorale. La sentenza di condanna del medico al risarcimento dei danni veniva impugnata, ritenendosi non spiegata la ragione per cui il paziente fosse “a rischio”.
la Cassazione civile ha chiarito che, nel caso controverso, ?frequenti dolori, testicolo non in sede, infezioni localizzate, assenza di risposta alle cure, erano tutti sintomi che ponevano il paziente tra quelli a rischio, da controllare e monitorare con assiduit??.
In sostanza, la sentenza di condanna impugnata, ha seguito un ragionamento basato sul principio del “pi? probabile che non”, nel senso che esiste una elevata probabilit? che un soggetto a rischio si ammali e, una volta ammalatosi, sia alta la probabilit? che una diagnosi ritardata, da un lato, favorisca la degenerazione della malattia, dall’altro lato, impedisca una cura efficace.

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Frequenza cardiaca a riposo stima il rischio cardiovascolare

I metodi per la stima del rischio cardiovascolare, tra i quali il Systematic coronary risk evaluation (Score), solitamente non tengono conto dell’elevata frequenza cardiaca a riposo (Rhr), che peraltro ? un noto fattore indipendente di rischio cardiovascolare (Cv). Da Marie Therese Cooney e collaboratori del Dipartimento di cardiologia dell’Adelaide meath hospital di Tallaght (Dublino) viene allora la proposta di inglobare questo semplice parametro nei sistemi diagnostici solitamente utilizzati (basati sul rilievo della pressione arteriosa e dei lipidi ematici); se infatti il valore della Rhr non ? sempre in grado di migliorare apprezzabilmente il calcolo della mortalit? Cv, sottolineano gli autori, esso ? comunque utile in quanto pu? rendere pi? favorevole il rapporto costo-beneficio e l’accessibilit? della procedura complessiva utilizzata. L’?quipe irlandese ha ricavato dallo studio nazionale Finrisk (comprendente 14.997 uomini e 15.861 donne) due formule per la stima del rischio a dieci anni della mortalit? Cv. La prima conteneva le attuali variabili dello Score (colesterolo totale, pressione arteriosa sistolica, fumo, et?, sesso); l’aggiunta della Rhr determinava soltanto minimi miglioramenti discriminativi, basati sia sull’area sotto la curva (Auroc) sia sul net reclassification index (Nri). La seconda formula, semplificata, conteneva solo, come variabili, et?, fumo, sesso e indice di massa corporea. In questo caso, l’addizione della Rhr provocava un miglioramento statisticamente significativo e molto rilevante nella Auroc (uomini: 0,819 da 0,812; donne: 0,862 da 0,827) e nel Nri, consentendo ai ricercatori di mettere a punto un semplice grafico per il calcolo del rischio di un evento fatale Cvs.

Eur Heart J, 2010 Jul 23. [Epub ahead of print]

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Clopidogrel e Asa: efficacia non cambia con dosi

L’acido acetilsalicilico (Asa) e il clopidogrel sono antiaggreganti ampiamente utilizzati nei pazienti con sindrome coronarica acuta e in quelli sottoposti a intervento coronarico percutaneo (Pci), ma non esistono linee guida circa i dosaggi. Uno studio multicentrico, condotto da ricercatori appartenenti al gruppo Current-Oasis7 (Clopidogrel and aspirin optimal dose usage to reduce recurrent events – Seventh organization to assess strategies in ischemic syndromes), ora rivela che non esistono differenze significative tra alti e bassi dosaggi, per entrambi gli agenti, in relazione all’outcome primario costituito da morte cardiovascolare, infarto miocardico o ictus a trenta giorni. Gli studiosi hanno assegnato in modo randomizzato, secondo un disegno fattoriale 2×2, 25.086 pazienti con sindrome coronarica acuta e ricoverati per l’applicazione di una strategia invasiva, a ricevere una dose di clopidogrel doppia (carico al giorno 1 da 600 mg, seguito da 150 mg/die per sei giorni e 75 mg/die in seguito) o standard (carico da 300 mg e 75 mg/die successivamente) oppure Asa a dosi elevate (da 300 a 325 mg/die) o ridotte (da 75 a 100 mg/die). L’outcome primario si ? verificato nel 4,2% dei pazienti che ricevevano la doppia dose di clopidogrel rispetto al 4,4% di quelli trattati con dose standard (Hr: 0,94); un sanguinamento maggiore, inoltre, si ? rilevato nel 2,5% dei soggetti con somministrazione di doppia dose di clopidogrel, contro il 2,0% dei pazienti con dosaggio standard (Hr: 1,24). Da segnalare che la dose doppia di clopidogrel, nei 17.263 pazienti sottoposti a Pci, ? apparsa associata a una significativa riduzione dell’outcome secondario costituito dalla trombosi dello stent (1,6% vs 2,3%; Hr: 0,68). Non si sono infine registrate differenze significative tra Asa ad alte e basse dosi in relazione all’outcome primario (4,2% vs 4,4%; Hr: 0,97) o al sanguinamento maggiore (2,3% vs 2,3%; Hr: 0,99).

N Engl J Med, 2010; 363:930-942

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Dronedarone in prima linea contro fibrillazione atriale

Tra le novit? introdotte dalle nuove linee guida dell’European society of cardiology (Esc), presentate al recente Congresso di Stoccolma, per il trattamento della fibrillazione atriale (Fa) c’? la raccomandazione all’uso di dronedarone, come opzione terapeutica di prima scelta per il mantenimento del ritmo sinusale in tutti i pazienti con forma parossistica e persistente del disturbo, fatta eccezione dei pazienti con scompenso cardiaco grave. Il farmaco, presentato a Milano in occasione della conferenza stampa di lancio, prodotto da Sanofi-aventis (Multaq) e gi? approvato dall’European medicines agency (Ema) ? stato reso rimborsabile dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) in tutte le indicazioni autorizzate. Negli studi di efficacia, dronedarone ha dimostrato di ridurre del 24% il rischio di ospedalizzazione per evento cardiovascolare o di morte per ogni causa nei pazienti con fibrillazione atriale. Inoltre, un’analisi post-hoc dello stesso studio, dimostra che il trattamento ? in grado di ridurre del 34% il rischio di ictus: ?Nessun antiaritmico finora aveva dimostrato una riduzione del rischio di ictus in questi pazienti? osserva Antonio Raviele, direttore del Dipartimento cardiovascolare dell’Ospedale Dell’Angelo di Mestre ?per questo motivo, dronedarone si propone come valida alternativa nei soggetti in cui gli altri farmaci antiaritmici hanno fallito o non sono tollerati?. Il profilo di sicurezza ? stato valutato in studi comparativi, in particolare con amiodarone, in cui dronedarone ha dimostrato una minor frequenza di danno d’organo (eventi tiroidei, epatici, polmonari, neurologici, oculari) con conseguente minore frequenza di sospensione prematura del trattamento.

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Bene la sorveglianza attiva prima della prostatectomia

1 Feb 2011 Urologia

Nei pazienti con cancro prostatico a basso rischio la prostatectomia radicale (Rp), eseguita dopo un periodo di sorveglianza attiva, non si associa ad outcome patologici avversi quando il confronto viene effettuato con la chirurgia effettuata entro sei mesi dalla diagnosi. L’indagine, firmata da Marc Dall’Era e collaboratori del Dipartimento di urologia dell’universit? della California a Davis, ha arruolato 33 uomini con segni di cancro prostatico inizialmente a basso rischio avviati a Rp dopo un periodo mediano di 18 mesi di sorveglianza attiva, mentre 278 pazienti con le stesse caratteristiche di malattia sono stati sottoposti immediatamente a chirurgia (prima di sei mesi dalla diagnosi). Nel gruppo in sorveglianza attiva i tassi dell’outcome primario, ovvero l’upgrading del Gleason score a >/=7, la categoria patologica pT3 e margini chirurgici positivi, non ? risultato differire in modo significativo rispetto al gruppo trattato con Rp immediata. Dopo analisi multivariata dei pazienti a basso rischio, aggiustata con le caratteristiche patologiche al basale, il gruppo in sorveglianza attiva seguita da Rp non ? risultato associato – rispetto alla Rp immediata – con l’upgrading dello score di Gleason (odds ratio, Or 0,35), la malattia non limitata all’organo (Or 1,67) o i margini chirurgici positivi dopo prostatectomia (Or 0,95).

BJU Int, 2010 Aug 26. [Epub ahead of print]

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Hcv, interferone riduce rischio di epatocarcinoma

La terapia con interferone (Ifn) ? efficace nel ridurre il rischio complessivo di carcinoma epatocellulare (Hcc) nei pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C (Hcv); se la somministrazione in questa sottopopolazione di soggetti con epatite virale mostra un’efficacia promettente, in altre per? occorrono ulteriori verifiche. ? la conclusione di una metanalisi effettuata da Chuan-Hai Zhang, dell’universit? medica di Tianjin, e collaboratori del Centro per lo studio del cancro epatico dell’universit? medica di Anhui (Cina), con lo scopo di valutare gli effetti dell’Ifn sul rischio di Hcc nei pazienti con epatite C o B, sulla progressione locale del tumore e sulla sopravvivenza nei soggetti con Hcc avanzato. Sono stati selezionati 11 trial randomizzati controllati, basati sul confronto tra Ifn e trattamenti non antivirali, per un totale di 1.772 pazienti. ? emerso, come detto, che l’Ifn riduce in modo significativo l’incidenza globale di Hcc nei soggetti Hcv positivi e, in modo pi? marcato, in quelli con cirrosi Hcv-correlata. All’opposto, il mantenimento di una terapia con Ifn non diminuisce l’incidenza di Hcc nei soggetti non responsivi alla terapia antivirale iniziale; inoltre, non modifica i tassi di incidenza della neoplasia nei soggetti Hbv positivi, nonostante un trend favorevole. Infine, l’Ifn non sembra in grado di migliorare significativamente la sopravvivenza a un anno dei pazienti con Hcc avanzato. L’analisi relativa alla progressione locale della malattia non ? stata possibile per mancanza di uniformit? dei metodi descrittivi nei trial.

Int J Cancer, 2010 Nov 12. [Epub ahead of print]

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Crohn e colite ulcerosa: la scelta dei farmaci biologici

La terapia biologica ha rivoluzionato il trattamento delle malattie infiammatorie intestinali, ma non tutti i pazienti la richiedono. Ci sono alcuni aspetti che vanno considerati con attenzione: quando iniziarla, quando sospenderla, quale farmaco preferire e come predire la risposta. La selezione dei candidati dipende dalle caratteristiche cliniche, dalle precedenti risposte ad altre terapie mediche e dalle comorbilit?. Al riguardo, durante il recente congresso mondiale di gastroenterologia, sono state fornite risposte dal London position statement, sotto la guida di Geert R. D’Haens, del dipartimento di Gastroenterologia del Centro medico accademico di Amsterdam. Il farmaco che conta il maggior numero di dati clinici ? infliximab, ma anche altre molecole (adalimumab, certolizumab pegol e natalizumab) sembrano in grado di garantire benefici sovrapponibili. Un morbo di Crohn refrattario agli steroidi, steroide-dipendente o con fistole complicate sono indicazioni per iniziare la terapia biologica dopo il drenaggio chirurgico di ogni tipo di sepsi. Per il morbo di Cronh con fistole, l’efficacia di infliximab nell’indurne la chiusura ? quella meglio documentata. I pazienti che rispondono alla terapia di induzione traggono i maggiori benefici da un nuovo trattamento sistematico. La combinazione di infliximab e azatioprina ? pi? efficace della monoterapia per indurre remissione e guarigione mucosale fino a un anno in pazienti na?ve nei confronti di entrambi i farmaci. Infliximab ? efficace anche nella colite ulcerosa refrattaria al trattamento, moderata o grave. In pazienti che vanno incontro alla diminuzione o alla perdita di risposta alla terapia con i farmaci anti-Tnf (fattore di necrosi tumorale) si pu? modificare il dosaggio del medesimo farmaco oppure passare a un’altra molecola. I dati a disposizione, infine, non sono sufficienti per dare raccomandazioni su quando ? meglio interrompere la terapia anti-Tnf.

Am J Gastroenterol, 2010 Nov 2. [Epub ahead of print]

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Bpco: microalbuminuria correlata all’ipossiemia

29 Gen 2011 Pneumologia

La microalbuminuria (Mab), marker di disfunzione endovascolare ed elemento predittivo di eventi cardiovascolari e morte per tutte le cause, ? frequente nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) e risulta associata all’ipossiemia in modo indipendente da altri fattori di rischio cardiovascolare. Il dato emerge da una ricerca condotta da Ciro Casanova, docente all’universidad de La Laguna di Tenerife (Spagna), e collaboratori, su 129 pazienti affetti da Bpco e 51 fumatori con normale spirometria e senza malattie cardiovascolari note. In questi soggetti si sono misurati vari parametri tra cui il tasso di albumina urinaria (rapporto albumina-creatinina), la storia di abitudine al fumo, la pressione arteriosa, lo scambio gassoso. La Mab ? risultata pi? elevata nei soggetti con Bpco rispetto ai controlli fumatori. La differenza ? rimasta significativa anche dopo l’applicazione della soglia patologica di riferimento. Nei soggetti broncopneumopatici, inoltre, si ? registrata una correlazione negativa tra la pressione parziale di ossigeno nel sangue arterioso (PaO2) e la Mab. Facendo uso dell’analisi multivariata, la Mab ? apparsa associata solo alla PaO2 e alla pressione arteriosa sistolica.

Am J Respir Crit Care Med, 2010; 182(8):1004-10

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