Sclerosi multipla, parere positivo Chmp su nuovo farmaco

Il Comitato per i prodotti medicinali per uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) ha dato il proprio consenso all’approvazione alemtuzumab per il trattamento dei pazienti adulti con sclerosi multipla recidivante remittente (Rrms) con malattia attiva definita clinicamente o attraverso le immagini di risonanza magnetica. Inoltre, sempre nell’ambito della terapia per la sclerosi multipla, ha espresso parere positivo sulla designazione di Nuova sostanza attiva (Nas) per teriflunomide, che segue quello espresso all’inizio dell’anno con cui raccomandava l’approvazione per il trattamento dei pazienti adulti con forma recidivante remittente. Una decisione definitiva della Commissione Europea sull’autorizzazione all’immissione in commercio in Europa delle due molecole, è attesa nei prossimi mesi. A darne notizia è una nota di Genzyme, società del Gruppo Sanofi, in cui si sottolinea che il parere positivo su alemtuzumab «si basa sui dati raccolti negli studi clinici Care-Ms I e Care-Ms II, nei quali il prodotto ha mostrato di essere significativamente più efficace rispetto a interferone beta-1a nel ridurre i tassi di recidiva. Nello studio Care-Ms II» aggiunge la nota «anche l’accumulo di disabilità è risultato significativamente rallentato nei pazienti trattati con alemtuzumab rispetto ai pazienti trattati con interferone beta-1a e, dato estremamente importante, i pazienti trattati con alemtuzumab hanno sperimentato più frequentemente  un miglioramento della disabilità preesistente». Secondo Alastair Compston, direttore del Dipartimento di neuroscienze cliniche dell’Università di Cambridge, la superiorità di alemtuzumab «mantenuta nel tempo nonostante la bassa frequenza delle somministrazioni, rappresenta un approccio al trattamento che promette di riuscire a modificare il futuro di molte persone che vivono con Sm recidivante remittente».

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Allattamento al seno aumenta successo nella vita

L’allattamento al seno aumenta le probabilità di salire la scala sociale e diminuisce quelle di scenderla. L’effetto positivo sulla mobilità sociale è mediato in parte da meccanismi neurologici e di stress. Ecco le interessanti conclusioni di un ampio studio pubblicato sugli Archives of Disease in Childhood, i cui risultati si basano sui cambiamenti nella classe sociale osservati in 17.419 individui nati nel 1958 e 16.771 soggetti nati nel 1970. Spiega Amanda Sacker, ricercatrice al Department of Epidemiology and Public Health, University College di Londra e primo autore dell’articolo: «Grazie ai suoi costituenti e al contatto stretto tra madre e figlio, l’allattamento materno fornisce molti vantaggi al bambino in via di sviluppo. Tra i composti che offrono vantaggi evolutivi ci sono gli acidi grassi polinsaturi, le immunoglobuline e i fattori di crescita». D’altro canto, il particolare contatto pelle a pelle tra madre e neonato durante l’atto dell’allattamento al seno potrebbe influenzare lo sviluppo della risposta del bambino allo stress attraverso cambiamenti nel funzionamento dell’asse ipotalamo-ipofisi. «La strategia del governo britannico sulla mobilità sociale intergenerazionale mira a garantire che tutti abbiano la possibilità di ottenere un lavoro migliore dei loro genitori, e se l’allattamento al seno migliora lo sviluppo cognitivo durante l’infanzia, allora è il caso di chiedersi se allattare al seno ha un impatto sulla mobilità sociale» riprende la ricercatrice. Per chiarire la questione i ricercatori hanno chiesto alle mamme dei due gruppi di persone se avevano allattato al seno, confrontando successivamente la classe sociale dei figli, ormai adulti, che partecipavano allo studio con quella dei padri secondo una scala a quattro punti: lavoro non qualificato, manuale, semi-qualificati, professionista. Dai risultati emerge che rispetto ai bambini nutriti con latte vaccino, quelli allattati al seno avevano maggiori probabilità di salire la scala sociale sia nel 1958 sia nel 1970. «I dati suggeriscono che l’allattamento al seno offre ai bambini benefici non solo fisici ma anche cognitivi e comportamentali che persistono in età adulta» conclude Sacker.

Arch Dis Child 2013

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Nhs: tamoxifene alle donne più a rischio di cancro al seno

8 Lug 2013 Oncologia

Primo in Europa il Nhs britannico ha deciso per la somministrazione di farmaci oncologici in via preventiva a donne con elevato rischio di tumore mammario. Il via libera arriva dopo che il Nice ha raccomandato la terapia con tamoxifene o raloxifene per 5 anni, nelle donne sane dopo i 35 anni, a rischio moderato (pari a 1 su 6) o elevato (3 su 10), in base alla storia familiare o alla presenza dei geni Brca1 and Brca2, di tumore al seno. La terapia farmacologica può ridurre il rischio del 40% e il beneficio si mantiene anche dopo la fine del trattamento che, tuttavia, non è esente da effetti collaterali come vampate e coaguli sanguigni. Le linee guida del Nice sono vincolanti per Inghilterra e Galles, il che significa che circa 500.000 donne potrebbero avere un’alternativa alla mastectomia preventiva. Probabilmente l’esempio sarà presto seguito dall’Irlanda del nord mentre la Scozia, che già prevede il trattamento di 5 anni per le donne con 2 o più familiari che abbiano avuto un cancro al seno, ha dichiarato che autorizzerà l’offerta del tamoxifene nelle donne a rischio e offrirà il test genetico alle donne con un 10% di probabilità di essere portatrici di un gene difettoso. Il rischio di ammalarsi di tumore al seno normalmente è del 12,5% (1 su 8), raddoppia se ci sono casi in familiari prossimi (madre o sorella), aumenta ulteriormente se più membri della stessa famiglia hanno avuto un particolare tipo di cancro o se una parente si è ammalata in giovane età. I geni ereditari Brca1 e Brca2 incrementano il rischio individuale di quasi il 90%, ma la decisione finale se intraprendere la terapia spetta comunque alla donna, pesati pro e contro con il proprio medico.

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Aifa: nota importante su Avastin (bevacizumab)

L’agenzia italiana del farmaco ha diramato una nota informativa importante, concordata con le autorità regolatorie europeee sull’uso di bevacizumab (Avastin di F. Hoffmann-La Roche Ltd). In sintesi: In pazienti trattati con Avastin, sia nell’ambito di studi clinici, sia nel contesto di valutazioni post-marketing, sono stati segnalati casi di fascite necrotizzante, anche letali. In caso di diagnosi di fascite necrotizzante, si raccomanda di interrompere la somministrazione di Avastine di istituire tempestivamente una terapia adeguata. I casi di fascite necrotizzante, segnalati nell’ambito di studi clinici condotti da Roche e all’interno del database globale di sicurezza di quest’ultima, si sono verificati in pazienti affetti da diverse forme tumorali. In merito alle condizioni mediche correlate, la maggior parte dei pazienti ha manifestato perforazioni gastrointestinali, formazione di fistole o complicanze nella guarigione delle ferite antecedenti lo sviluppo di fascite necrotizzante. Alcuni di questi pazienti sono deceduti a seguito di complicanze della fascite necrotizzante. Sulla base delle evidenze è stato aggiornato il Riassunto delle caratteristiche del prodotto del medicinale in questione sia nella sezione Avvertenze speciali e precauzioni di impiego che in quella Effetti indesiderati.

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Screening benefico nel cancro del colon

1 Lug 2013 Oncologia

Nei pazienti con tumore del colon scoperto dalla colonscopia di screening, non solo la neoplasia è in genere meno avanzata, ma ha una prognosi migliore nonostante lo stadio di presentazione. Ecco le confortanti conclusioni di uno studio svolto dai ricercatori della Divisione di chirurgia generale e gastrointestinale del Massachusetts General Hospital di Boston e pubblicata su Jama Surgery. «Fin dalla loro introduzione nel 2000, le linee guida dei National Institutes of Health sulla colonscopia di screening hanno ridotto i tassi complessivi di tumore del colon-retto negli Stati Uniti» osserva David Berger, professore associato di chirurgia alla Harvard Medical School e coordinatore dello studio. Dato che la grande maggioranza delle neoplasie colorettali derivano da adenomi generalmente asintomatici, l’endoscopia preventiva non solo rimuove precocemente le lesioni benigne prevenendo la progressione verso la malignità, ma può anche identificare tempestivamente i pazienti asintomatici con malattia in stadio iniziale, aumentando la sopravvivenza. Così i ricercatori di Boston hanno valutato l’effetto dello screening endoscopico sui pazienti con tumore del colon trattato chirurgicamente, rivedendo le differenze di stadiazione, l’intervallo libero da malattia, il rischio di recidiva e la sopravvivenza. «Abbiamo anche verificato se le diagnosi di screening avessero una prognosi migliore indipendente dallo stadio del tumore» aggiunge il chirurgo. Allo studio hanno partecipato 1.071 pazienti con cancro del colon, di cui 217 diagnosticati con lo screening. E dai dati raccolti emerge che i soggetti non sottoposti a colonscopia preventiva avevano tumori più invasivi, una maggiore diffusione linfonodale, una frequenza più alta di malattia metastatica, una mortalità più elevata, e maggiori probabilità di recidive. «In particolare, il tasso di mortalità e la durata della sopravvivenza erano migliori nei pazienti diagnosticati con lo screening» sottolinea Berger. E conclude: «La colonscopia di screening può dunque svolgere un ruolo importante nel prolungare la longevità, migliorare la qualità della vita, e ridurre i costi sanitari attraverso la diagnosi precoce».

Jama Surg. 2013:1-7

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Aifa approva anticoagulante orale di nuova generazione

Tre anni fa l’Fda, due anni fa l’Ema, e ora anche l’Aifa ha approvato dabigatran exetilato, concedendo la rimborsabilità all’anticoagulante orale di nuova generazione per la prevenzione dell’ictus cerebrale da fibrillazione atriale non valvolare. L’annuncio, ieri, in un incontro a Milano. «Per questa indicazione da tempo si dispone di una terapia molto efficace, il warfarin, che però è difficile da gestire: va infatti assunto in dosi variabili da aggiustare tramite frequenti prelievi di sangue per il test dell’Inr; inoltre il livello della coagulazione varia per l’interferenza di altri farmaci o alimenti» ricorda Giuseppe Di Pasquale, presidente dell’Italian stroke forum. «La conseguenza è che, in Italia, solo il 55% dei soggetti da trattare è effettivamente trattato e che il paziente si trova nel corretto range terapeutico solo nel 55% del tempo». Dunque c’era attesa per un’alternativa al warfarin. «Con lo studio Rely, condotto su 18mila pazienti trattati in 3 bracci con warfarin o dabigatran ai dosaggi 110 mg/bid o 150/bid, si è dimostrato che dabigatran, rispetto a warfarin, riduceva del 35% gli ictus e le embolie sistemiche, del 60% le emorragie cerebrali e del 10% la mortalità. A 4 anni di trattamento, nel trial Relyable, il favorevole profilo di efficacia e sicurezza è stato confermato». «Oltre che sui dati di letteratura» sottolinea Francesco Romeo, presidente della Federazione italiana di cardiologia (Fic) «possiamo contare sull’esperienza clinica consolidata nella pratica clinica quotidiana da oltre 2 anni dai nostri colleghi in più di 80 Paesi al mondo». «La disponibilità di due dosaggi» evidenzia Mauro Campanini, presidente eletto del Fadoi (Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti) «consente di usare quello minore quando vi sia un rischio emorragico più elevato», per esempio in pazienti anziani (>80 anni) con ridotta funzionalità renale. Importanti, per Campanini, anche «i benefici fisici e psicologici derivanti dal non dover più sottoporsi a monitoraggi frequenti di laboratorio». Poche le controindicazioni: insufficienza renale grave e interazione con antiretrovirali e antifungini. «Adesso» conclude Roberto Sterzi, del Comitato tecnico-scientifico di Alice (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) «è fondamentale che ai pazienti in tutte le Regioni italiane sia garantito un accesso alla cura».

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Pancreas nel midollo, speranza per i diabetici. Bene il degludec

La ricerca condotta dal San Raffaele di Milano, che ha ricostruito nel midollo osseo una parte della funzione del pancreas rappresenta ‘una speranza reale per i malati di diabete’. Lo afferma Stefano Del Prato, presidente della Societa’ Italiana di Diabetologia.

”La strada scelta dai ricercatori milanesi e’ altamente promettente, perche’ i test sono stati condotti sull’uomo – spiega Del Prato – i pazienti trattati erano ‘particolari’, perche’ avevano dovuto subire l’asportazione del pancreas, ma questo studio mostra una strada nuova che si puo’ seguire, e credo proprio che al San raffaele ci stiano gia’ pensando”.  La via per una applicazione piu’ ampia, non ristretta soltanto ai pazienti che hanno dovuto subire l’asportazione del pancreas, e’ ancora lunga, sottolinea Del Prato: ”I pazienti trattati hanno potuto fare un trapianto con le proprie cellule pancreatiche – spiega – per intervenire in chi non le ha piu’ bisogna utilizzare invece quelle di donatori. In questo caso pero’ c’e’ il problema del rigetto, e bisognera’ valutare se l’innesto nel midollo osseo e’ piu’ o meno pericoloso da questo punto di vista”.  Per il momento e’ il trapianto delle isole pancreatiche l’opzione piu’ efficace per i pazienti diabetici, nonostante le ricerche in tutto il mondo stiano verificando diverse altre possibilita’ per sostituire il pancreas: ”Servono pero’ piu’ donazioni, con organi validi da cui sia possibile eestrarre un numero sufficiente di cellule – spiega Del Prato – tra le altre alternative a cui stanno lavorando i ricercatori di tutto il mondo direi che le staminali sono molto indietro, forse e’ piu’ vicino un pancreas sintetico in grado di svolgere almeno alcune funzioni. Se poi si trovera’ un modo per proteggere di piu’ le isole una volta trapiantate il metodo dei ricercatori milanesi potrebbe avere una grande applicazione”.

Ottimi risultati arrivano dalla nuova insulina degludec,che ha ricevuto l’approvazione dell’agenzia europea del farmaco EMA il 21 gennaio 2013. Il farmaco permette una significativa riduzione dell’incidenza di ipoglicemia, sia nei pazienti con diabete di tipo 1 che di tipo 2. La conferma arriva dai  risultati di una metanalisi sugli studi clinici di fase 3 appartenenti al programma BEGIN® di sviluppo clinico, presentati al XIX congresso nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi AMD, che si è svolto settimana scorsa a Roma.  “Il verificarsi di episodi di ipoglicemia ha un impatto negativo su molti aspetti della vita quotidiana, quali l’attività lavorativa, la vita sociale, la guida, la pratica sportiva, le attività del tempo libero, il sonno. Diversi studi hanno documentato che le persone che hanno avuto esperienza di ipoglicemie, specie se gravi, tendono a diminuire l’adesione alla terapia e agli stili di vita raccomandati, riportando una peggiore qualità di vita e maggiori preoccupazioni legate alla malattia”, ha detto Antonio Nicolucci, epidemiologo del Consorzio Mario Negri Sud, S. Maria Imbaro (CH). “Le ipoglicemie rappresentano inoltre una importante causa di costi diretti ed indiretti. Nel corso di un anno infatti, fino a un terzo delle persone con diabete di tipo 1 di lunga durata e un quinto di quelli con diabete di tipo 2 in terapia insulinica presentano almeno un episodio di ipoglicemia severa, che spesso richiede l’ospedalizzazione. Ai costi diretti vanno poi aggiunti i costi indiretti, legati alla perdita di produttività ed assenza dal posto di lavoro”. Gli studi inclusi nella metanalisi hanno coinvolto complessivamente 4.330 persone (di cui 2.899 trattati con la nuova insulina degludec e 1.431 con insulina glargine). Nel dettaglio i risultati dimostrano che: nelle persone con diabete tipo 2, il rischio di ipoglicemia scende del 17% [RR:0.83[0.74;0.94](95%) (CI)], e ben del 32% per quelle notturne [RR:0.68[0.57;0.82](95%) (CI)]; nel gruppo trattato con degludec; nel diabete tipo 1 la riduzione delle notturne, nel periodo di mantenimento è del 25% [(RR:0.75[0.60;0.94](95%)(CI)]. “Le ipoglicemie sono il principale effetto collaterale del trattamento con insulina”, ha spiegato Simon Heller, University of Sheffield, UK. “Le ipoglicemie aumentano la morbidità a forse la mortalità nelle persone più fragili come gli anziani, chi ha diabete tipo 1 e diabete tipo 2 di lunga durata. Oggi l’incidenza di ipoglicemie sintomatiche e notturne è diminuita grazie all’introduzione di insuline innovative, ma le ipoglicemie continuano a rappresentare una barriera all’ottimizzazione della terapia insulinica e spesso, direttamente o indirettamente, costituiscono un rischio per la salute dei pazienti”. “Le caratteristiche della formulazione di un’insulina basale ideale dovrebbero essere quelle di rilasciare una concentrazione di insulina costante, stabile, priva di picchi e continua per almeno 24 ore, con un rischio ridotto di ipoglicemia. Sia nei pazienti con diabete tipo 1 che in quelli con diabete tipo 2 è molto importante disporre di una insulina con queste caratteristiche”, ha commentato Edoardo Mannucci, AOUC Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze. “Degludec è un innovativo analogo basale dell’insulina caratterizzato da durata d’azione superiore alle 24 ore e con un effetto metabolico distribuito uniformemente nel corso della giornata. La sua ridotta variabilità di assorbimento assicura un profilo glicemico più stabile con un’importante riduzione del rischio di ipoglicemia rispetto all’insulina glargine. A parità di riduzione di emoglobina glicata, negli studi BEGIN®, degludec ha permesso una riduzione significativamente maggiore della glicemia a digiuno rispetto a glargine ed era associato ad una minore tasso di ipoglicemia notturna sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2. La disponibilità di questa nuova insulina potrebbe rappresentare un passo in avanti per la terapia insulinica”, ha concluso Mannucci. 

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Le sigarette materne generano ipoacusia nei figli

L’esposizione prenatale al fumo può danneggiare il sistema uditivo degli adolescenti. Parola di Michael Weitzman, pediatra della New York University School of Medicine e primo autore di un articolo pubblicato suJama Otolaryngology Head Neck Surgery. «Negli Stati Uniti le gestanti fumatrici sono il 12% di tutte le gravidanze, anche se l’esposizione prenatale al fumo provoca complicanze come il distacco di placenta, la placenta previa e la rottura prematura delle membrane» dice il pediatra. Ma non basta: circa il 30% dei bambini piccoli per l’età gestazionale, il 10% dei neonati prematuri e il 5% dei decessi infantili sono attribuiti al fumo materno. E ancora: nei bambini esposti al fumo in utero il rischio di sindrome da morte improvvisa del neonato è da 2 a 3 volte più elevato e il rischio di asma infantile 1 o 2 volte maggiore che nei nati da non fumatrici. Le sigarette in gravidanza favoriscono l’obesità infantile e le sue complicanze metaboliche, così come i deficit cognitivi e comportamentali, la diminuzione del Qi e le difficoltà di apprendimento. «Recenti studi hanno anche suggerito che l’esposizione al fumo materno aumenta il rischio di ipoacusia nei figli» aggiunge Weitzman, spiegando che la causa potrebbe essere un danno precoce da fumo all’orecchio interno. Così i ricercatori hanno misurato l’udito neurosensoriale (SNHL) in 964 adolescenti tra 12 e 15 anni partecipanti al National Health and Nutrition Examination Survey 2005-2006. «L’esposizione al fumo in utero, riscontrata nel 16% dei ragazzi, alza la soglia uditiva ai toni puri e triplica le probabilità di una perdita di udito unilaterale alle basse frequenze» dice il pediatra, sottolineando che l’entità del  danno sembra essere modesta, anche se un rischio di ipoacusia monolaterale tre volte più elevato negli adolescenti esposti al fumo in utero resta lo stesso preoccupante. «Servono ulteriori studi per verificare se l’ipoacusia dipende da un aumento dose-dipendente del fumo in utero, per identificarne i meccanismi e per chiarirne gli effetti sul rendimento scolastico, sociale e cognitivo di bambini e adolescenti» conclude il pediatra.

Jama Otolaryngol Head Neck Surg. Published online June 20, 2013

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E-cig, retromarcia Ue: non è farmaco e non sarà in farmacia

Cambio di direzione dei ministri della salute Ue sulla sigaretta elettronica. In principio, il Consiglio dei ministri della Salute europei riunito a Lussemburgo lo scorso venerdì si era detto favorevole alla vendita in farmacia. A seguito degli interventi di Italia e Francia, però,contrari alla commercializzazione delle e-cig nelle farmacie, alla fine si è deciso che la sigaretta elettronica non è un farmaco e non sarà venduta in farmacia. «L’idea prevalente con cui i ministri sono arrivati all’incontro» chiarisce il ministro della Salute Beatrice Lorenzin «era di considerare le sigarette elettroniche contenenti più di 1 mg di nicotina, pari a un medicinale, ma l’intervento dei due ministri ha fatto riflettere sul fatto che stando ai pareri del Consiglio superiore della sanità e dell’analogo francese, non ci sono evidenze scientifiche per poterlo affermare. Le istanze dei due ministri sono state quindi accolte e i colleghi europei hanno rimandato la discussione e si sono ripromessi di riparlarne in sede di Parlamento europeo». È attesa nelle prossime settimane, ha confermato il ministro a margine dell’incontro europeo, l’ordinanza con la quale si recepisce il parere del Consiglio superiore di sanità sia per le restrizioni d’uso sia per la parte in cui afferma che le e-cig non possono essere considerate un “farmaco per funzione”, escludendo di fatto la possibilità di venderle esclusivamente in farmacia come gli altri sostitutivi nicotinici, come i cerotti e chewing-gum.

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Sla, positivi i primi test di trapianto di staminali cerebrali

Positivi i primi test di trapianto di cellule staminali cerebrali su sei pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Lo ha annunciato il professor Angelo Vescovi, coordinatore degli studi, in un convegno a Roma. La ricerca è stata autorizzata dall’Istituto Superiore di Sanità e concepita dall’associazione Neurothon. La prima parte della sperimentazione, iniziata il 25 giugno dello scorso anno con il primo trapianto al mondo di cellule staminali cerebrali umane, scevre da qualunque problematica etica e morale, è terminata con successo a fine marzo di quest’anno. Non sono stati rilevati eventi avversi legati alle procedure mediche con risultati migliori della sperimentazione parallela in corso in Usa. «Siamo soddisfatti e orgogliosi di aver mantenuto la promessa fatta ai nostri sostenitori, ai malati e alle loro famiglie, di avviare una sperimentazione di terapia cellulare sulla Sla» ha detto Vescovi, coordinatore dei test preliminari con le cellule staminali sulla Sla. «Il nostro è uno studio sperimentale condotto secondo i più rigorosi criteri scientifici ed etici, per una malattia neurologica mortale». La sperimentazione, ha precisato il biologo, viene svolta secondo la normativa internazionale in accordo alle regole dell’European Medicine Agency e con le cellule prodotte in stretto regime di norme di buona fabbricazione, vale a dire riconosciute dalle commissioni sanitarie nazionali come idonee all’utilizzo di studi clinici, con certificazione dell’Aifa, confermando l’Italia fra i paesi che fanno test di avanguardia nell’ambito delle staminali. «L’uso di cellule staminali cerebrali è un grande progresso per la scienza che potrebbe aiutare la cura per malattie oggi non curabili» ha commentato il ministro Beatrice Lorenzin. «Probabilmente – ha aggiunto – la sperimentazione ci darà risultati significativi ma fino a che non ci saranno evidenze è bene non dare false speranze». Alla luce dei dati preliminari dei primi test, l’Istituto superiore e l’Aifa hanno autorizzato l’avvio della seconda parte della sperimentazione che prevede il trapianto in zone più alte del midollo spinale, cioè nella regione cervicale.

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