Donne con tumore alla mammella: terapia con Letrozolo in monoterapia o in associ

L?inibitore dell?aromatasi Letrozolo ( Femara ), rispetto al Tamoxifene ( Nolvadex ), migliora la sopravvivenza libera da malattia tra le donne in postmenopausa con cancro al seno recettore-positivo in stadio precoce, ma non ? noto se il trattamento sequenziale con Tamoxifene e Letrozolo sia superiore alla terapia con solo Letrozolo.

In uno studio randomizzato, di fase 3, in doppio cieco sul trattamento del tumore del seno recettore-postivo in donne in postmenopausa, i ricercatori del BIG 1-98 Collaborative Group hanno assegnato in maniera casuale le pazienti a ricevere 5 anni di monoterapia con Tamoxifene, 5 anni di monoterapia con Letrozolo o 2 anni di trattamento con un farmaco seguiti da 3 anni di trattamento con l?altro farmaco.

Sono stati confrontati i trattamenti sequenziali con la monoterapia con Letrozolo tra 6.182 donne ed ? stata anche riportata un?analisi del Letrozolo versus Tamoxifene in monoterapia in 4.992 donne.

A un follow-up mediano di 71 mesi dopo la randomizzazione, la sopravvivenza libera da malattia non ? migliorata significativamente con il trattamento sequenziale rispetto al solo Letrozolo ( hazard ratio per Tamoxifene seguito da Letrozolo 1.05; hazard ratio per Letrozolo seguito da Tamoxifene 0.96 ).

Si sono verificate pi? recidive precoci tra le donne assegnate al gruppo Tamoxifene seguito da Letrozolo che tra quelle assegnate alla monoterapia con Letrozolo.

Le analisi aggiornate sulla monoterapia hanno mostrato una differenza non-significativa nella sopravvivenza generale tra le donne assegnate al trattamento con Letrozolo e quelle assegnate al trattamento con Tamoxifene ( hazard ratio per Letrozolo 0.87; P=0.08 ).

Il tasso di eventi avversi ? stato quello atteso sulla base di precedenti report sulla terapia con Letrozolo e Tamoxifene.

In conclusione, tra le donne in postmenopausa con cancro al seno responsivo agli ormoni, il trattamento sequenziale con Letrozolo e Tamoxifene non ha migliorato la sopravvivenza libera da malattia rispetto al trattamento con il solo Letrozolo.
La differenza nella sopravvivenza generale con Letrozolo in monoterapia e con Tamoxifene in monoterapia si ? rivelata non significativa dal punto di vista statistico.

BIG 1-98 Collaborative Group, N Engl J Med 2009; 361: 766-776

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Donne in postmenopausa con bassa massa ossea: prevenzione della perdita ossea co

Un gruppo di Ricercatori statunitensi ha valutato l?efficacia dell?Acido Zoledronico ( Aclasta ) nella prevenzione della perdita ossea in donne in postmenopausa con ridotta massa ossea.

In uno studio randomizzato, multicentrico, in doppio-cieco, placebo-controllato e della durata di 2 anni, donne in postmenopausa con basso valore della massa ossea sono state selezionate in maniera casuale per ricevere Acido Zoledronico per via endovenosa ( 5 mg ) al momento della randomizzazione e al mese 12 ( gruppo Acido Zoledronico 2 x 5 mg ), Acido Zoledronico per via endovenosa ( 5 mg ) solo alla randomizzazione ( Acido Zoledronico 1 x 5 mg ) o placebo alla randomizzazione e al mese 12 ( gruppo placebo ).

L?endpoint primario di efficacia era la percentuale di cambiamento nella densit? minerale ossea della colonna lombare al mese 24 rispetto al basale.

Sia il regime a base di Acido Zoledronico 2 x 5 mg sia quello Acido Zoledronico 1 x 5 mg hanno aumentato la densit? minerale ossea della colonna lombare al mese 24 (rispettivamente 5.18% e 4.42% rispetto a -1.32%; P<0.001 per entrambi ). In modo simile, sono stati osservati aumenti maggiori per entrambi i regimi basati sull?Acido Zoledronico rispetto al placebo per la densit? minerale ossea della colonna lombare al mese 12 e per quella ai siti femorali prossimali ( anca totale, collo del femore, trocantere ) ai mesi 12 e 24 ( P<0.001 per tutti ). Entrambi i regimi a base di Acido Zoledronico hanno ridotto in maniera significativa i marcatori di turnover osseo rispetto al placebo ( P<0.001 per tutti ), anche se i cambiamenti con Acido Zoledronico 2 x 5 mg sono risultati sostanzialmente superiori nel secondo anno rispetto a quelli ottenuti con Acido Zoledronico 1 x 5 mg. L?incidenza generale di eventi avversi e di eventi avversi gravi ? risultata simile tra i gruppi di trattamento In conclusione, sia una dose annuale sia una dose singola da 5 mg di Acido Zoledronico per via endovenosa sono in grado di prevenire la perdita ossea per 2 anni e sono ben tollerate nelle donne in postmenopausa con bassa massa ossea. McClung M et al, Obstet Gynecol 2009; 114: 999-1007

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L?effetto antiriassorbimento di una singola dose di Zoledronato nelle donne in p

La somministrazione annuale endovenosa di 5 mg di Zoledronato ( Acido Zoledronico; Aclasta ) riduce il rischio di fratture, ma l?intervallo ottimale di dosaggio del farmaco non ? noto.

Ricercatori dell?University of Auckland in Nuova Zelanda, hanno condotto uno studio in doppio cieco, randomizzato, placebo-controllato per determinare la durata dell?azione anti-assorbimento di una singola dose di Zoledronato per via intravenosa.

Lo studio, della durata di 2 anni, ha coinvolto 50 donne volontarie in postmenopausa con osteopenia trattate con 5 mg di Zoledronato.

Le principali misure di esito erano i marcatori biochimici di turnover osseo e la densit? minerale ossea di colonna lombare, femore prossimale e corpo intero.

Rispetto al placebo, il trattamento con Zoledronato ha diminuito i livelli medi di ognuno dei 4 marcatori del turnover osseo almeno del 38% ( range: 38-45% ) per la durata dello studio ( P<0.0001 per ciascun marcatore ). Dopo 2 anni, la densit? minerale ossea ? risultata superiore nel gruppo Zoledronato rispetto al gruppo placebo di un valore medio pari a 5.7% per la colonna lombare, 3.9% per il femore prossimale e 1.7% per l?intero corpo ( P<0.0001 per ciascuna regione dello scheletro ). Le differenze nei marcatori del turnover osseo e della densit? minerale ossea sono risultate simili tra i gruppi a 12 e 24 mesi.
Nel corso dello studio ? stato osservato un lieve iperparatiroidismo secondario nel gruppo Zoledronato.

Grey A et al, J Clin Endocrinol Metab 2009; 94: 538-544

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Fratture vertebrali osteoporotiche dolorose: nessun beneficio della vertebroplas

La vertebroplastica ? diventata un trattamento comune per le fratture vertebrali osteoporotiche dolorose ma esiste limitata evidenza a supporto dell?uso.

In uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, placebo-controllato, i pazienti con 1 o 2 fratture vertebrali osteoporotiche dolorose da meno di 12 mesi e non-guarite, come confermato dalle immagini di risonanza magnetica, sono stati assegnati in maniera casuale a sottoporsi a vertebroplastica o a una procedura simulata.

L?esito primario era rappresentato dal dolore generale ( su una scala da 0 a 10, con 10 come massimo dolore immaginabile ) a 3 mesi.

Sono stati arruolati 78 partecipanti e 71 ( 35 su 38 nel gruppo vertebroplastica e 36 su 40 nel gruppo placebo ) hanno completato il periodo di follow-up di 6 mesi ( 91% ).

La vertebroplastica non ha portato un vantaggio significativo in nessuno degli esiti.

Si ? verificata una significativa riduzione del dolore generale in entrambi i gruppi di studio in ciascuna valutazione di follow-up.

A 3 mesi la riduzione media nel punteggio per il dolore nel gruppo vertebroplastica e in quello controllo sono stati, rispettivamente, 2.6 e 1.9 ( differenza non-aggiustata tra i gruppi: 0.6 ).

Miglioramenti simili sono stati osservati in entrambi i gruppi rispetto il dolore notturno e a riposo, il funzionamento fisico, la qualit? di vita e la percezione del miglioramento.

Nel corso del periodo di follow-up di 6 mesi si sono verificate 7 fratture vertebrali ( 3 nel gruppo vertebroplastica e 4 in quello placebo ).

In conclusione, non sono stati osservati effetti benefici della vertebroplastica rispetto a una procedura simulata in pazienti con fratture vertebrali osteoporotiche a 1 settimana o a 1, 3 o 6 mesi dopo il trattamento.

Buchbinder R et al, N Engl J Med 2009; 361: 557-568

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Tumori della cavit? orale e dell?esofago e relazione inversa tra Vitamina-D intr

3 Dic 2010 Oncologia

I dati relativi all?associazione tra Vitamina-D e neoplasie del tratto digestivo superiore sono limitati.

Ricercatori dell?International Epidemiology Institute, a Rockville, negli Stati Uniti, hanno esaminato la relazione tra assunzione alimentare di Vitamina D e carcinoma dell?esofago a cellule squamose ( 304 casi ) e tumore orofaringeo ( 804 casi ) in due studi italiani caso-controllo.

Gli odds ratio ( OR ) aggiustati per carcinoma dell?esofago a cellule squamose e tumore orofaringeo sono stati, rispettivamente, pari a 0.58 e 0.76 per il pi? alto terzile di assunzione di vitamina D.

Utilizzando un gruppo di riferimento costituito da persone nel pi? alto terzile che non avevano mai fumato o erano ex fumatori, gli OR sono stati pari a 8.7 per il carcinoma dell?esofago a cellule squamose e 10.4 per il carcinoma orofaringeo per i forti fumatori nel pi? basso terzile di assunzione di Vitamina-D; in modo simile, rispetto alle persone nel pi? alto terzile di Vitamina-D che bevevano meno di 3 bevande alcoliche al giorno, i corrispondenti OR sono stati pari a 41.9 per il carcinoma dell?esofago a cellule squamose e 8.5 per quello orofaringeo tra i pesanti bevitori nel pi? basso terzile di Vitamina D.

In conclusione, sono state osservate associazioni inverse tra assunzione alimentare di Vitamina D e rischio di tumore dell?esofago a cellule squamose e, forse, di tumore orofaringeo, pi? pronunciate per i forti fumatori e i forti consumatori di alcol.

Lipworth L et al, Ann Oncol 2009; 20: 1576-1581

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Incidenza di cancro nelle donne e moderato consumo di alcol

2 Dic 2010 Oncologia

Se si esclude il tumore del seno, sono poche le informazioni disponibili circa l?effetto di un moderato consumo di alcol, o di particolari tipi di alcol, sul rischio di cancro nelle donne.

Un totale di 1.280.296 donne di mezza-et? nel Regno Unito arruolate nel Million Women Study sono state seguite per cancro incidente.

Modelli di regressione di Cox sono stati utilizzati per calcolare i rischi relativi aggiustati per 21 tumori in siti specifici in accordo con la quantit? e il tipo di bevanda alcolica consumata.

Un quarto della coorte ha riferito di non bere alcol; il 98% delle donne che consumavano alcol ha consumato meno di 21 bicchieri a settimana, con un consumo medio di 10 grammi ( 1 bicchiere ) di alcol al giorno per le bevitrici.

In un follow-up medio di 7.2 anni si sono verificati 68.775 casi di cancro.

Un aumentato consumo di alcol ? risultato associato a un aumentato rischio di cancro della cavit? orale e della faringe ( aumento per 10 g/die = 29%; P per la tendenza <0.001 ), esofago ( 22%; P per la tendenza = 0.002 ), laringe ( 44%; P per la tendenza = 0.008 ), retto ( 10%; P per la tendenza = 0.02 ), fegato ( 24%; P per la tendenza = 0.03 ), seno ( 12%; P per la tendenza <0.001 ) e cancro totale ( 6%; P per la tendenza < 0.001 ). Tendenze simili sono state osservate nelle donne cha bevevano solo vino e in quelle cha consumavano anche altri tipi di alcol. Per i tumori nell?alto tratto respiratorio e digestivo, il rischio associato all?alcol ? risultato confinato alle fumatrici con un effetto scarso o nullo dell?alcol sulle donne che non avevano mai fumato e sulle ex-fumatrici ( P per eterogeneit? <0.001 ). Maggiori livelli di consumo di alcol sono risultati associati a una diminuzione del rischio di tumore della tiroide ( P per la tendenza = 0.005 ), linfoma non-Hodgkin ( P per la tendenza = 0.001 ) e carcinoma renale ( P per la tendenza = 0.03 ). In conclusione un consumo, basso o moderato, di alcol nelle donne aumenta il rischio di alcuni tipi di tumore.
Per ogni bicchiere aggiuntivo consumato regolarmente ogni giorno, si stima che l?aumento di incidenza fino a 75 anni per 1.000 donne nei Paesi sviluppati sia di circa 11 per il tumore del seno, 1 per il tumore della cavit? orale e della faringe, 1 per il tumore del retto e 0.7 ciascuno per i tumori di esofago, laringe e fegato, per un eccesso totale di circa 15 tumori ogni 1000 donne fino a 75 anni.

Allen NE et al, J Natl Cancer Inst 2009;101: 296-305

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Rischio di tumore e impiego del telefono cellulare

1 Dic 2010 Oncologia

Studi caso-controllo hanno riportato risultati non-concordanti circa l?associazione tra uso di telefoni cellulari e rischio di cancro.

Ricercatori del National Cancer Center di Goyang nella Repubblica di Corea, hanno valutato questa associazione attraverso una meta-analisi basata sui dati di letteratura.

Dei 465 articoli che rispettavano i criteri di selezione iniziali, sono stati inclusi nell?analisi finale 23 studi caso-controllo che hanno coinvolto 37.916 partecipanti ( 12.344 casi e 25.572 controlli ).

Rispetto all?utilizzo raro o nullo del telefono cellulare, la meta-analisi su 23 studi ha mostrato un odds ratio( OR ) per l?uso generale ? stato pari a 0.98 per i tumori maligni e benigni.

Tuttavia, ? stata osservata un?associazione positiva significativa ( effetto dannoso ) in una meta-analisi random di 8 studi utilizzando la modalit? in cieco, mentre ? stata osservata un?associazione negativa ( effetto protettivo ) in una meta-analisi a effetti fissi di 15 studi non utilizzando la modalit? in cieco.

Un uso del telefono cellulare uguale o superiore a 10 anni ? risultato associato al rischio di tumori in 13 studi che riportavano questa associazione ( OR=1.18 ).

Inoltre, questi risultati sono stati osservati anche in analisi di sottogruppo in base alla qualit? metodologica dello studio.

L?utilizzo della modalit? in cieco e la qualit? metodologica sono risultati fortemente associati al gruppo di ricerca.

In conclusione, questo studio ha evidenziato che esiste una possibile prova del legame tra uso del telefono cellulare e aumento del rischio di tumori.
Tuttavia, servono studi prospettici di coorte in grado di fornire prove pi? certe a sostegno di questa associazione.

Myung SK et al, J Clin Oncol 2009; 27: 5565-5572

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Demenza annunciata da sostanza bianca e diabete

30 Nov 2010 Neurologia

La gravit? delle variazioni della sostanza bianca (Wmc) e il diabete sono fattori predittivi indipendenti di declino cognitivo nella popolazione anziana inizialmente priva di disabilit?. La demenza vascolare ? predetta da ictus pregresso e Wmc e la malattia di Alzheimer solo da atrofia temporale mediale (Mta). Le informazioni provengono dal Leukoaraiosis and disability prospective multinational european study (Ladis), condotto da Ana Verdelho e collaboratori, del Dipartimento di Neuroscienze dell’Universit? di Lisbona, su soggetti con un’et? media di 74,1 anni e un grado di scolarizzazione di 9,6 anni, controllati ogni anno per tre anni sotto il profilo clinico e neuropsicologico. Una risonanza magnetica ? stata effettuata all’inizio e al termine dello studio. Su un totale di 639 partecipanti, alla fine del follow-up si sono contati 90 casi di demenza e 147 di deterioramento cognitivo ma non demenza. Utilizzando l’analisi di regressione Cox, la gravit? di Wmc ? risultata un fattore predittivo di declino cognitivo (demenza e non demenza), indipendentemente dall’et?, dal profilo educativo e da Mta. Al basale il diabete si ? segnalato come l’unico fattore di rischio vascolare in grado di predire in modo indipendente il declino cognitivo nel corso del follow-up, dopo aver preso in considerazione l’et?, il profilo educativo, severit? di Wmc e Mta. Rispetto ai sottotipi di demenza, la malattia di Alzheimer era predetta solo da Mta e la demenza vascolare da ictus pregressi, gravit? di Wmc e Mta.

Neurology, 2010; 75(2): 160-7

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Terapia anti-Hcv in donne Hiv/Hcv positive

Nelle donne con coinfezione da Hiv e da virus dell’epatite C (Hcv) in trattamento anti-Hcv, non si riscontrano differenze nella tipologia di eventi avversi (Ae) rispetto agli uomini, ma se ne notano di pi? frequenti e pi? precoci che richiedono la sospensione della terapia (Aetd) o una modifica delle dosi (Aedm). Nella popolazione femminile, il regime anti-retrovirale pu? essere un importante predittore di Aetd in corso di terapia anti-Hcv e dovrebbe essere sottoposto a indagine clinica come fattore predittivo di Ae nella coinfezione Hiv/Hcv. Sono i risultati di una metanalisi condotta sui dati di tre studi randomizzati per un totale di 1.376 pazienti coinfetti da Hiv/Hcv di cui il 21% di sesso femminile. Le terapie anti-Hcv sperimentate negli studi erano costituite da interferone e interferone pegilato, con o senza ribavirina. Il 14% dei pazienti era na?ve per la terapia antiretrovirale (Arv) all’inizio dello studio e il 61% con livelli di Hiv Rna non identificabile, mentre la mediana dei Cd4 era pari a 485 cellule mm3. In totale il 17% dei pazienti ha manifestato Aetd e il 50% Aedm. Le donne hanno sviluppato pi? Aetd (24% vs 16%) e Aedm (61% vs 48%) degli uomini e pi? precocemente ma i tipi di Aetd e Aedm erano simili nei due sessi. Il 74% degli Aetd e il 49% degli Aedm consistevano in AE costituzionali con il 18% di Aetd da depressione e il 26% di Aedm da neutropenia. Sono state osservate interazioni tra sesso e indice di massa corporea (Bmi) e gli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (Nnrti): infatti sono stati registrati pi? Aetd negli uomini con un basso Bmi e nelle donne in terapia con Nnrti. Un numero maggiore di Aedm ha caratterizzato l’impiego di interferone pegilato (Odds ratio, Or = 2,07), l’et? avanzata (OR 1,48 per 10 anni), la riduzione del Bmi (Or = 1,04 per Kg/m), i genotipi 1 e 4 di Hcv (Or = 1,31), Ishak 5 e 6 (Or = 1,42), la riduzione dell’emoglobina (Or = 1,23 per g/dL) e la riduzione della conta dei neutrofili (1,04 per 500 cellule/mm). Sono state osservate anche interazioni tra sesso e una condizione na?ve rispetto ad Arv e l’impiego di zidovudina. Si sono contate pi? Aedm nelle donne na?ve per la Arv e negli uomini precedentemente trattati con Arv: gli Aedm sono risultati pi? frequenti nelle donne in terapia con zidovudina. Lo studio, firmato da Debika Bhattacharya e collaboratori, ? frutto della collaborazione tra tre universit? californiane, l’Harvard University School of Medicine e l’Inserm di Parigi.

J Acquir Immune Defic Syndr, 2010 Jul 8. [Epub ahead of print]

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Combinazione per ridurre le escursioni glicemiche

La terapia aggiuntiva con exenatide (Exe), alla dose di 5-10 microg b.i.d., o sitagliptin (Sita), 100 mg una volta al giorno, in occasione del pasto, somministrata a soggetti con diabete di tipo 2 gi? in trattamento con insulina glargine (Glar) e metformina (Met), riduce ulteriormente le escursioni glicemiche postprandiali. ? l’esito di un esperimento condotto da Sabine Arnolds e collaboratori dell’Istituto di ricerca per il metabolismo di Neuss (Germania). ? stato effettuato un trial randomizzato su 48 tra uomini e donne diabetici, condotto in un singolo centro, controllato con un paragone attivo e disegnato in tre gruppi paralleli (Glar Met Exe, Glar Met Sita, Glar Met); erano previsti una fase di screening, un periodo di run-in da quattro a otto settimane, un periodo di quattro settimane di terapia e un follow-up. L’escursione glicemica postprandiale a sei ore sia di Glar Met Exe sia di Glar Met Sita ? risultata significativamente inferiore rispetto a quella di Glar Met (606 /- 104 vs 612 /- 133 vs 728 /- 132 mg/dl/h). L’A1C ? diminuita significativamente in tutti e tre i gruppi, con la massima riduzione, pari a -1,9 /- 07, rilevata sotto Glar Met Exe. Il target A1C fissato dall’American Diabetes Association in <7,0% ? stato raggiunto dall'80,0%, 87,5% e 62,5% dei soggetti, rispettivamente. Con Glar Met Exe si ? avuto il numero pi? elevato di eventi avversi (47), perlopi? gastrointestinali (56%), con un dropout. Con Glar Met o Glar Met Sita si sono registrati soltanto 10 e 12 eventi avversi, rispettivamente, e nessun dropout. Eventi ipoglicemici sono stati rari e simili tra i vari gruppi. Il peso, infine, ? diminuito con Glar Met Exe (-0,9 /- 1,7 kg) e lievemente aumentato con Glar Met (0,4 /- 1,5 kg). Diabetes Care, 2010; 33(7):1509-15

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