Procalcitonina predice polmoniti di comunit

Il valore iniziale di procalcitonina (Pct), misurato al momento dell’ammissione ospedaliera, predice in modo accurato la positivit? dell’emocoltura batterica in pazienti con polmonite acquisita in comunit? (Cap). La rilevazione della Pct ha dunque la potenzialit? di ridurre il numero delle emocolture da effettuare nel Dipartimento d’Emergenza e di consentire una pi? mirata allocazione delle limitate risorse sanitarie. Lo sostengono Fabian M?ller e collaboratori dell’Ospedale universitario di Basilea, autori di uno studio di coorte prospettico con un gruppo di derivazione e uno di validazione comprendenti in tutto 925 pazienti Cap con emocolture in fase di ammissione. In tutto 73 soggetti (7,9%) hanno mostrato una batteriemia vera. L’area sotto la curva Roc della Pct era simile nelle coorti di derivazione e validazione (0,83 e 0,79). Nel complesso, la Pct si ? dimostrata un elemento predittivo circa la positivit? dell’emocoltura significativamente migliore rispetto alla conta dei bianchi, alla proteina C-reattiva e ad altri parametri clinici. A un’analisi di regressione multivariata, soltanto il pretrattamento antibiotico (Or corretta: 0,25) e i livelli sierici della Pct (Or: 3,72) sono risultati fattori predittivi indipendenti. In generale, un cut-off della Pct di 0,1 ng/L permetterebbe di ridurre il numero totale di colture ematiche del 12,6% e di identificare ancora il 99% delle emocolture positive. In modo analogo, valori soglia posti a 0,25 ng/L e a 0,5 ng/L consentirebbero di diminuire le emocolture del 37% e del 52%, permettendo ancora l’identificazione del 96% e dell’88% delle emocolture positive.

Chest, 2010 Mar 18. [Epub ahead of print]

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Nefropatia cronica, pi? rischi con emoglobina alta

Nei pazienti con nefropatia cronica i pi? elevati livelli di emoglobina, target del trattamento con i farmaci stimolanti l’eritropoiesi (Esa), aumentano i rischi di ictus, ipertensione e trombosi dell’accesso vascolare e probabilmente anche di morte, eventi cardiovascolari severi e malattia renale terminale. I meccanismi sottesi al danno non sono ancora chiari: si raccomanda quindi di effettuare metanalisi sui dati individuali e studi sulle dosi prefissate degli Esa. Questi i risultati di una metanalisi eseguita sui risultati di 27 studi randomizzati (per un totale di 10.452 pazienti) che hanno valutato l’impiego di Esa nei soggetti nefropatici: sono stati inclusi trial in cui erano stati posti livelli target di emoglobina oppure trial che hanno confrontato Esa versus nessun trattamento o placebo. Il lavoro, con la prima firma di Suetonia C. Palmer del Brigham and Women’s Hospital, Harvard Institute of Medicine di Boston, ha visto la partecipazione dei ricercatori del Consorzio Mario Negri Sud di Santa Maria Imbaro (Chieti) e dell’Istituto scientifico Casa sollievo dalla sofferenza di Foggia. L’analisi ha dimostrato che, rispetto ai target pi? bassi, i pi? elevati livelli target di emoglobina si associano a un aumento dei rischi di ictus (rischio relativo, Rr 1,51), di ipertensione (Rr 1,67), e di trombosi dell’accesso vascolare (Rr 1,33). Non sono emerse differenze statisticamente significative riguardo i rischi per la mortalit? (Rr 1,09), gravi eventi cardiovascolari (Rr 1,15) o nefropatia allo stadio terminale (Rr 1,08) anche se le stime puntuali sono a favore di un target pi? basso di emoglobina. Gli effetti del trattamento sono simili in tutti i sottogruppi, compresi tutti gli stadi della nefropatia.

Ann Intern Med, 2010 May 3. [Epub ahead of print]

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Post-infarto, prognosi molto peggiorata con Bpco

In un’ampia popolazione di soggetti colpiti da infarto del miocardio (Im), seguita per quasi trent’anni in una comunit? geograficamente delimitata, si ? verificato che la prevalenza della broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) ? aumentata con il passare degli anni, e che questa condizione risulta associata a un aumentato rischio di morte post-infartuale, indipendentemente da et?, fattori di rischio e altre comorbilit?. Tutto ci? evidenzia l’importanza di questo quadro patologico e la necessit? di ottimizzare l’assistenza rivolta a questi pazienti ad alto rischio. ? la conclusione di uno studio condotto da Francesca Bursi, dell’Istituto di Cardiologia dell’Ospedale policlinico universitario di Modena, in collaborazione con la Divisione di Malattie cardiovascolari della Mayo Clinic di Rochester. Sono state incluse nel trial persone abitanti in una cittadina del Minnesota, colpite da Im tra il 1979 e il 2007 (n=3.438, 42% donne, et? media: 68 /-15 anni), nelle quali la presenza di Bpco veniva accertata dalle cartelle cliniche. Sul totale dei pazienti studiati, 415 (12%) sono risultati affetti da Bpco, la cui prevalenza ? cresciuta dal 7% del periodo 1979-1985 al 15% di quello 2000-2007 (P<0,001). La sopravvivenza ? apparsa peggiore nei soggetti con Bpco rispetto a quelli senza, con un tasso di sopravvivenza a cinque anni di 46% vs 68%, rispettivamente. L'associazione tra Bpco e morte, infine, ? risultata indipendente da et? e fattori di rischio (Hr aggiustata: 1,30) e non si ? modificata con il passare del tempo. Am Heart J, 2010; 160(1):95-101

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Complesso Les ad attivit? sierologica ma quiescente

Alcuni pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico (Les) presentano una malattia clinicamente quiescente nonostante una persistente attivit? sierologica. Uno studio effettuato da Amanda J. Steiman e collaboratori del Centro per gli studi prognostici nelle malattie reumatiche dell’Universit? di Toronto, ha ora accertato che in questa categoria di pazienti il 59% ? destinato a sviluppare riacutizzazioni della sintomatologia (flare) ma dopo un tempo mediano di tre anni. Inoltre, le fluttuazioni dei livelli del complemento e degli anti-dsDna non hanno potere predittivo sui flare: le decisioni terapeutiche pertanto devono basarsi su una stretta osservazione clinica e sar? necessario studiare marker predittivi alternativi. Su una casistica di 924 soggetti con Les gli autori canadesi hanno identificato 56 pazienti (6,1%) con malattia sierologicamente attiva (aumento di anti-dsDna e /o ipocomplementemia) ma clinicamente quiescente (Sacq) per un periodo di almeno due anni. Questi pazienti differivano dalla popolazione non-Sacq solo in base all’Sle Disease Activity Index 2000 (7,34 vs 10,1 nei non-Sacq) e la frequenza d’impiego di steroidi (33,9% vs 60,8%) e farmaci immunosoppressori (3,6% vs 19,4%) alla prima visita. Si ? osservato che 33 pazienti Sacq (58,9%) sono andati incontro a flare (dopo 155 settimane, in mediana), mentre sei soggetti sono diventati quiescenti sierologicamente e clinicamente (per 236 settimane) e 17 sono rimasti Sacq (per 159 settimane). Le pi? comuni manifestazioni dei flare sono consistite in artrite, coinvolgimento della membrana mucosa e piuria sterile.

J Rheumatol, 2010 Jul 1. [Epub ahead of print]

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Dolore colonscopia utile a diagnosi intestino irritabile

La percezione del dolore durante una colonscopia pu? essere utile ai fini della diagnosi differenziale tra la sindrome dell’intestino irritabile (Ibs) e altre patologie gastroenteriche. Il grado di percezione algica nel corso dell’esame, infatti, risulta pi? alto nei pazienti Ibs rispetto ai soggetti affetti da malattie non-Ibs; un ulteriore beneficio dell’indagine consiste nella possibilit? di poter contestualmente escludere patologie organiche a carico del tratto gastrointestinale inferiore. Lo segnala uno studio condotto da Eun Soo Kim e collaboratori della Scuola universitaria di medicina Keimyung di Daegu (Corea) su 217 soggetti suddivisi in un primo gruppo affetto da Ibs, un secondo interessato da altri disordini gastroenterici funzionali (Fgid) come gonfiore, diarrea e costipazione, e un terzo composto da controlli sani. Tutti i pazienti hanno completato i questionari previsti dai criteri di Roma III e riportato l’intensit? del dolore dopo colonscopia attraverso il punteggio 0-100 mm delle scale analogiche visuali. I punteggi del dolore dei pazienti Ibs (in mediana 52) sono risultati maggiori rispetto ai controlli sani (22) o ai pazienti Fgid (18). I sintomi del tratto gastrointestinale superiore sono stati osservati pi? spesso nel gruppo Ibs rispetto ai pazienti non-Ibs (83,2% vs 34,5%). A fronte di un punteggio pari a 31 dello score del dolore, la sensibilit?, la specificit?, il valore predittivo positivo e quello negativo si sono attestati, rispettivamente, sull’86,1%, 75,9%, 75,7% e 86,3%.

J Gastroenterol Hepatol, 2010; 25(7):1232-8

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Raccomandazioni Ieo sul trattamento tumore al seno

3 Nov 2010 Oncologia

IEO – Istituto Europeo di Oncologia – Milano
Direttore Unit? di Diagnostica e Chirurgia in Senologia
Universit? degli Studi di Milano

La Mbcc rappresenta uno dei quattro eventi scientifici mondiali che trattano di tumore della mammella con la peculiarit? di avere sempre delle riunioni plenarie e di trattare questo tipo di patologia a 360?. Al centro dell’attenzione quest’anno l’innovazione nelle cure e nella ricerca, a partire dalle ultime scoperte nel campo della genetica a quelle della prevenzione primaria, fino alle ultime metodiche radiologiche per l’anticipazione diagnostica. Per arrivare, infine, a definire i traguardi raggiunti in chirurgia, anatomia patologica, biologia molecolare e radioterapia. Essenziali i nuovi approcci terapeutici di trattamento medico, sempre pi? mirati e personalizzati, meno aggressivi e tossici; nel rispetto della qualit? di vita delle pazienti. Durante la Mbcc sono state presentate in un elegante opuscolo le “IEO Breast Cancer Treatment Recommendations”, che i medici lettori di Doctornews33 potranno scaricare o sfogliare su Internet. L’IEO ? il primo Istituto al mondo per numero di casi di tumore della mammella e per numero di casi trattati all’anno, e quindi a buon titolo sta redigendo delle raccomandazioni sui vari argomenti della patologia tumorale del seno attraverso un percorso, che v? dalla prevenzione primaria ai nuovi approcci terapeutici, come l’ormai assodata chirurgia conservativa per la mammella e per l’ascella (con la biopsia del linfonodo sentinella), alla nuova metodica della nipple sparing mastecomy, che grazie all’utilizzo della radioterapia intraoperatoria consente un ottimo risultato estetico. Radioterapia intraoperatoria utilizzata, ormai routinariamente con diverse modalit? di somministrazione, nella chirurgia conservativa col grande vantaggio di evitare alla paziente lunghi e spesso costosi periodi di trattamento dopo la chirurgia. Nuovi trattamenti di medicina nucleare (avidinization) e medici sono in fase di studio in protocolli internazionali con l’obiettivo di migliorare la gi? alta probabilit? di guarigione, ma garantendo alla paziente il massimo della qualit? di vita.

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La menopausa modula i livelli di omocisteina nelle donne con e senza diabete

Alti livelli plasmatici di omocisteina totale possono contribuire ad aumentare il rischio cardiovascolare delle donne affette da diabete mellito di tipo 2.
Tuttavia, i dati sui fattori modulanti la concentrazione di omocisteina totale in questa popolazione sono scarsi.

Uno studio, compiuto da Ricercatori dell?Universit? di Messina, ha confrontato i livelli plasmatici di omocisteina totale, vitamina B12 e folato, ed il genotipo MTHFR C677T in 91 donne diabetiche ed in 91 controlli non-diabetici ( 49 donne in premenopausa e 51 in postmenopausa, per ciascun gruppo ).

E? stato osservato che la concentrazione di omocisteina totale a digiuno non differiva tra le donne con diabete e senza.

In entrambi i gruppi i livelli di omocisteina totale sono aumentati dopo la menopausa, ma le differenze sono risultate deboli dopo aggiustamento per le variabili.

La distrubuzione del genotipo MTHFR era in accordo con l?equilibrio di Hardy-Weinberg, con una frequenza TT simile tra le donne con diabete ( 22.2% ) e le donne controllo ( 19.8% ).

In generale, la concentrazione plasmatica di omocisteina totale era pi? alta negli omozigoti TT, rispetto ad altri genotipi.

E? stata osservata un?interazione genotipo-menopausa riguardo ai livelli di omocisteina, l?aumento della concentrazione di omocisteina totale nei soggetti TT era limitato alla premenopausa, e questo ? stato confermato dopo aver preso in considerazione le donne affette da diabete ed i controlli, separatamente.

All?analisi multivariata, la menopausa era un correlato indipendente della concentrazione dell?omocisteina totale, assieme alla creatinina, folato e genotipo MTHFR.

I dati dello studio hanno mostrato che la menopausa ha una forte influenza sulla concentrazione dell?omocisteina totale anche nelle donne con diabete mellito di tipo 2, inoltre la menopausa pu? modulare l?associazione tra omocisteina totale ed il comune polimorfismo MTHFR sia nelle donne con diabete che senza.

Russo G T et al, J Endocrinol Invest 2008; 31 : 546-551

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NO esalato identifica gli asmatici responsivi

La misurazione della frazione di ossido nitrico esalato, F(eNO), pu? permettere di identificare i pazienti con asma difficile da trattare ma potenzialmente responsivi ad alte dosi di corticosteroidi inalatori o sistemici, somministrati secondo una strategia graduale. La segnalazione giunge da Luis A. P?rez-de-Llano e collaboratori, del servizio di Pneumologia dell’ospedale Xeral-Calde di Lugo (Spagna). Il team di ricercatori, inizialmente, ha sottoposto 102 pazienti consecutivi, caratterizzati da un controllo subottimale dell’asma, a un trattamento per un mese a base di fluticasone/salmeterolo, con un incremento a gradini del dosaggio della combinazione fino a quello massimale. Quindi, ai soggetti in cui persisteva un mancato controllo della malattia, sono stati somministrati corticosteroidi orali per un mese aggiuntivo. Grazie a questo approccio, 53 pazienti (52%) hanno conseguito il controllo sintomatologico. Chi aveva raggiunto il successo terapeutico aveva maggiore probabilit? di avere test cutanei positivi (60,4% vs 34%), test di broncodilatazione positivo (57,1% vs 35,8%) e variabilit? di picco di flusso espiratorio > o = 20% (71,1% vs 49,1%). Al contrario, la depressione era pi? frequente nei pazienti che rimanevano non controllati (18,4% vs 43,4%). Ai fini dell’identificazione degli asmatici responsivi, un valore di F(eNO) > o = 30 ppb ha dimostrato una sensibilit? dell’87,5% e una specificit? del 90,6%.

Eur Respir J, 2010; 35(6):1221-7

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I dieci responsabili del 90% del rischio di ictus

Dieci fattori di rischio risultano associati al 90% del rischio di ictus. Interventi mirati sulla riduzione della pressione arteriosa e del fumo e sulla promozione dell’attivit? fisica e di una dieta salutare potrebbero ridurre l’impatto dell’ictus in modo sostanziale. ? la conclusione dello studio caso-controllo Interstroke, condotto in 22 Paesi su pazienti colpiti per la prima volta da ictus acuto (entro cinque giorni dall’esordio dei sintomi e 72 ore dal ricovero) e altrettanti controlli corrispondenti per et? e sesso in assenza di una storia di ictus. Sono state calcolate le odds ratio (Or) e i rischi attribuibili alla popolazione (Par) per l’associazione con ogni ictus, ictus ischemico e ictus intracerebrale emorragico con i fattori di rischio selezionati. Ed ecco i risultati divulgati da Martin O’Donnell del Population health research institute, McMaster university di Hamilton (Canada), e collaboratori, sui primi 3.000 casi (78% con ictus ischemico e 22% con ictus emorragico) e 3.000 controlli. Significativi fattori di rischio per ogni ictus sono risultati: storia di ipertensione (Or 2,64, Par 34,6%), attuale stato di fumatore (Or 2,09, Par 18,9%), rapporto vita-fianchi (Or 1,65 per il terzile pi? alto vs il pi? basso, Par 26,5%), punteggio di rischio dietetico (Or 1,35 per il terzile pi? alto vs il pi? basso, Par 18,8%), attivit? fisica regolare (Or 0,69, Par 28,5%), diabete mellito (Or 1,36, Par 5,0%), apporto di alcol (Or 1,51, per pi? di 30 drink al mese o binge drinking, Par 3,8%), stress psicosociale (Or 1,30, Par 4,6%) e depressione (Or 1,35, Par 5,2%), cause cardiache (Or 2,38, Par 6,7%) e rapporto Apo B/Apo A1 (Or 1,89 per il terzile pi? alto vs il pi? basso, Par 24,9%). Complessivamente, questi fattori di rischio rendono conto dell’88,1% di Par per ogni ictus. Tutti i fattori sopra citati sono significativi per l’ictus ischemico mentre per l’ictus intracerebrale emorragico la significativit? riguarda ipertensione, fumo, rapporto vita-fianchi, dieta e apporto di alcol.

Lancet, 2010 Jun 17. [Epub ahead of print]

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Adiposit? tardiva porta il diabete

Tra gli anziani, la presenza di adiposit? generalizzata o centrale, e l’aumento di peso durante la mezza et? e dopo i 65 anni, sono associati al rischio di sviluppare diabete di tipo 2. ? quanto emerge da uno studio prospettico di coorte condotto tra il 1989 e il 2007 su 4.193 soggetti di entrambi i sessi e di et? pari o superiore a 65 anni, i cui dati sono stati analizzati da Mary L. Biggs, del dipartimento di Biostatistica dell’universit? di Washington, a Seattle, e collaboratori. Le misure di adiposit? sono state ricavate con metodi antropometrici e mediante impedenzometria bioelettrica, mentre la rilevazione di diabete si ? basata sul dato anamnestico dell’uso di farmaci antidiabetici o di un livello di glicemia a digiuno di 126 mg/dL o superiore. A un follow-up mediano di 12,4 anni, sono stati riscontrati 339 casi di diabete incidente (7,1/1.000 persone-anno). La hazard ratio (Hr) aggiustata per diabete di tipo 2 per i partecipanti nel quintile superiore delle misure basali paragonata a quelli del quintile inferiore ? risultata di 4,3 per indice di massa corporea (Bmi), 3,0 per Bmi a 50 anni d’et?, 4,2 per peso, 4,0 per massa grassa, 4,2 per circonferenza vita, 2,4 per rapporto vita-fianchi e 3,8 per rapporto vita-altezza. In ogni caso, dopo stratificazione per et?, i partecipanti di et? pari o superiore a 75 anni avevano valori di Hr approssimativamente dimezzati rispetto a quelli dei soggetti di et? compresa tra 65 e 74 anni. Messi a confronto con soggetti di peso stabile ( /- 2 kg), quelli che avevano guadagnato il massimo peso dai 50 anni d’et? rispetto al basale (> o = 9 kg) e dal basale alla terza visita di follow-up (> o = 6 kg) mostravano un Hr per diabete di tipo 2 di 2,8 e 2,0, rispettivamente. I partecipanti con un incremento superiore a 10 cm nelle dimensioni della vita dal basale alla terza visita di follow-up avevano un Hr per diabete di tipo 2 di 1,7, rispetto a quelli che avevano acquistato o perso 2 cm o meno.

JAMA, 2010; 303(24):2504-12

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