I beta-bloccanti nella BPCO

? nota la perplessit? dei clinici quando, per problemi cardiovascolari, debbono utilizzare i beta-bloccanti nei pazienti con BPCO. Nell’ultimo numero degli Archives of Internal Medicine un gruppo olandese dell’Universit? di Utrecht ha verificato in pazienti con BPCO gli effetti a lungo termine di questi farmaci non solo sulla sopravvivenza, ma anche sulle esacerbazioni della patologia respiratoria. Lo studio ha incluso 2.230 pazienti (53% dei quali di sesso maschile), di et? media di 64,8 anni, seguiti per una BPCO dal 1996 al 2006, i quali, per problemi cardiovascolari, avevano assunto anche dei farmaci beta-bloccanti.
Il follow up ha avuto una durata mediamente superiore ai 7 anni. La mortalit? ? risultata minore nei pazienti che erano stati trattati anche con beta-bloccanti rispetto a quelli che non li avevano utilizzati. Infatti, dei 686 pazienti deceduti durante il lungo periodo di osservazione il 27,2% appartenevano al gruppo di quelli trattati con beta-bloccanti rispetto al 32,3% che non li aveva assunti (P = 0,02). Nonostante il fatto che la percentuale di pazienti che avevano assunto beta-bloccanti cardioselettivi fosse decisamente bassa (24,4%), inaspettatamente anche le esacerbazioni della BPCO sono risultate significativamente ridotte nel gruppo in trattamento con beta-bloccanti (42,7% vs 49,3%, P = 0,005). Se la riduzione della mortalit? pu? essere facilmente motivata dal benefico effetto dei beta-bloccanti sull’apparato cardio-vascolare, non vi sono specifiche ragioni per spiegare la contemporanea riduzione delle esacerbazioni della BPCO osservata in questi pazienti.

Frans H. Rutten et al. ?-Blockers May Reduce Mortality and Risk of Exacerbations in Patients With Chronic Obstructive Pulmonary Disease. Arch Intern Med 2010;170(10):880-887

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Il DMX nel trattamento delle meningiti batteriche?

I risultati di una recentissima meta analisi comparsa su Lancet Neurology del Marzo u.s. pongono dei dubbi sulla reale necessit? di utilizzo del DMX nelle meningiti batteriche.
Gli AA hanno analizzato i dati provenienti da 5 studi randomizzati, in doppio cieco relativi a pi? di 2.000 pazienti, nei quali l’infezione meningea di origine batterica era stata confermata in 1.639 pazienti (80,8%) di ogni et? (833, 41,0%, avevano un’et? inferiore a 15 anni), comprensivi anche dei soggetti portatori di infezione da HIV (580, 28,6%), trattati con DMX o placebo per una meningite batterica.
L’utilizzo del DMX non ? risultato associato a:
? Una riduzione significativa della mortalit? (26,5% nel gruppo DMX vs 27,2% nel gruppo placebo; OR 0,97, 95% CI 0,79-1,19);
? una riduzione significativa della morte o di gravi sequele neurologiche o di grave sordit? bilaterale (42,3% nel gruppo DMX vs 44,3% nel gruppo placebo; OR 0,92, 95% CI 0,76-1,11);
? una riduzione significativa della morte o di qualsiasi sequela neurologica o di qualsiasi perdita dell’udito (54,2% nel gruppo DMX vs 57,4% nel gruppo placebo; OR 0,89, 95% CI 0,74-1,07);
? una riduzione significativa della morte o di grave ipoacusia bilaterale (36,4% nel gruppo DMX vs 38,9 % nel gruppo placebo, OR 0,89, 95% CI 0,73-1,69).
L’unico vantaggio riscontrato nell’utilizzo del DMX ? stato quello di una pi? favorevole riduzione della perdita di udito nei pazienti sopravvissuti all’infezione meningea (24,1% nel gruppo DMX vs 29,5% nel gruppo placebo; OR 0,77, 95% CI 0,60-0,99, p = 0,04).
Non si sono registrati effetti favorevoli significativi con il trattamento con DMX in nessuno dei sottogruppi pre-specificati. Pertanto il reale vantaggio della associazione di DMX per tutti o per qualsiasi sottogruppo di pazienti con meningite batterica al momento rimane ancora da dimostrare.

van de Beek D, Farrar JJ et al. Adjunctive dexamethasone in bacterial meningitis: a meta-analysis of individual patient data. Lancet Neurol 2010;9(3):254-63.

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Clopidogrel e inibitori di pompa protonica

L’impiego degli inibitori di pompa protonica (PPI) associati al clopidogrel ? comune nella pratica clinica con la finalit? di ridurre il rischio di emorragie gastroduodenali. Tale associazione ? stata per? messa in discussione in quanto esiste la possibilit? che gli inibitori di pompa riducano l’efficacia antiaggregante del clopidogrel, agendo mediante una inibizione competitiva a livello del citocromo P450 2C19, che interviene anche nel metabolismo del clopidogrel trasformandolo nei suoi metabolici attivi. Due studi, recentemente pubblicati, sono discordanti rispetto alla valutazione di questo problema.
Ray e collaboratori hanno valutato retrospettivamente 20.596 pazienti che assumevano clopidogrel, ospedalizzati per infarto miocardico acuto, rivascolarizzazione coronarica o angina instabile; di questi, 7.593 pazienti assumevano anche PPI, mentre 13.003 non li assumevano. Il gruppo che assumeva PPI ha avuto un’incidenza di ospedalizzazione per episodi di sanguinamento acuto gastrointestinale inferiore del 50%. Non si sono avute al contrario variazioni nei 2 gruppi per quanto riguarda il rischio di gravi recidive cardiovascolari.
In un altro studio di tipo retrospettivo, condotto da Stockl e collaboratori, ? stato confrontato un gruppo di 1.033 pazienti dimessi dopo ricovero per infarto miocardico o posizionamento di stent coronarico e in trattamento con clopidogrel e PPI, verso un campione eguale per numerosit? e patologia ma curato solo con clopidogrel. Dopo 1 anno i pazienti che assumevano clopidogrel associato a PPI avevano un rischio di riospedalizzazione per infarto miocardico pi? alto del 93% e pi? elevato del 64% per il rischio combinato di riospedalizzazione per infarto miocardico o posizionamento di stent.
In conclusione, il problema se sia indicato associare o no PPI al clopidogrel ancora non ? risolto.

Wayne A. Ray et Al. Ann Intern Med. 2010;152:337-345.
Karen M. Stockl et Al. Arch Intern Med. 2010;170(8):704-710.

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Dolori addominali e celiachia: test diagnostici

I dolori addominali sono comune causa di accesso nei Dipartimenti di Emergenza e Accettazione (DEA), con un’incidenza annuale di 35-40 casi ogni 1.000 abitanti. Si tratta di sintomi che possono compromettere lo svolgimento delle attivit? quotidiane e la qualit? di vita del paziente e di cui ? fondamentale discriminare l’eziologia funzionale o organica.
Tra le cause di dolore addominale rientra la malattia celiaca, cui non sempre si pensa, nonostante abbia una prevalenza intorno allo 0,5-1% della popolazione occidentale e nonostante una tempestiva diagnosi con l’adozione della dieta glutine-priva comporti la risoluzione sintomatologica e la prevenzione delle complicanze di malattia (infertilit?, aborti, osteoporosi e neoplasie).
JAMA ha pubblicato recentemente una review sulle performance diagnostiche dei test sierologici, cui vengono indirizzati soggetti adulti affetti da sintomatologia addominale nel sospetto di malattia celiaca. La review evidenzia che:
? la sintomatologia gastroenterica ha una sensibilit? estremamente variabile per la diagnosi di malattia celiaca e pertanto non sembra ragionevole sottoporre tutti i pazienti a screening per malattia celiaca;
? potrebbero essere candidati allo screening solo coloro che presentano familiarit? per tale patologia o che accusano dolore da lunga data o refrattario a terapia.
La valutazione sierologica mostra una buona performance diagnostica per gli anticorpi anti-transglutaminasi IgA (sensibilit? 0,89, 95% intervallo di confidenza 0,82-0,94 – specificit? 0,98, 95% intervallo di confidenza 0,95-0,99) e anti-endomisio (sensibilit? 0,90, 95% intervallo di confidenza 0,80-0,95 – specificit? 0,99, 95% intervallo di confidenza 0,98-1,00). Tuttavia, i test sierologici singolarmente non sembrano sufficienti a identificare tutti i casi di malattia celiaca e risultano necessari ulteriori studi per identificare e sperimentare algoritmi diagnostici per i pazienti affetti da sintomatologia gastroenterica che accedono alle cure primarie.

Hernandez. JAMA 2010;303(17):1738-1746.

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Aumentato rischio di diabete mellito per coloro che fanno uso di corticosteroidi

La relazione tra impiego di corticosteroidi topici, potenza, durata del trattamento, esposizione concomitante a corticosteroidi sistemici, e rischio di diabete ? stata studiata in modo non-completo.

Uno studio ha esaminato l?associazione tra uso, intenso e di lunga durata, dei corticosteroidi topici e il diabete mellito.

I dati sono stati ottenuti dal PHARMO Record Linkage System, che interessa pi? di 2.5 milioni di soggetti in Olanda.

L?insorgenza di diabete ? stata definita come prima dispensazione di un antidiabetico o l?ospedalizzazione per la malattia diabetica.

L?impiego di corticosteroidi topici e corticosteroidi sistemici, e/o corticosteroidi per inalazione, come co-medicazione, ? stato classificato come corrente, recente e passato/mai ( rispettivamente, inferiore o uguale a 2 anni, 2-4 anni, e maggiore di 4 anni ).

Tra i 192.893 utilizzatori di corticosteroidi topici, 2.212 hanno sviluppato diabete.

L?uso corrente di corticosteroidi topici ? risultato associato ad un aumento del rischio di diabete di 1.24 volte ( odds ratio non-aggiustato, OR=1.24 ).

La durata della terapia con corticosteroidi locali superiore a 180 giorni ha prodotto un odds ratio di 1.32, che ? salito a 1.44 con un carico cumulativo di corticosteroidi topici di 731-1460 mg.

Tra coloro che avevano utilizzato in passato i corticosteroidi sistemici e/o i corticosteroidi per via inalatoria, o non li avevano mai usati, l?impiego corrente di corticosteroidi topici ? rimasto associato ad un rischio di diabete 1.27 maggiore ( OR=1.27 ), rispetto a coloro che avevano fatto uso di corticosteroidi topici nel passato.

In conclusione, un aumentato rischio di diabete di nuova insorgenza deve essere tenuto in considerazione quando si prescrivono i corticosteroidi topici, soprattutto quando ? necessario un trattamento cutaneo intensivo.

van der Linden MW et al, Drug Saf 2009; 32: 527-537

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Tumore dell?endometrio: effetto protettivo del caff? con Caffeina, soprattutto n

Le donne che bevono almeno 2 tazze di caff? con Caffeina al giorno potrebbero ridurre le probabilit? di andare incontro a cancro dell?endometrio.
Queste le conclusioni di uno studio osservazionale del Karolinska Institutet di Stoccolma ( Svezia ), che ha evidenziato un maggior effetto sulle donne in sovrappeso o obese.

A un totale di 60.634 donne ? stato chiesto riguardo al consumo di caff?: prima nel periodo compreso tra il 1987 e il 1990, e successivamente nel 1997.

Le donne sono state seguite in media per 17 anni.

Nel corso del periodo di follow-up, 677 donne hanno sviluppato un carcinoma all’endometrio. L’et? media al momento della diagnosi di tumore era di 67 anni.

Le donne che bevevano ogni giorno 2 o pi? tazze di caff? presentavano un rischio significativamente ridotto di sviluppare il tumore, rispetto a quelle che facevano un consumo inferiore.

Il rischio di tumore endometriale si riduceva ulteriormente del 10% per ogni tazza in pi? beveuta.

L’effetto ? risultato massimo per le donne in sovrappeso o obese; in questi soggetti ogni tazza di caff? era in grado di ridurre il rischio di ammalarsi di tumore del 12% per le donne in sovrappeso e del 20% per quelle obese.

Il caff? appare esercitare l’effetto protettivo riducendo la glicemia, ed interferendo con gli estrogeni, fattori che svolgono un ruolo nel tumore dell’endometrio.

Fonte: International Journal of Cancer, 2009

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Aumentato rischio di tumore del pancreas associato agli acidi grassi alimentari

14 Ott 2010 Oncologia

Una precedente ricerca che ha messo in relazione i grassi alimentari, un fattore di rischio modificabile, con il tumore del pancreas non si ? rivelata conclusiva.

Ricercatori del National Cancer Institute ( NCI ) a Bethesda negli Stati Uniti, hanno analizzato in modo prospettico l?associazione tra assunzione di grassi, sottotipi di grassi e fonti alimentari di grassi, e tumore pancreatico esocrino nel National Institutes of Health -AARP Diet and Health Study, uno studio di coorte condotto su 308.736 uomini e 216.737 donne che hanno completato un questionario nel 1995-1996.

Gli hazard ratio sono stati calcolati utilizzando modelli di regressione proporzionale del rischio di Cox.

Nel corso di un periodo osservazionale medio di 6.3 anni, 865 uomini e 472 donne hanno ricevuto diagnosi di tumore pancreatico esocrino ( 45.0 e 34.5 casi per 100.000 persone-anno, rispettivamente ).

Dopo aggiustamento per variabili multiple e la combinazione di dati per uomini e donne, il rischio di tumore del pancreas ? risultato direttamente collegato all?assunzione di grasso totale ( quintile pi? alto verso quintile pi? basso: 46.8 vs 33.2 casi per 100.000 persone-anno; HR=1.23; P per trend = 0.03 ), grasso saturo ( 51.5 vs 33.1 casi per 100.000 persone-anno; HR=1.36; P per trend < 0.001 ) e grasso monoinsaturo ( 46.2 vs 32.9 casi per 100.000 persone-anno; H =1.22; P per trend = 0.05 ), ma non grasso polinsaturo. Le associazioni sono risultate pi? forti per il grasso saturo da fonti alimentari animali ( 52.0 vs 32.2 casi per 100.000 persone-anno; HR=1.43; P per trend < 0.001 ); in particolare, l?assunzione da carne rossa e latticini ? risultata associata in modo statisticamente significativo a un aumento del rischio di tumore del pancreas ( HR=1.27 e 1.19, rispettivamente ). In conclusione, in questo ampio studio prospettico di coorte, i grassi alimentari di origine animale sono risultati associati a un aumento del rischio di cancro del pancreas. Thi?baut AC et al, J Natl Cancer Inst 2009;101: 1001-1011

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Aterosclerosi regredisce con inibitore fosfodiesterasi

13 Ott 2010 Cardiologia

In un confronto tra farmaci antiaggreganti efficaci nel prevenire recidive aterosclerotiche in pazienti con diabete di tipo 2, la somministrazione di cilostazol, inibitore della fosfodiesterasi, rispetto a quella di acido acetilsalicilico (Asa) ha determinato una potente inibizione alla crescita progressiva dello spessore della tunica intima e media carotidea, indicatore indiretto di eventi cardiovascolari. ? il risultato dello studio Dapc (Diabetic atherosclerosis prevention by cilostazol), prospettico, randomizzato, in aperto e a endpoint cieco, svolto in quattro paesi dell’Asia orientale da Naoto Katakami, della Scuola universitaria di medicina di Osaka (Giappone), e collaboratori. Un totale di 329 soggetti affetti da diabete di tipo 2 con sospetta arteriopatia periferica sono stati suddivisi in due gruppi di trattamento: Asa (da 81 a 100 mg/die) o cilostazol (da 100 a 200 mg/die). L’endpoint primario dello studio era costituito dalle modificazioni rilevate nello spessore della parete delle arterie carotidi comuni in un periodo di osservazione di due anni. La diminuzione dello spessore massimo e medio della carotide comune sinistra e destra ? risultata significativamente superiore nel gruppo cilostazol rispetto a quello Asa. A un’analisi di regressione corretta per possibili fattori confondenti come i livelli dei lipidi e dell’emoglobina A1c, i miglioramenti dello spessore carotideo ottenuti mediante il trattamento con cilostazol sono rimasti significativamente superiori a quelli conseguiti con Asa.

Circulation, 2010; 121(23):2584-91

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Patch di alendronato in sviluppo preclinico

12 Ott 2010 Ginecologia

Dall’universit? di Kyoto arrivano le prime notizie di un nuovo sistema a rilascio transdermico di alendronato per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale ed eventualmente di altre malattie dell’osso per le quali la molecola ? indicata (Paget, ipercalcemia da patologia maligna). Lo scopo ? quello di offrire un metodo che migliori la compliance e la qualit? di vita dei pazienti. Lo studio preclinico svolto da Kosuke Kusamori e collaboratori riguarda gli aspetti biofisici del patch. I flussi massimi di permeazione dell’alendronato attraverso la cute di topo e umana dopo l’applicazione del cerotto sono risultati pari a 1,9 e 0,3 mcg/cm2/h, rispettivamente. La biodisponibilit? del farmaco nei topi ? risultata di 8,3% circa dopo l’applicazione del patch e di circa 1,7% dopo somministrazione orale. Questi risultati, secondo gli autori, indicano che la permeazione transdermica di alendronato, usando questo tipo di patch, ? sufficiente per il trattamento delle patologie ossee. Il livello di calcio nel plasma ? apparso effettivamente ridotto dopo l’applicazione del patch in modelli murini di ipercalcemia indotta da 1-alfa-idrossivitamina D3. L’alendronato, inoltre, ha ridotto efficacemente la perdita di massa ossea in modelli murini di osteoporosi. Si ? osservato sulla pelle dell’animale un modesto eritema indotto dal bisfosfonato, ma tale effetto collaterale ? stato completamente eliminato con l’incorporazione di butilidrossitoluene nel patch, mentre venivano conservati la permeazione transdermica e gli effetti farmacologici dell’alendronato.

J Bone Miner Res, 2010 Jun 7. [Epub ahead of print]

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Epatite cronica E, primi risultati con i farmaci

Non esiste ancora un trattamento universalmente accettato per l’epatite cronica causata dal virus epatitico E (Hev). Due spunti interessanti sono apparsi in contemporanea sul sito web degli Annals of Internal Medicine. Il primo lavoro – una “brief communication” divulgata da Vincent Mallet, institut Cochin, universit? Paris Descartes e collaboratori – riporta i risultati del trattamento con ribavirina (12 mg/kg di peso corporeo al giorno per 12 settimane) su due pazienti con epatite cronica E confermata alla biopsia: si trattava di un soggetto sottoposto a trapianto di rene e pancreas e di un paziente con linfocitopenia idiopatica CD4 T. Entrambi i pazienti sono andati incontro alla normalizzazione dei test della funzione epatica dopo due settimane di terapia e a clearance di Hev dopo quattro settimane. Per l’intero periodo di follow-up (di 3 e 2 mesi rispettivamente) i livelli di Rna virale si sono mantenuti bassi, al punto da non essere identificabili mentre gli effetti collaterali sono stati giudicati di leggera entit?. Diversa, invece, la strategia terapeutica adottata da Laurent Alric e collaboratori dell’Ospedale universitario di Tolosa. In una “Lettera” alla rivista gli autori descrivono un caso di infezione cronica da Hev trattata con successo con interferone pegilato alfa. Secondo i clinici francesi si tratta, inoltre, del primo report di infezione cronica da Hev in un paziente immunocompromesso ma non sottoposto a terapia immunosoppressiva o positivo al virus Hiv. Il paziente in questione era un uomo di 57 anni affetto da leucemia a cellule capellute non trattata perch? indolente. La biopsia ha confermato la presenza di una leggera epatite lobulare, senza fibrosi: dopo un anno di follow-up senza terapia, ? stato instaurato un trattamento di tre mesi con interferone pegilato-alfa 2b (1 microgrammo/Kg di peso corporeo per settimana). Le concentrazioni di Hev Rna nel siero si sono ridotte dal valore basale di 5,6 log10 copie/mL a 2,4 log10 dopo 2 settimane di terapia. Il paziente ha ottenuto una risposta virologica completa in settimana 4. In settimana 7, gli enzimi epatici sono rimasti entro i limiti della norma mentre l’Hev Rna non era identificabile nelle feci. Dopo cinque mesi dall’interruzione del trattamento, i livelli di Rna virale nel siero erano inferiori al valore minimo per l’identificazione.

Ann Intern Med, 2010 Jun 14. [Epub ahead of print]

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