Realizzate dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l’Associazione dei Dermatologi Ospedalieri Italiani le linee guida sulla psoriasi contengono indicazioni per la pratica clinica di una malattia che riguarda il 3% degli italiani e che comporta in alcuni casi notevoli disagi individuali e oneri economici.
Per affrontare in modo omogeneo una patologia che è considerata sempre di più una malattia sistemica che ha un forte impatto sociale ed economico, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) in collaborazione con l’Associazione dermatologi ospedalieri italiani (ADOI) ha elaborato le nuove Linee Guida per “Il trattamento della psoriasi nell’adulto” che saranno valide fino al 2016. La psoriasi, di cui sono affetti circa 2 milioni di italiani, è tradizionalmente definita come una malattia infiammatoria della pelle ad andamento cronico-recidivante che, nella sua forma più comune, si manifesta con placche eritemato-squamose localizzate sulle superfici estensorie del corpo. Dal concetto di psoriasi intesa come patologia a esclusivo interessamento cutaneo, si stia rapidamente passando a quello di psoriasi intesa come malattia sistemica. Un ampio ventaglio di comorbilità può infatti associarsi alla psoriasi, fra le quali, oltre alla ben nota artropatia, sono comprese malattie infiammatorie croniche intestinali, patologie oculari, cardiovascolari, ipertensione, diabete, disturbi psicologici. Le linee guida rappresentano uno strumento utile a garantire il rapido trasferimento delle conoscenze elaborate dalla ricerca biomedica nella condotta clinica quotidiana, ancora molto eterogenea a livello nazionale. “Si tratta di raccomandazioni di buona pratica, formulate da panel multidisciplinari di professionisti, in cui trovano opportuna sintesi le migliori prove disponibili in letteratura e le opinioni degli esperti – afferma Ornella De Pità, dell’Istituto dermopatico dell’Immacolata di Roma e past president ADOI – a beneficio degli operatori sanitari e degli amministratori, per una migliore qualità e appropriatezza dell’assistenza resa al paziente. Oggi è più indicato parlare di psoriasi al plurale, dal momento che sono o sempre maggiori le modalità in cui si esprime la malattia”. Diagnosticata prevalentemente dal dermatologo comporta, non solo nei casi piu gravi, forti disagi. Il 90% dei pazienti tra i 18 e i 40 anni ha problemi dalla scelta dei vestiti alle attività sportive, al sonno alle attività scolastico/lavorative fino a disagi relazionali e sessuali. “Il paziente deve rivolgersi tempestivamente a un dermatologo per non lasciar suonare a vuoto eventuali campanelli d’allarme come l’interessamento ungueale o lesioni difficilmente rilevabili da parte di un occhio inesperto e per evitare di arrivare a comorbilità importanti come l’artrite psoriasica”, conclude Ornella De Pità “la quasi totalità delle psoriasi si può trattare efficacemente: a seconda della gravità sono disponibili prodotti topici, per le forme lievi-moderate, e farmaci sistemici, per le forme più gravi, in grado di tenere sotto controllo la patologia e assicurare una buona qualità della vita”. Il documento è stato realizzato con il finanziamento della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero della salute, nell’ambito delle attività del Sistema nazionale di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria (SiVeAS) ed è stato elaborato da un ampio gruppo di lavoro costituito dai più autorevoli esperti in materia esteso, per la prima volta, a tutte le figure professionali coinvolte nel trattamento della malattia e dai rappresentanti di pazienti: cinque dermatologi; un farmacologo; un oncologo-epidemiologo; due medici di medicina generale; un diabetologo; due reumatologi; un epidemiologo; un infermiere professionale e un rappresentante dei pazienti. In un momento delicato per il Servizio Sanitario Nazionale a causa delle limitazioni delle risorse disponibili è importante offrire alle regioni e alle Aziende sanitarie elementi di valutazione per fornire le migliori cure eliminando gli sprechi. Negli ultimi anni i progressi registrati nella comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della psoriasi hanno promosso lo sviluppo di nuovi farmaci che si sono aggiunti alle terapie topiche e sistemiche già tradizionalmente utilizzate. A oggi, quindi, le opzioni terapeutiche per il paziente psoriasico sono molteplici e il conseguimento di traguardi sempre più avanzati nel campo della ricerca lascia presagire che tali opzioni siano destinate a crescere rapidamente nel prossimo futuro. Un importante contributo all’arricchimento delle conoscenze in tale ambito è stato fornito dal progetto PsoCare avviato dall’Agenzia italiana del farmaco nel 2005, il quale ha valutato fin dalle prime fasi della loro commercializzazione i profili di efficacia/sicurezza dei nuovi farmaci registrati per il trattamento della psoriasi.
Nel mondo la prevalenza dei soggetti con una storia di neoplasia è in costante aumento e in Italia, secondo le stime del “Rapporto 2012 sulla condizione assistenziale del malato oncologico”, rappresenta il 4% della popolazione generale e il 15% della popolazione con più di 65 anni. Oggi la metà di questi pazienti ha una diagnosi di neoplasia da più di 5 anni e questa percentuale sale al 90% nei casi di tumore della mammella e della prostata. In questi soggetti la gestione del follow up, intesa come semplice sorveglianza di routine di eventuali recidive, è oggetto di una revisione critica nella prospettiva di cure proattive centrate sul paziente che comprendono la pianificazione sistematica di controlli basati sul rischio individuale, le terapie oncologiche eseguite, lo stile di vita e la presenza di comorbidità, condizione che caratterizza circa il 70% di questi pazienti1.
Per un Medico di Medicina Generale (MMG) questo significa che tra i suoi pazienti di età > 65 anni 1 su6 hauna storia positiva per neoplasia contratta in età adulta in cui è necessario:
programmare una visita periodica di routine associata a dei test con l’obiettivo di scoprire un’eventuale recidiva,
monitorizzare gli effetti ritardati del trattamento,
effettuare uno screening dell’insorgenza di nuovi secondi tumori primitivi e
fornire un adeguato supporto psicologico1
Storicamente la struttura del follow up è nata da quella degli studi clinici controllati che prevedevano contatti periodici e sistematici con schemi da protocollo e con priorità orientate ai risultati “generali” dello studio piuttosto che agli interessi “limitati” del paziente. La domanda che spesso i MMG si sono posti di fronte alle richieste di esami provenienti dal centro oncologico è quanto queste fossero adeguate ai bisogni del loro singolo paziente. Oggi anche i medici specialisti, per gli stessi motivi e per il crescente numero di studi che documentano l’importanza delle cure primarie2,3 nella gestione di un follow up oncologico centrato sul singolo paziente e condiviso con il MMG.
Nel caso del tumore della mammella, neoplasia che può recidivare anche dopo 15 anni dalla diagnosi iniziale, la sorveglianza rappresenta, pur con diversa intensità, un processo lungo tutta la vita della paziente. L’American Society of Clinical Oncology (ASCO) ha pubblicato un aggiornamento delle linee guida sul follow up che confermano come elementi chiave:
L’anamnesi accurata
L’esame obiettivo della paziente che dovrebbe essere fatto ogni 3 – 6 mesi per i primi 3 anni, e ogni 6 – 12 mesi nel 4° e 5° anno, in seguito annualmente.
L’educazione della paziente al riconoscimento dei sintomi sospetti (comparsa di nuovi noduli, dolori ossei, dolori toracici, dispnea, dolori addominali o cefalea persistente)
Quindi si raccomanda per il tumore della mammella un follow up che non necessita di interventi ad elevata tecnologia, ma di una sorveglianza in cui è prioritario il coordinamento delle cure per adeguare, in casi selezionati, ulteriori accertamenti e la condivisione con paziente e MMG di alcune raccomandazioni.
Il counseling genetico è opportuno nelle pazienti ad alto rischio, che include le donne con predisposizione razziale (Ebrei Ashkenazi), con una storia familiare di tumore della mammella o dell’ovaio e coloro che hanno una diagnosi personale o parentale di tumore mammario bilaterale.
L’autoesame del seno è utile per tutte le pazienti e andrebbe effettuato con frequenza mensile.
Le donne che hanno subito un trattamento conservativo (x es. quadrantectomia) dovrebbero eseguire una mammografia entro 1 anno dalla diagnosi, ma non prima di 6 mesi dalla fine della radioterapia.
Un esame ginecologico periodico è sempre consigliabile, in particolare in coloro che assumono tamoxifene, dove qualsiasi sanguinamento vaginale deve essere indagato in maniera approfondita.
Il follow up può essere trasferito alle competenze del MMG, dopo un anno, in donne con uno stadio di malattia iniziale (tumore < 5 cme < 4 linfonodi positivi), previa adeguata informazione da parte dello specialista oncologo del MMG e della paziente sulle modalità di una sorveglianza appropriata. Questa raccomandazione del trasferimento di “setting” del coordinamento delle cure è basata su evidenze che dimostrano come il follow up gestito dal MMG raggiunge gli stessi esiti di quello gestito dallo specialista e con una miglior soddisfazione da parte delle pazienti3. Infatti un follow up intensivo non determina un vantaggio per la sopravvivenza o un miglioramento della qualità di vita rispetto a un programma di sorveglianza normale e gestito nell’ambito delle cure primarie. In particolare per una prassi routinaria di follow up del tumore della mammella attualmente non sono raccomandabili: esami del sangue, studi di immagine (ecografia dell’addome, rx del torace, scintigrafia ossea), markers tumorali. L’utilità dei marcatori andrà valutata in studi ulteriori e nuove raccomandazione utili per una diagnosi di recidiva di tumore mammario saranno prodotte per linee guida basate sulla valutazione del rischio specifico da utilizzare incasi particolari (tumori triplo negativi) e anche per identificare subset di pazienti in cui andrà valutato attentamente che modello di cure offrire. Infatti rimane prioritario migliorare l’efficacia delle procedure di sorveglianza perchè, sfortunatamente per le pazienti, il 69% delle recidive si manifesta ancora nell’intervallo tra gli esami programmati.
Bibliografia
HudsonSV et al.Adult Cancer Survivors Discuss Follow-up in Primary Care: ‘Not What I Want, But Maybe What I Need’Ann Fam Med 2012;10:418:27
Grunfeld ECancer survivorship: a challenge for primary care physiciansBr J Gen Pract 2005; 96:741-2
Grunfeld E,LevineMN, Julian JA, et al.Randomized trial of long-term follow-up for early-stage breast cancer: a comparison of family physician versus specialist care.J Clin Oncol. 2006;24(6):848–855
Khatcheressian JL et al, for American Society of Clinical Oncology.Breast Cancer Follow-up and Management after Primary Treatment: American Sociaty of Clinical Oncology Update.J Clin Oncol 20126 Nov 5;30:5091-7
Ipertrigliceridemia, nuove linee-guida della Endocrine Society
Realizzate le nuove linee-guida sull’ipertrigliceridemia a cura della Endocrine Society, pubblicate dal Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism ma a disposizione per il download gratuito sul sito internet della Endocrine Society.
La Task Forceche le ha stilate comprende un chairman scelto dall’Endocrine Society Clinical Guidelines Subcommittee (CGS), cinque esperti e un metodologo: nessuno ha ricevuto pagamenti o finanziamenti di alcun genere. Il consenso sulle linee-guida è stato raggiunto mediante la revisione sistematica dell’evidenza e la discussione tra i membri della Task Force. Le linee-guida sono state successivamente revisionate e approvate dall’Endocrine Society Clinical Guidelines Subcommittee (CGS), dal Clinical Affairs Core Committee, dai soci della Endocrine Society via mail e infine dall’Endocrine Society Council.
I punti salienti delle linee-guida?La Task Forcericorda che una ipertrigliceridemia lieve o moderata (150–999 mg/dl) è un importante fattore di rischio cardiovascolare e una ipertrigliceridemia grave (> 1000 mg/dl) è un fattore di rischio per la pancreatite. Raccomanda poi che la diagnosi di ipertrigliceridemia avvenga mediante la misurazione dei livelli di trigliceridi a digiuno e che gli adulti vadano obbligatoriamente screenati al massimo ogni 5 anni. Nei pazienti con diagnosi di ipertrigliceridemia i successivi controlli devono comprendere la misurazione dei livelli di apolipoproteina B – apoB e lipoproteina (a) – Lp(a). Si sottolinea inoltre che nei pazienti con diagnosi di ipertrigliceridemia debbano essere prese in considerazione cause secondarie di ipertrigliceridemia (comprese disfunzioni endocrine e trattamenti farmacologici), storia familiare di dislipidemia e patologie cardiovascolari. Altri fattori di rischio cardiovascolare eventualmente presenti in tali pazienti andranno valutati con la massima attenzione.
Il trattamento iniziale raccomandato dalla Task Force si limita alle modifiche degli stili di vita, quindi il clinico dovrà effettuare un counseling dietetico, mirare a una significativa riduzione del peso corporeo nel caso di pazienti sovrappeso, e avviare il paziente ad una corretta attività fisica.
Nei pazienti a rischio di pancreatite va aggiunto anche un trattamento farmacologico di prima linea a base di fibrati. Nei pazienti con ipertrigliceridemia da moderata a grave le opzioni di trattamento da considerare sono fibrati, niacina e acidi grassi n-3 da soli o in combinazione con statine. Le statine non vanno prescritte in monoterapia nei pazienti con ipertrigliceridemia grave e molto grave, anche se possono essere molto utili nel trattamento dell’ipertrigliceridemia moderata per modificare il rischio cardiovascolare.
▼ Berglund L, Brunzell JD, Goldberg AC, Stalenhoef AFH et al. Evaluation and Treatment of Hypertriglyceridemia: An Endocrine Society Clinical Practice Guideline. The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2012;97(9):2969-2989 doi: 10.1210/jc.2011-3213
CARD-1057338-0000-UNV-W-10/2014
Malattia renale cronica e controllo della pressione arteriosa
Evidenze scientifiche per la gestione dei pazienti adulti e pediatrici
15.La Malattia RenaleCronica (MRC) è una patologia estremamente comune negli adulti e colpisce circa il 10% della popolazione anziana. Le cause più comuni di MRC sono il Diabete Mellito tipo 2 e l’Ipertensione Arteriosa, alle quali seguonola Nefropatiaad IgA,la Glomerulosclerosi Focale,la Malattiadel rene Policistico ela Nefropatiada Reflusso. La progressione della MRC dipende da una serie di fattori concomitanti come quelli legati alla patologia di partenza, la presenza o meno di comorbidità, il tipo di intervento terapeutico, lo stato socio-economico, la predisposizione genetica e l’etnia. La progressione verso lo stadio terminale della malattia renale (ESRD) e la necessità di terapia renale sostitutiva è un evento comune. E’ noto chela MRCaumenta il rischio di eventi cardiovascolari (infarto, ictus, morte Improvvisa etc.) i quali intervengono nel corso della progressione della MRC causando aumento di morbilità e mortalità nel paziente nefropatico. Una strategia terapeutica rivolta al rallentamento della progressione della malattia ed alla riduzione dell’alto rischio cardiovascolare sono il goal vincente per questo paziente.
16. Le attuali evidenze scientifiche sulla MRC confermano che l’Ipertensione e la proteinuria sono non solo dei markers di patologia, ma anche dei fattori indipendenti di progressionedella stessa verso gli stadi terminali. Dal punto di vista fisiopatologico il Sistema Renina-Angiotensina (RAS) gioca un ruolo fondamentale, anche se nella gestione clinica del paziente nefropatico devono essere considerati e valutati, oltre ai classici fattori (fumo obesità e glucotossicità), la dislipidemia (livelli di colesterolo LDL-c), lo stress ossidativo e l’infiammazione, senza dimenticare il disordine del metabolismo calcio-fosforo-vitamina D e l’anemia.
17. In una revisione pubblicata su Nature Reviews Nephrology sono riportate le evidenze del ruolo dell’ipertensione, dell’importanza della comparsa di proteinuria e quali siano le migliori e più documentate strategie terapeutiche da mettere in atto nella MRC per rallentarne la progressione. E’ consolidato il fatto che l’ipertensione rappresenti un fattore di rischio indipendente per la progressione della malattia sia nei pazienti adulti che nei pazienti pediatrici con problemi renali. I dati emersi dagli studi clinici indicano che il tasso di progressione della MRC può essere diminuito da interventi farmacologici. Attualmente la strategia nefroprotettiva si concentra sul blocco del Sistema Renina-Angiotensina (RAS). Gli ACE-inibitori e gli antagonisti del recettore dell’angiotensina forniscono un controllo efficace non solo della pressione arteriosa, ma anche della proteinuria. Nei pazienti pediatrici e nei pazienti con proteinuria è evidente un ulteriore vantaggio legato allo stretto controllo della pressione in un range più basso (<125/75 mmHg) rispetto al convenzionale goal terapeutico (<140/90 mmHg).
18. Dal punto di vista fisiopatologico la naturale storia di evoluzione della MRC è molto ben conosciuta e lineare, rifacendosi alla “Ipotesi di Brenner” che afferma come ogni perdita critica di massa renale (numero di nefroni), indipendentemente dalla natura dell’initial injuri(insulti pressori, immunocomplessi o anticorpi, glucosio o LDL-C), porta all’aumento della filtrazione di ogni singolo nefrone (teoria dell’Iperfiltrazione). Tale meccanismo compensatorio presente nelle prime fasi, diventa poi dannoso per il nefroneportando ad ipertrofia glomerulare e tubulare, con danno alle cellule endoteliali ed ai podociti. La comparsa di proteinuria sempre più elevata favorisce quindi la progressione verso la totale perdita dei nefroni residui. In questa fase la progressione è indipendente dalla causa scatenante e la progressione della MRC volge ineludibilmente verso l’ESRD e la terapia dialitica sostitutiva.
19. Le evidenze sperimentali e cliniche suggeriscono come gli antagonisti del RAS preservino la funzione renale non solo abbassando il livello della pressione arteriosa, ma anche con meccanismi specifici antiproteinurici e anti-infiammatori. Allo stato attuale delle conoscenze è ancora controverso quanto un rigoroso controllo della pressione arteriosa possa esercitare ulteriori effetti benefici sulla progressione della malattia renale, mentre esistono le prove del notevole vantaggio nefroprotettivo per i bambini con insufficienza renale cronica e per i pazienti con proteinuria. Nella pratica clinica, in questi sottogruppi di pazienti, l’utilizzo degli antagonisti RAS come classe di farmaci di prima scelta permette di raggiungere target pressori più bassi mantenendo buoni profili di tollerabilità e sicurezza.
20. In considerazione di tali evidenze è cruciale per il medico pratico focalizzare la sua attenzione ad intercettare i pazienti a rischio di MRC, diagnosticarela MRCnegli stadi iniziali e mettere in atto quelle strategie educative (stile di vita, fumo, obesità) e terapeutiche (trattarela PA, ridurre i livelli di LDL-c, mantenere un corretto controllo metabolico del diabete, non usare farmaci nefrotossici) con l’obiettivo non solo di rallentare l’evoluzione della MRC, ma anche di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.
Una ridotta secrezione di melatonina è associata a un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. Ecco la conclusione di uno studio portato avanti da alcuni ricercatori del Dipartimento di medicina del Brigham and women’s hospital di Boston, Massachusetts
Una ridotta secrezione di melatonina è associata a un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2. Ecco la conclusione di uno studio portato avanti da alcuni ricercatori del Dipartimento di medicina del Brigham and women’s hospital di Boston, Massachusetts, e pubblicato sul numero del 3 aprile di Jama.
Ormone con effetti pleiotropici La melatonina, secreta dalla ghiandola pineale seguendo i ritmi circadiani, è un ormone dagli effetti pleiotropici, con ruoli nella regolazione del peso corporeo e del metabolismo energetico. La presenza di suoi recettori nelle isole pancreatiche ne suggerisce un coinvolgimento nella regolazione dei livelli di glucosio. Inoltre, diverse sono le evidenze che indicano come una ridotta secrezione o un diminuito signaling della melatonina possano alterare la sensibilità all’insulina e causare diabete di tipo 2. «Studi sugli animali hanno mostrato che la mancanza di un recettore funzionale per la melatonina produce insulinoresistenza e diabete tipo 2, mentre l’assunzione di melatonina è risultata protettiva in ratti predisposti a sviluppare diabete» spiega il primo autore del lavoro, Ciaran McMullan, il quale sottolinea anche come studi Gwas (genome-wide association studies) abbiano correlato alcuni polimorfismi del gene umano per il recettore 1B della melatonina (Mtnr1b) a elevati livelli di emoglobina glicata e di glucosio a digiuno, oltre che a un aumento dell’incidenza di diabete gestazionale e di tipo 2. Per chiarire il legame tra secrezione di melatonina e incidenza di diabete nell’uomo, i ricercatori hanno condotto uno studio caso-controllo, su una coorte di soggetti arruolati nel Nurses’ health study.
Servono studi su sonno e integratori Tra le partecipanti, che non avevano diabete all’inizio dello studio e che avevano fornito campioni di sangue e urina nel 2000, sono state identificate 370 donne che hanno sviluppato diabete tipo 2 tra il 2000 e il 2012, e altre 370 che sono state usate come controllo. Misurando il rapporto tra 6-sulfatossimelatonina e creatinina, e utilizzando analisi statistiche che hanno tenuto conto di fattori come caratteristiche demografiche, stile di vita, misure della qualità del sonno e biomarker di infiammazione o disfunzione endoteliale, i ricercatori hanno trovato che i soggetti con un rapporto sulfatossimelatonina/creatinina più basso erano più rappresentati tra coloro che avevano sviluppato diabete, mentre i rapporti più alti si trovavano tra i controlli. Inoltre la sensibilità all’insulina era maggiore tra le donne con rapporto elevato. «I soggetti con i rapporti di sulfatossimelatonina/creatinina più bassi avevano un rischio di sviluppare diabete di tipo 2 circa 2,2 volte maggiore rispetto ai soggetti che avevano i rapporti più alti, con un tasso di incidenza di 9,27 casi per 1.000 persone anno rispetto ai 4,27 per 1.000 persone anno rispettivamente» spiega McMullan. «Da questi dati e considerate le evidenze presenti in letteratura, possiamo ipotizzare un ruolo causale della melatonina nella ridotta secrezione di insulina e nell’aumentato rischio di diabete. Ulteriori studi sono necessari per stabilire se aumentare i livelli di melatonina – attraverso più ore di sonno o mediante integrazione esogena – possa aumentare la sensibilità all’insulina e diminuire l’incidenza di diabete tipo 2» conclude l’esperto.
Un medico, se è in eccesso di peso, può causare un impatto negativo sul suo rapporto con i pazienti. Lo rivela un gruppo di ricercatori della Yale University, a New Haven (Usa), che hanno verificato come gli adulti abbiano maggiori probabilità di riporre poca fiducia nei medici che considerano sovrappeso od obesi rispetto a quelli percepiti come normopeso. Più precisamente, se un camice bianco non appare “sano”, i pazienti sono meno inclini a seguirne i consigli sullo stile di vita, specie la necessità di perdere peso, e sono più propensi a cambiare medico. «Vi è uno stigma diffuso e pervasivo sul peso» afferma il primo autore, Rebecca M. Puhl «e i pazienti non ne sono immuni. Possono dunque fare considerazioni sui medici basate solo sull’apparenza». Gli studiosi hanno suddiviso in modo randomizzato un campione nazionale di 358 adulti in tre gruppi, nei quali i partecipanti hanno compilato un questionario utile ad analizzare le loro percezioni di medici descritti come normopeso, in sovrappeso od obesi. La survey si è soffermata sull’importanza del peso corporeo; inoltre gli intervistati hanno compilato la Fat Phobie Scale, composta da 14 coppie di aggettivi di solito usati per descrivere i soggetti obesi. Si è così visto che il pregiudizio negativo verso i medici obesi, rilevato dalla Fat Phobie Scale, è rimasto costante indipendentemente dal peso corporeo dei partecipanti, con costante maggiore vulnerabilità ai pregiudizi per i medici obesi rispetto ai normopeso. Per rafforzare il rapporto fiduciale con il paziente, un medico con Bmi elevato può parlare del proprio peso gli assistiti: condividere la difficoltà del dimagrimento può ridurre lo stigma verso i clinici con Bmi elevato. In ogni caso è fondamentale che i medici migliorino le proprie condizioni di salute, secondo Arya M. Sharma, dell’università dell’Alberta (Canada), eliminando i fattori chiave per lo sviluppo di sovrappeso e obesità: mancanza di equilibrio tra vita extralavorativa e lavoro, tempo insufficiente per mangiare e fare adeguato esercizio, stress e troppo poco sonno.
I medici, prima di offrire ai pazienti la possibilità di eseguire un test dell’antigene prostatico-specifico (Psa), devono essere espliciti nell’illustrarne i limitati benefici e i reali pericoli. Questa raccomandazione, contenuta nelle nuove linee guida rilasciate dall’American College of Physicians (Acp), rende l’idea di come sia mutata la strategia della comunità scientifica nel ricorso al test il quale, sempre secondo l’Acp, va evitato anche negli uomini di età inferiore a 50 anni, oltre i 69 anni o con un’aspettativa di vita inferiore a 10-15 anni. Per i pazienti 50enni e 60enni, il bilancio tra rischi e benefici è variabile e il ricorso va individualizzato; in questi casi – afferma Amir Qaseem, responsabile del programma per le linee guida dell’Acp – è importante dare tutte le informazioni utili al paziente affinché sia lui a decidere se effettuare il test o meno; il medico dovrebbe anzi astenersi dal prescriverlo senza una chiara espressione di preferenza manifestata dall’assistito. Il timore è che lo screening riveli forme cancerose che non potrebbero mai influire sulla sopravvivenza, perché troppo piccole o a crescita lenta, mentre il trattamento provocherebbe effetti collaterali come incontinenza e impotenza. David Bronson, presidente dell’Acp, ribadendo che l’attuale test del Psa presenta varie limitazioni, aggiunge che vi sono però grandi chance di innovazione nel settore. «Abbiamo bisogno di approcci più raffinati a questa malattia» sottolinea «tali da consentire diagnosi migliori e più accurate». Ma sul tema vi è disaccordo tra le diverse organizzazioni scientifiche Usa. La controversia è nata dopo le critiche all’utilità del test espressa da una commissione governativa, la U.S. Preventive services task force (Uspstf). L’American urological association (Aua), dopo aver accusato l’Uspstf di aver creato un grave disservizio, “diffamando” l’unico marker ampiamente disponibile, ha convenuto che la scelta del test deve essere individualizzata e condivisa. L’Aua non si è però espressa sulle raccomandazioni Acp, annunciando l’uscita di linee guida autonome a breve.
Il fatto La Sezione regionale Veneto dell’Associazione italiana fisioterapisti ha impugnato due delibere adottate dalla Regione, ritenendole in contrasto con la normativa statale, in quanto delineano un ruolo del fisioterapista meramente esecutivo e privo di autonomia rispetto a quello del fisiatra, al quale attribuiscono non solo il compito di effettuare la diagnosi, ma anche quello di stabilire le specifiche prescrizioni oggetto del programma riabilitativo individuale.
Profili giuridici Il Consiglio di Stato ha chiarito come la normativa nazionale di riferimento vada intesa nel senso di prevedere la possibilità per il fisioterapista di prestare la propria attività, avendo come riferimento le diagnosi e le prescrizioni del medico, sia autonomamente che in équipe, ma solo in funzione esecutiva delle prescrizioni mediche. Pertanto, l’autonomia del professionista sanitario si può esplicare solo nel presupposto dell’esistenza delle prescrizioni indicate dal fisiatra, quale coordinatore dell’equipe riabilitativa.
«Le considerazioni dell’American college of physicians (Acp) sull’impiego del Psa come screening di popolazione riprendono un dibattito che dura da molti anni». Lo ricorda Giario Conti, responsabile U.O. di Urologia all’Ospedale S.Anna di Como e presidente della Società italiana di urologia oncologica (Siuro). «Mentre la mammografia e la ricerca del sangue occulto nelle feci sono stati valutati idonei a scoprire precocemente il rischio, rispettivamente, di cancro della mammella e del colon con un rapporto favorevole tra costo (economico/biologico/psicologico) e beneficio, nel caso del Psa tale vantaggio non sembra essere stato raggiunto». Esistono, infatti, tumori prostatici che non richiederebbero il trattamento in quanto non in grado di influire sulla sopravvivenza del paziente. «Effettivamente l’overtreatment è insito nello screening e ciò costituisce un problema nella comunicazione con il paziente. Andrebbe in realtà spezzato il binomio overdiagnosis-overtreatment» prosegue Conti. «Inoltre, a tutt’oggi, non vi è nemmeno condivisione sull’età in cui eventualmente fare lo screening: per l’Acp è inutile prima dei 50 anni, altri sostengono che tale limitazione è ingiustificata». L’argomento, peraltro, era stato già affrontato due anni fa dalla Siuro – dopo la pubblicazione di due grandi screening (uno Usa, l’altro europeo) – con la stesura di un decalogo ancora attuale «in cui si afferma» spiega il presidente Siuro «che, per ora, non esistono dati per giustificare uno screening di massa, ma che sicuramente il test è indicato in alcune categorie di pazienti “a rischio” per familiarità, sintomatologia urinaria, etnia (soggetti afroamericani). Se poi è il paziente a chiedere l’esame, occorre dare l’informazione corretta sul significato del test e sulle possibili conseguenze della sua effettuazione, come ora conferma l’Acp». L’iter diagnostico-terapeutico, infatti, può essere pesante, e ciò è grave se non vi è la certezza della necessità di trattamento. «Per ovviare a ciò sono stati avviati programmi di sorveglianza attiva che consentono di identificare i pazienti da tenere in osservazione senza intervenire subito. Una pratica che potrebbe divenire meno pressante quando saranno disponibili, oltre al Pca-3 e al Phi, nuovi marker (o panel di marcatori) biomolecolari o genetici più precisi nella predizione del rischio su tempi lunghi».
La steatosi epatica non alcolica (Nafld) non accresce la mortalità tra gli adulti, ma la fibrosi sì. Ecco in sintesi le conclusioni di uno studio pubblicato su Hepatology, frutto della collaborazione trala Mayo Clinicdi Rochester, nello stato di New York, e l’Università di Ulsan a Seul
La steatosi epatica non alcolica (Nafld) non accresce la mortalità tra gli adulti, ma la fibrosi sì. Ecco in sintesi le conclusioni di uno studio pubblicato su Hepatology, frutto della collaborazione tra la Mayo Clinic di Rochester, nello stato di New York, e l’Università di Ulsan a Seul, in Corea del Sud. «La Nafld è frequente negli adulti e tra i suoi fattori di rischio ci sono obesità, diabete e dislipidemie» spiega Terry Therneau, ricercatore della Mayo e coordinatore dello studio, sottolineando come nei paesi occidentali vi sia un progressivo aumento dell’obesità, che oltreoceano è più che raddoppiata nell’ultimo quarto di secolo. «La Nafld può assumere diversi aspetti, da una semplice infiltrazione grassa del fegato – la steatosi – alla steato-epatite non alcolica, la cosiddetta Nash, in cui si aggiunge una componente infiammatoria, con vari gradi di fibrosi e cirrosi» riprende il ricercatore. I pazienti con steatosi semplice sembrano avere una prognosi benigna, mentre chi ha la Nash può sviluppare una fibrosi progressiva a prognosi infausta. Per studiare l’impatto a lungo termine della Nafld e della sua componente fibrotica sulla mortalità, il team ha utilizzato i dati del terzo National Health and Nutrition Examination Survey (Nhanes III), uno studio di coorte svolto dal National Center for Health Statistics con i Centri per il controllo e prevenzione delle malattie (Cdc), tra 1988 e 1994, con follow up sulla mortalità fino al 2006. La Nafld è stata diagnosticata mediante ecografia e la fibrosi usando marcatori combinati come il Nafld Fibrosis Score (Nfs), un punteggio composito che include età, indice di massa corporea, conta piastrinica, albumina, rapporto fra le transaminasi Ast e Alt, e presenza di diabete. Quali i risultati? Degli 11.154 partecipanti, il 34% aveva Nafld e, tra questi, l’Nfs era negativo nel 72% dei casi e positivo per fibrosi avanzata nel 3%. Ma la buona notizia è che dopo 15 anni di follow-up, la Nafld non aumenta la mortalità, che invece cresce, specie per cause cardiovascolari, con l’avanzare della fibrosi. «I dati confermano che la Nafld da sola è benigna» dice Therneau. «Bisogna invece seguire con attenzione l’evoluzione della fibrosi, integrando nel follow up interventi di riduzione del rischio cardiovascolare» conclude l’esperto.
Una volta rimosso il cancro al seno, rimane il dolore che non solo può persistere fino a 5-7 anni dalla chirurgia, ma varia nel tempo, diminuendo o aumentando a seconda dei casi. Ecco le conclusioni di un articolo pubblicato su British Medical Journal
Una volta rimosso il cancro al seno, rimane il dolore che non solo può persistere fino a 5-7 anni dalla chirurgia, ma varia nel tempo, diminuendo o aumentando a seconda dei casi. Ecco le conclusioni di un articolo pubblicato su British Medical Journal da un gruppo di ricercatori del Rigshospitalet, Università di Copenhagen, in Danimarca. «Il carcinoma mammario è il tumore più comune tra le donne, con oltre un milione di nuovi casi l’anno» afferma Henrik Kehlet, professore di chirurgia al Rigshospitalet e coordinatore dello studio. Fortunatamente la prognosi è migliorata negli ultimi 30 anni, e la sopravvivenza a cinque anni è salita a quasi l’85%. Di conseguenza la popolazione di sopravvissute a lungo termine è aumentata, e con essa è cresciuta la necessità di conoscere i più frequenti esiti a lungo termine del trattamento della malattia. «Uno di questi è il dolore, che persiste dopo la chirurgia con una frequenza compresa tra il 25 e il 60%, a seconda degli studi considerati» riprende il chirurgo danese, precisando che il dolore di cui si parla è quello localizzato dentro e intorno alla zona operata e che dura oltre 3 mesi dopo l’intervento. I disturbi sensoriali influiscono in modo negativo sulla qualità della vita e hanno conseguenze economiche sull’assistenza sanitaria. «Tuttavia, nonostante la sua importanza, non esistono studi a lungo termine sull’argomento» osserva Kehlet che, con i colleghi, ha esaminato le caratteristiche e l’evoluzione del disturbo sensoriale in 5.119 donne operate in Danimarca tra il 2005 e il 2006 per carcinoma mammario. «Nel 2008 è stato inviato alle donne operate un questionario, restituito da 3.253 delle pazienti, e nel 2012 ne è stato inviato un altro, riconsegnato da 2.411 partecipanti» spiega il ricercatore. I dati raccolti indicano che la prevalenza di dolore persistente varia dal 22 al 53% a seconda del tipo di intervento. Ma il fatto interessante è che per un terzo delle donne che lamentava dolore nel 2008 il male scompariva nel 2012. Viceversa, un sesto di quelle che non sentiva dolore nel 2008 lo ha riferito nel 2012. «Il dolore, quindi, fluttua nel tempo, e i fattori di rischio sono la dissezione linfonodale ascellare, rispetto alla biopsia del linfonodo sentinella, e l’età inferiore a 49 anni» conclude il chirurgo, auspicando studi di approfondimento sui meccanismi dei disturbi sensoriali dopo chirurgia mammaria.
Da questo mese è disponibile anche in Italia abiraterone, nuovo farmaco a somministrazione orale approvato a settembre 2011 dall’Ema, per il trattamento del ca prostatico resistente alla terapia ormonale classica in pazienti che hanno già ricevuto un trattamento chemioterapico a base di docetaxel. Nei tumori in fase avanzata, dopo che si sono già praticate o escluse le opzioni classiche di chirurgia e radioterapia, si passa all’ormonoterapia «finchè le cellule tumorali si adattano e ricominciano a crescere: in questi casi l’unica opzione era rappresentata dalla chemioterapia» dice Giario Conti primario di Urologia all’Ospedale S. Anna di Como, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO), mentre «abiraterone riesce a inibire uno degli enzimi necessari al tumore per autoprodurre testosterone, il CYP17, bloccando così gran parte della produzione endogena di androgeni a livello dei testicoli e anche del surrene (diversamente dall’ormonoterapia)». Il nuovo medicinale, presentato in conferenza stampa ieri a Milano, negli studi registrativi ha mostrato di prolungare la sopravvivenza del 40% e ridurre la mortalità del 25% rispetto ai controlli, risultati significativi in una fase così avanzata di malattia. Purtroppo l’introduzione sul mercato di nuovi farmaci avviene, in Italia, anche con 2 anni di ritardo rispetto all’approvazione centralizzata dell’Ema, a causa delle procedure burocratiche interne, «tuttavia abiraterone parte avvantaggiato perché» ha sottolineato Massimo Scaccabarozzi, amministratore delegato di Janssen Italia e presidente Farmindustria «l’Aifa l’ha definito prodotto innovativo e, in virtù del decreto legge Balduzzi, ciò ne consente l’immediata disponibilità in tutto il territorio, senza gli ulteriori ritardi dovuti al passaggio ai singoli prontuari regionali».