Oncogeni, tiroidite e cancro tiroideo

30 Set 2010 Oncologia

Si ampliano le conoscenze sulle interrelazioni tra oncogeni, tiroidite e cancro tiroideo, grazie anche agli studi dell’unit? di Endocrinologia della Fondazione policlinico di Milano e del dipartimento di Scienze mediche del locale ateneo. ? noto che gli oncogeni dei tumori tiroidei sono in grado di indurre la formazione di un microambiente infiammatorio protumorigeno. Su questa base i ricercatori del capoluogo lombardo hanno voluto studiare pi? a fondo il carcinoma papillare della tiroide (Ptc), associato a fenomeni di autoimmunit?. Sono stati analizzate le caratteristiche cliniche e molecolari e le espressioni di geni correlati all’infiammazione di pazienti affetti da Ptc, con o senza tiroidite associata (gruppo A, n=128 e gruppo B, n=215). Non si sono registrate differenze significative sotto il profilo clinico e prognostico tra i due gruppi, ma il background genetico era molto diverso, con l’oncogene Ret/Ptc1 maggiormente rappresentato nei pazienti con Ptc associata ad autoimmunit? e il Braf(V600E) pi? presente in quelli con sola Ptc. Un riarrangiamento Ret/Ptc ? stato riscontrato anche nel 41% dei tessuti tiroidei infiammati ma non neoplastici, controlateralmente ai tumori con mutazioni sia Ret/Ptc sia Braf. L’espressione dei geni codificanti per CCL20, CXCL8 e l-selectina ? stata significativamente maggiore nei campioni di Ptc rispetto a quelli di tessuto tiroideo normale. Al contrario, le tiroiditi hanno mostrato livelli di espressione di l-selectina anche superiori a quelli del Ptc, ma i valori di CCL20 e CXCL8 erano paragonabili a quanto rilevato nel tessuto normale. Ricapitolando: esiste un differente retroterra genetico tra Ptc a seconda che sia associata o meno un’autoimmunit?; lo stretto legame tra Ret/Ptc1 e tiroidite evidenzia il ruolo decisivo dell’oncoproteina nella modulazione della risposta autoimmune; infine, studi preliminari indicano una maggiore presenza di molecole infiammatorie nei Ptc, suggerendo una relazione proinfiammatoria e non autoimmune tra tiroidite e cancro mammario.
Clin Endocrinol, 2010; 72(5):702-8

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Calcolo del rischio cv pi? preciso con tre marker in pi?

29 Set 2010 Cardiologia

La misurazione dei livelli ematici di frammento aminoterminale del pro-peptide natriuretico cerebrale (Nt-proNb), proteina C-reattiva (Pcr) e troponina I sensibile, ossia di biomarker aggiuntivi rispetto a quelli impiegati nella pratica convenzionale, ha permesso di migliorare la valutazione del rischio cardiovascolare a 10 anni in due coorti europee costituite da persone di mezza et?. Per arrivare a questo risultato, Stefan Blankenberg, dell’universit? Johannes Gutenberg di Magonza (Germania), e collaboratori sono partiti dalla valutazione di trenta nuovi biomarker, appartenenti a differenti vie fisiopatologiche, in 7.915 uomini e donne della coorte Finrisk97, sani al basale, quando ? stato effettuato il dosaggio dei marcatori. Tra questi soggetti si sono registrati 538 attacchi cardiovascolari a 10 anni (eventi coronarici o ictus fatali o non fatali) e ci? ha portato allo sviluppo di un punteggio da biomarcatori successivamente sottoposto a validazione in un’altra coorte, denominata Belfast prime, composta questa volta da soli uomini (n=2.551) nei quali si sono poi avuti 260 eventi. Non si ? riscontrato alcun biomarker che da solo riuscisse a migliorare in modo consistente la stima del rischio cardiovascolare negli uomini e nelle donne del Finrisk97 e negli uomini del Prime. In ogni caso, le associazioni pi? forti in tal senso si sono rilevate con Nt-proNb (1,23), Prc (1,23), peptide natriuretico di tipo B (1,19) e troponina sensibile (1,18). Selezionando questi ultimi, si ? allora sviluppato un nuovo punteggio dalla coorte Finrisk97 e lo si ? aggiunto a un modello convenzionale di fattori di rischio nella coorte maschile Belfast prime, dove ? stato validato: il suo impiego, infatti, ha permesso di migliorare la statistica, la discriminazione integrata e ha consentito l’effettuazione di una riclassificazione significativa degli individui tra le varie categorie di rischio. Sono comunque necessarie ulteriori validazioni, in altre popolazioni e gruppi d’et?.

Circulation, 2010; 121(22):2388-97

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Fa post-infarto: rischio a breve termine da antiaritmici

28 Set 2010 Cardiologia

Arriva una nuova conferma, questa volta proveniente dallo studio Valiant (Valsartan in acute myocardial infarction), sul fatto che esiste una popolazione di pazienti con fibrillazione atriale (Fa) in cui l’uso di farmaci antiaritmici pu? aumentare il rischio di morte. Si tratta dei soggetti con aritmia successiva a un infarto miocardico (Mi), nei quali l’adozione di una strategia di controllo del ritmo basata sugli antiaritmici risulta associata a una maggiore mortalit? a 45 giorni rispetto a una strategia di controllo della frequenza. Il trattamento antiaritmico, peraltro, non risulta correlato a un aumento della mortalit? al di fuori dell’immediato periodo perinfartuale. Sono queste le evidenze tratte dall’analisi effettuata da Kent R. Nilsson e collaboratori del Duke university Medical center di Durham (Stati uniti) sui dati di 1.131 pazienti con Af dopo Mi, classificati secondo il tipo di trattamento ricevuto in due categorie: controllo del ritmo (n=371) e controllo della frequenza (n=760). Usando modelli di Cox, i ricercatori hanno confrontato i due gruppi in relazione al decesso e all’ictus (gli outcome principali) durante due differenti e predeterminati periodi di tempo dopo la randomizzazione: 0-45 giorni e 45-1.096 giorni. Dopo correzioni per fattori confondenti, si ? verificato che la strategia di controllo del ritmo era associata a un aumento della mortalit? precoce (0-45 giorni, Hr 1,9) ma non di quella tardiva (45-1.096, Hr 1,1), mentre non si sono osservate differenze nell’incidenza di ictus nei due periodi di tempo (Hr 1,2 e 0,6, rispettivamente).

Heart, 2010; 96(11):838-42

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Epatite C, dalla clearance virale dipende la mortalit

I pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C (Hcv) sono esposti a un rischio maggiore di morte rispetto ai soggetti che sono andati incontro a clearance virale. La sostanziale associazione tra infezione cronica da Hcv e morte per cancro epatico primario supporta l’adozione di una strategia che preveda l’instaurazione precoce del trattamento antivirale. I dati in questione si riferiscono a una coorte di pazienti danesi sottoposti, tra il 1996 e il 2005, ad almeno una misurazione di Hcv Rna dopo essere risultati positivi ai test anticorpali. Gli autori dell’indagine, guidati da Lars Haukali Omland, del Dipartimento di malattie infettive al Rigshospitalet di Copenhagen, hanno esaminato la prognosi a lungo termine di 6.292 pazienti, di cui il 63% era portatore di un’infezione cronica da Hcv mentre nel restante 37% si era verificata la clearance virale. L’86% degli infetti in modo cronico e il 92% del gruppo clearance erano ancora vivi dopo cinque anni. L’infezione cronica ? risultata associata a una mortalit? globale (Mrr 1,55) e a un rischio di morte per cause epatiche (Sdhr 2,42) pi? alti. L’infezione cronica da Hcv, infine, ha comportato un notevole aumento del rischio di morte per cancro epatico primario (Sdhr 16,47).

J Hepatology, 2010; 53(1):36-42

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Degenerazione maculare, Mab supera standard

Nei soggetti con degenerazione maculare neovascolare correlata all’et?, iniezioni intravitreali di bevacizumab sono superiori alla terapia standard (pegaptanib, verteporfin) nel determinare un miglioramento dell’acuit? visiva in un periodo medio di 54 settimane, con un basso tasso di eventi avversi oculari. ? quanto ha dimostrato un trial prospettico, in doppio cieco, multicentrico, randomizzato e controllato, effettuato da Adnan Tufail, del Moorfields eye hospital Nhs foundation trust di Londra, e collaboratori su 131 pazienti (et? media 81 anni) con degenerazione maculare, afferiti a tre strutture oftalmologiche del Regno unito e assegnati in modo casuale, in proporzione 1:1, all’intervento o al controllo. I possibili trattamenti erano: bevacizumab intravitreale (1,25 mg, tre iniezioni di carico a intervalli di sei settimane seguiti da ulteriore trattamento, se necessario, a intervalli di sei settimane); trattamento standard disponibile all’inizio del trial (fotodinamico con verteporfin o inoculazione intravitreale di pegaptanib). Al follow-up di un anno (54 settimane), il 32% dei pazienti del gruppo bevacizumab aveva guadagnato 15 o pi? lettere di acuit? visiva rispetto al basale (outcome primario), una quota da confrontare al 3% del gruppo trattamento standard. In aggiunta, la proporzione di pazienti che aveva perso meno di 15 lettere di acuit? visiva rispetto al basale era significativamente maggiore nei soggetti in trattamento con bevacizumab (91%) che in quelli sotto terapia standard (67%). L’acuita visiva media ? risultata incrementata di 7,0 lettere nel gruppo bevacizumab, con una mediana di sette iniezioni, contro un decremento di 9,4 lettere nel gruppo standard, e il miglioramento iniziale, alla 18ma settimana (6,6 lettere), si era mantenuto fino alla 54ma settimana. Tra i pazienti trattati con bevacizumab non si ? avuto alcun caso di endoftalmite o grave uveite.

BMJ, 2010; 340:c2459

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Negli Usa calo di ricoveri e decessi per infarto

25 Set 2010 Cardiologia

L’incidenza dell’infarto miocardico acuto (Ima) ? diminuita in modo significativo dopo il 2000; inoltre, a partire dal 1999, risulta ridotta in modo marcato anche l’incidenza dell’Ima con sovraslivellamento del tratto St (Stemi). Quanto alle riduzioni osservate nei tassi di fatalit? a breve termine per Ima, queste sembrerebbero dovute, almeno in parte, a una diminuzione di incidenza di Stemi e a un minore tasso di decessi dopo Ima senza sovraslivellamento St. Sono questi i pi? recenti trend di incidenza e outcome dell’Ima nella popolazione secondo un ampio studio di comunit? svolto negli Stati uniti da Robert W. Yeh, del Massachusetts general hospital di Boston, e collaboratori, basandosi sui dati di pazienti ospedalizzati tra il 1999 e il 2008. In questo periodo sono stati identificati 46.086 ricoveri per Ima che hanno interessato 18.691.131 persone/anno. L’incidenza dell’Ima, tenendo conto di correzioni per et? e sesso, ? aumentata da 274 casi per 100.000 persone/anno nel 1999 a 287 nel 2000, per diminuire in seguito ogni anno, fino a raggiungere una quota pari a 208 casi per 100.000 persona/anno nel 2008, equivalente a una riduzione relativa del 24% sull’intervallo considerato. L’incidenza dello Stemi, corretta per et? e sesso, ? calata lungo tutto il periodo di studio (da 133 a 50 casi per 100.000 persone/anno, rispettivamente nel 1999 e nel 2008). Anche la mortalit? a trenta giorni, infine, ? significativamente diminuita nello stesso lasso di tempo (odds ratio: 0,76).

New Engl J Med, 2010; 362(23):2155-65

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Diabete 2, bene aggiunta exenatide monosettimanale

Nella gestione del diabete di tipo 2, l’obiettivo sta nel far conseguire ai pazienti un controllo glicemico ottimale, una significativa perdita di peso e un numero minimo di episodi di ipoglicemia. L’aggiunta di exenatide (agonista del recettore Glp-1) monosettimanale a metformina ha raggiunto questo scopo pi? spesso dell’aggiunta delle massime dosi giornaliere di sitagliptin (inibitore della Dpp-4) o di pioglitazone (tiazolidinedione). Lo dimostrano i risultati di Duration-2, trial randomizzato e in doppio cieco condotto da Richard M. Bergenstal, dell’International Diabetes Center di Minneapolis, e collaboratori. Sono stati selezionati diabetici gi? trattati con metformina e che al basale presentavano un valore medio di emoglobina glicosilata (HbA1c) pari a 8,5%, una glicemia plasmatica a digiuno di 9,1 mmol/L e un peso di 88,0 kg; tutti sono stati randomizzati a ricevere per 26 settimane, in uno dei 72 centri predisposti in Usa, India e Messico, 2 mg di exenatide per via iniettiva una volta alla settimana pi? un placebo al giorno per os (n=170), 100 mg di sitagliptin orale una volta al giorno pi? un placebo iniettivo una volta alla settimana (n=172) o 45 mg per os di pioglitazone una volta al giorno pi? un placebo iniettivo una volta alla settimana (n=172). Il trattamento con exenatide ha ridotto l’HbA1c in modo significativamente maggiore del sitagliptin (-0,9%) o del pioglitazone (-1,2%). Le differenze nei trattamenti si sono attestate su -0,6% per exenatide vs sitagliptin e -0,3% per exenatide vs pioglitazone. Anche la perdita di peso ? stata significativamente maggiore con exenatide (-2,3 kg) rispetto a sitagliptin (differenza: -1,5 kg) o pioglitazone (differenza: -5,1 kg). Non sono avvenuti episodi di ipoglicemia grave, mentre gli eventi avversi pi? frequenti con exenatide e sitagliptin sono stati nausea (24% e 18%, rispettivamente) e diarrea (18% e 10%, rispettivamente); con pioglitazone, invece, hanno prevalso infezioni del tratto respiratorio superiore (10%) ed edemi periferici (8%).

Lancet, 2010 Jun 25. [Epub ahead of print]

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Segni clinici per distinguere gli ictus

Nei pazienti colpiti da ictus in fase acuta alcune caratteristiche cliniche aumentano o riducono la possibilit? che si tratti di un evento emorragico. Tuttavia, queste caratteristiche o la loro combinazione non permettono di ottenere una diagnosi definitiva in tutti i pazienti: la certezza diagnostica richiede quindi il ricorso al neuroimaging. Con queste parole Shauna Runchey e Steven McGee, della university of Washington di Seattle, riassumono le principali informazioni ricavate dall’analisi di 19 studi prospettici basati sul confronto, in 6.438 pazienti adulti con ictus (emorragico in 1.528 casi), delle caratteristiche cliniche iniziali con gli standard diagnostici per la forma emorragica, ovvero la tomografia computerizzata e l’esame autoptico. La rivisitazione dei lavori selezionati rivela che alcune caratteristiche aumentano in modo significativo le probabilit? di ictus emorragico: si tratta della presenza di coma (rapporto di verosomiglianza, Lr 6,2), rigidit? del collo (Lr 5,0), crisi epilettiche accompagnate da deficit neurologico (Lr 4,7), pressione diastolica > 110 mmHg (Lr 4,3), vomito (Lr 3,0) e mal di testa (Lr 2,9). Altre caratteristiche, invece, riducono le probabilit? di ictus emorragico: soffi cervicali all’auscultazione (Lr 0,12) e pregresso attacco ischemico transitorio (Lr 0,34). Uno score Siriraj superiore a uno aumenta le probabilit? a favore dell’emorragia (Lr 5,7) mentre un punteggio inferiore a -1 le riduce (Lr 0,29). In molti pazienti colpiti da ictus, comunque, non si osservano caratteristiche utili ai fini diagnostici e nel 20% dei casi il punteggio Siriraj ? compreso tra i valori 1 e -1, non significativi per la diagnosi.

JAMA, 2010; 303(22):2280-6

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Meno endometriosi se menarca tarda

23 Set 2010 Ginecologia

Il rischio di endometriosi risulta ridotto nelle donne con un’et? tardiva al menarca e, all’opposto, aumentato nelle pazienti che riportano una storia precoce di dismenorrea. La segnalazione giunge da uno studio caso-controllo australiano effettuato su 682 donne affette da endometriosi moderata/severa confermata chirurgicamente poste a confronto con 244 donne non affette dalla patologia. Gli autori dell’indagine, guidati da Susan Treloar, della university of Queensland a Brisbane, hanno analizzato le caratteristiche mestruali precoci delle pazienti prima dell’esordio dei sintomi dell’endometriosi. Lo studio ha cos? potuto evidenziare come il menarca a un’et? successiva ai 14 anni presenti una forte associazione inversa con la patologia (odds ratio 0,3), mentre una storia di dismenorrea aumenti il rischio di successivo sviluppo di endometriosi (odds ratio 2,6). Gli autori aggiungono che, pur in presenza di un trend suggestivo, un ciclo mestruale pi? breve non si associa a endometriosi. Nessuna associazione con la malattia, infine, si ? riscontrata per la durata della mestruazione naturale e l’intensit? del flusso cos? come per il tipo di protezione sanitaria riportata dalle pazienti e per la storia di rapporti sessuali durante il periodo mestruale.

Am J Obstet Gynecol, 2010; 202: 534.e1-6

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Morte cardiaca improvvisa: prevenzione con l?Amiodarone

22 Set 2010 Cardiologia

Non tutti i pazienti a rischio di morte cardiaca improvvisa sono eleggibili per l?impianto di ICD ( defibrillatore cardioverter impiantabile ).
Ci sono, tuttavia, dati discordanti riguardo all?efficacia e alla sicurezza dell?Amiodarone ( Cordarone ) nella prevenzione della morte cardiaca improvvisa.

Ricercatori della Duke University a Durham negli Stati Uniti, hanno condotto una meta-analisi di tutti gli studi controllati, randomizzati, che avevano esaminato l?uso di Amiodarone nella prevenzione della morte improvvisa cardiaca.

Sono stati identificati 15 studi, in cui 8.522 pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad Amiodarone o a placebo/controllo.

L?Amiodarone ha ridotto l?incidenza di morte cardiaca improvvisa ( 7.1% vs 9.7%; OR=0.71; p<0.001 ) e di mortalit? cardiovascolare ( 14% vs 16.3%; OR=0.82; p=0.004 ). C?? stata una riduzione del rischio assoluto dell?1.5% nella mortalit? per qualsiasi causa che non ha incontrato la significativit? statistica ( p=0.093 ). La terapia con Amiodarone ha aumentato il rischio di tossicit? polmonare ( 2.9% vs 1.5%; OR=1.97; p=0.002 ), tossicit? tiroidea ( 3.6% vs 0.4%; OR=5.68; p<0.001 ). In conclusione, l?Amiodarone riduce il rischio di morte improvvisa cardiaca del 29% e di malattia cardiovascolare del 18%, e pertanto rappresenta un?alternativa nei pazienti non-eleggibili per l?ICD nella prevenzione della morte cardiaca improvvisa.
Tuttavia, la terapia con Amiodarone ha un effetto neutro riguardo alla mortalit? generale ed ? associata ad un aumento del rischio di tossicit? polmonare e tiroidea di 2 e di 5 volte.

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