Incontinenza femminile, sling mediouretrali a confronto

7 Ago 2010 Urologia

Nel trattamento chirurgico dell’incontinenza urinaria femminile da stress, l’impiego di benderelle (slings) mediouretrali di tipo transotturatorio o retropubico determina, a un follow-up di 12 mesi, una globale equivalenza circa il successo del trattamento, una sostanziale somiglianza riguardo la soddisfazione delle pazienti sull’esito dell’intervento, mentre sussistono differenze relativamente alle possibili complicanze in fase perioperatoria. Lo hanno stabilito i ricercatori dell’Urinary incontinence treatment network sulla base di un lavoro coordinato da Holly Richter dell’Universit? dell’Alabama a Birmingham (Stati uniti). Il trial multicentrico, randomizzato, di equivalenza, ha previsto la valutazione degli outcome in base a criteri oggettivi (negativit? allo stress test, al pad test e nessun reintervento) e soggettivi (assenza di sintomi riferita dalla paziente, mancata segnalazione di episodi di perdite). Su 565 donne che hanno completato lo studio, si sono registrati tassi di successo oggettivo pari all’80,8% nel gruppo retropubico e a 77,7% in quello transotturatorio (3,0 punti percentuali di differenza), mentre quelli di tipo soggettivo si sono attestati sul 62,2% e 55,8%, rispettivamente (6,4 punti percentuali di differenza). La frequenza di disfunzioni minzionali che hanno richiesto la chirurgia ? stata del 2,7% nelle donne con benderelle retropubiche e dello 0% in quelle con sling transotturatorie, mentre i corrispettivi tassi di sintomatologia neurologica sono stati di 4,0% e 9,4%. Non si sono infine registrate differenze significative tra i due gruppi relativamente a incontinenza da urgenza postoperatoria, soddisfazione con i risultati della procedura e qualit? della vita. Secondo gli autori, le differenze riscontrate nelle complicanze associate alle due tecniche dovrebbero essere discusse con le pazienti che hanno intenzione di sottoporsi a chirurgia per incontinenza urinaria.?

N Engl J Med, 2010 May 18. [Epub ahead of print]

 543 total views

Iperplasia prostatica benigna: la via maestra ? la TURP

L?opzione chirurgica ? pi? efficace della terapia farmacologica nel migliorare i sintomi di incontinenza e di ostruzione nei pazienti con iperplasia prostatica benigna. Lo dimostra uno studio presentato al meeting annuale dell?American Urological Association.

I ricercatori della Mayo Clinic coordinati da Amy Krambeck hanno preso in esame dal 1990 al 2007 ben 2184 pazienti dai 40 ai 79 anni con diagnosi di iperplasia prostatica benigna: il 72% non ha ricevuto alcun trattamento, il 14% ha seguito una terapia a base di alfa bloccanti (o α1-recettori adrenergici antagonisti), il 9% ha seguito una terapia a base di inibitori della 5-alfa-reduttasi, l?1% ha subito una vaporizzazione laser, il 4% ha ricevuto una resezione transuretrale della prostata (TURP). ?I pazienti sottoposti a TURP hanno mostrato la remissione pi? evidente dei sintomi di incontinenza urinaria?, spiega la Krambeck. ?Solo nel gruppo TURP si ? passati da un tasso di sintomi urinari del 64,5% a uno del 41,9%: tale riduzione ? significativa se comparata a quella ottenuta con altre strategie terapeutiche?.
Fonte: Surgery ouperforms drug therapy in treatment of benign prostatic hyperplasia, research finds. Mayo Clinic news release 2010.

 425 total views

Statine e prevenzione del tromboembolismo venoso

Secondo una meta-analisi che ha coinvolto quasi un milione di persone – presentata il 16 maggio 2010 all’International Conference dell’American Thoracic Society (ATS) – l’uso delle statine ? associato a una riduzione del rischio di TEV.
La metanalisi ? stata condotta per conciliare i risultati contrastanti presenti nell’attuale letteratura medica sull’incidenza di TEV tra coloro che assumono statine. La maggior parte di tali studi ha valutato agenti specifici; la meta-analisi, invece, ? stata realizzata sulle statine come classe.
La ricerca ? stata effettuata sui database di MEDLINE (dal 1950 al 2009), del Cochrane Central (2009) e di Scopus (1966-2009) e su riferimenti recensiti manualmente. Non sono state introdotte restrizioni sugli studi clinici randomizzati, ma per quelli osservazionali ? stata condotta l’analisi sulla base della regressione multivariata o il covariate matching. Le tecniche di tradizionale meta-analisi sono state utilizzate per analizzare i dati sullo sviluppo della trombosi venosa profonda (DVT), embolia polmonare (EP) e qualsiasi episodio di TEV. I ricercatori hanno individuato 10 studi che soddisfacevano i criteri prescelti, comprendenti 971.307 soggetti. Nove studi osservazionali e uno di intervento (Juppiter) controllato e randomizzato. Dei 9 studi osservazionali, 6 erano caso-controllo, 2 di coorte retrospettivi e 1 di coorte prospettico.
La meta-analisi ha evidenziato che l’uso di statine era associato a una riduzione del rischio relativo per TEV del 32%, 41% per la TVP e 30% per PE.

American Thoracic Society (ATS) 2010 International Conference: Abstract A1936. Presentato 16 Maggio 2010.

 453 total views

Artrite reumatoide e prevalenza disfunzione diastolica?

Nei pazienti con artrite reumatoide (Ra) si osserva una pi? alta prevalenza di disfunzione diastolica rispetto ai soggetti non affetti dalla malattia. Poich? la durata di Ra e i livelli di Interleuchina-6 (Il-6) appaiono associati in modo indipendente alla disfunzione diastolica ? possibile che l’infiammazione cronica su base autoimmune eserciti un influsso sulla funzione miocardica. Lo studio di Kimberly Liang e collaboratori dell’university of Pittsburgh Medical center lascia intravedere implicazioni cliniche meritevoli di ulteriori approfondimenti. A queste conclusioni i ricercatori sono giunti confrontando, all’interno di uno studio trasversale di comunit?, coorti di persone adulte con e senza Ra, in assenza di una storia pregressa di insufficienza cardiaca. L’indagine ? stata condotta su 244 pazienti con Ra (et? media 60,5 anni, 71% donne) e 1.448 soggetti senza Ra (et? media 64,9 anni, 50% donne): oltre il 98% dei soggetti di entrambe le coorti mostrava una frazione di eiezione preservata (>/= 50%). La definizione di disfunzione diastolica adottata nello studio comprendeva alterato rilassamento miocardico (con o senza aumento delle pressioni di riempimento) o riduzione della distensibilit? di grado avanzato o pattern di riempimento restrittivo reversibile o fisso. La disfunzione diastolica ? stata osservata nel 31% dei pazienti Ra rispetto al 26% dei soggetti non-Ra per una Or pari a 1,6 (aggiustamento per et? e sesso). Inoltre la presenza di Ra, rispetto al gruppo di confronto, comportava una pi? bassa massa ventricolare sinistra, una pi? elevata pressione arteriosa polmonare e un maggior indice di volume atriale sinistro. Infine, anche dopo aggiustamento per i fattori di rischio cardiovascolare, la durata di Ra e il livello di Il-6 sono risultati indipendentemente associati alla disfunzione diastolica nei pazienti con Ra.?

Ann Rheum Dis, 2010 May 24. [Epub ahead of print]

 516 total views

Attenzione all’uso improprio dei PPI

Uno studio retrospettivo di coorte, avvalendosi dell’analisi del database amministrativo del New England Veterans Healthcare System nel periodo compreso tra 1 ottobre 2003 e 30 settembre 2008, ha identificato 1.166 pazienti ricoverati o ambulatoriali trattati con metronidazolo o vancomicina per una incidente infezione da Clostridium Difficilis (CDI). I 527 pazienti (45,2%) che avevano ricevuto anche un PPI orale entro 14 giorni dalla diagnosi sono stati confrontati con i rimanenti 639 (54,8%) che non avevano assunto l’inibitore di pompa per verificare se tale comportamento terapeutico potesse in qualche modo comportare una maggior facilit? di recidiva della CDI nei 15-90 giorni successivi alla sua comparsa. Questi i risultati:
1.la recidiva della CDI era maggiore nei pazienti co-trattati con PPI (25,2% vs 18,5%)
2.l’OR di tale evento ? risultato pari a 1,42 (95% CI di 1,11-1,82)
3.i soggetti di et? superiore agli 80 anni avevano, se co-trattati con PPI, un rischio maggiore di recidiva (HR 1,86; 95% CI, 1,15-3,01), pari a quello di coloro che non avevano utilizzato un trattamento specifico per la CDI (HR 1,71; 95% CI 1,11-1,64).
Le ovvie conclusioni degli autori sono state che l’uso di un PPI in corso di una incidente CDI ? gravato da un 42% di aumento di rischio di recidiva dell’infezione. Ne deriva la raccomandazione di un uso maggiormente appropriato dei PPI.

Arch Intern Med 2010;170(9):772-8.

 546 total views

La necessit? di un trattamento rapido nello stroke

? stata pubblicata sul numero del 15 maggio della rivista The Lancet una nuova analisi dei dati aggregati di studi clinici randomizzati sull’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA) nel trattamento dell’ictus ischemico acuto, che include gli studi pi? recenti; essa conferma il beneficio del trattamento a 4,5 ore, ma dimostra per la prima volta che il rischio pu? prevalere sul beneficio dopo tale finestra temporale. La nuova analisi aggiunge i dati del recente lavoro “European Cooperative Acute Stroke Study 3” (ECASS 3) e del “EchoPlanar Imaging Thrombolysis Evaluation Trial” (EPITET), portando il numero totale degli studi a 8 (NINDS trial 1 e 2, ECASS 1 e 2, ATLANTIS 1e 2). Si ? cos? valutato un pool totale di 3.670 pazienti (1.850 trattati con tPA e 1.820 con placebo); sono stati esaminati i risultati dei pazienti trattati entro 360 minuti (6 ore).
L’analisi aggiornata dimostra che il trattamento con trombolisi fino a 4,5 ore dall’esordio dell’ictus aumenta la probabilit? di esito favorevole. Il rischio di mortalit? ? aumentato con il tempo e sembra prevalere sul beneficio dopo 4,5 ore.? L’ emorragia parenchimale maggiore, forse la pi? temuta complicazione della terapia con tPA nell’ictus, si ? verificata in 96 pazienti trattati (5,2%) ed in 18 controlli (1,0%), ma senza alcuna chiara relazione tra il tempo d’esordio ictus e il trattamento (p = 0,4140). ? interessante notare che i tassi di emorragia parenchimale erano indipendenti dal tempo al trattamento, ma la mortalit? ? aumentata con la terapia trombolitica dopo 4,5 ore, a suggerire che possono essere coinvolti altri meccanismi sottostanti all’aumento di mortalit?.
Sebbene l’efficacia della terapia trombolitica sia fuori discussione, il trattamento continua a non essere di aiuto per una grande percentuale di pazienti. L’ analisi mostra che circa 5 pazienti devono essere trattati entro 0-90 minuti, 9 entro 91-180 minuti, 15 tra i 181 e 270 minuti dall’insorgenza dei sintomi perch? si abbia un outcome favorevole (NNT); l’esito favorevole sembra diminuire di un fattore 2 per ogni periodo di 90 minuti dall’inizio dei sintomi, con un aumento di mortalit? dopo le 4,5 ore. Si delinea, cos?, per la prima volta, il profilo temporale del rapporto beneficio/danno dell’alteplase in pazienti selezionati.

Lancet 2010;375:1695-1703.
Lancet 2010;375:1667-1668.

 378 total views

HF: attenzione ad anemia e deficit marziale

Nella Sezione dell’ACP Journal Club annessa all’ultimo numero degli Annals of Internal Medicine [April 20,2010;152(8)] viene riportato un interessante commento al lavoro che Anker SD et al. hanno pubblicato verso la fine del 2009 sul N Engl J Med (Ferric carboxymaltose in patients with heart failure and iron deficiency. N Engl J Med 2009;361:2436-48.) relativo a una problematica clinica molto spesso sottovalutata: la terapia marziale ben condotta pu? migliorare i sintomi nei pazienti con scompenso cardiaco cronico (HF), ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra e carenza di ferro?
Lo studio multicentrico, randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo e condotto con la metodica dell’intention-to-treat, ha avuto un periodo di follow-up di 24 settimane per i risultati di efficacia e di 26 settimane per i risultati di sicurezza e ha interessato 461 pazienti – di et? media 68 anni, 53% di sesso femminile – con HF cronico, frazione di eiezione ventricolare sinistra =40% (classe NYHA III) o =45% (NYHA classe II), ferritina sierica <10 mg /dL e con livello di emoglobina da 9,5 a 13,5 g / dL (sono stati cio? valutati i pazienti con sola carenza marziale e quelli con presenza associata di anemia).
Agli oltre 300 pazienti del gruppo “attivo” di trattamento sono stati somministrati 200 mg di ferro per via endovenosa alla settimana fino alla normalizzazione dei depositi marziali e successivamente ogni 4 settimane fino a 24 settimane, con dosaggio aggiustato per il metabolismo del ferro e di emoglobina.
Sono stati valutati la qualit? della vita, le modificazioni della classe funzionale NYHA e il test del cammino in 6 minuti.
I principali risultati possono essere cos? sintetizzati:
1.a 24 settimane, il gruppo trattato con ferro ha migliorato tanto la classe funzionale NYHA, quanto la qualit? di vita (KCCQ punteggio medio 66 vs 59, p <0,001; EQ-5D punteggio medio 63 vs 57, p <0,001); anche i risultati del test di autovalutazione (PGA) e di quello del? cammino [maggiore distanza percorsa in 6 minuti (media 313 vs 277 m, p <0,001)] sono risultati migliori
2.i gruppi dei pazienti trattati e dei controlli non hanno evidenziato differenze significative per il ricovero o morte a 26 settimane
3.i miglioramenti nelle valutazioni NYHA e del questionario di autovalutazione erano simili per i sottogruppi di pazienti con o senza anemia (p = 0,98 e p = 0,51 per l’interazione, rispettivamente).
Nel commento, a firma di Robb D. Kociol e di L. Newby Kristin, del Duke Clinical Research Institute Durham, North Carolina – USA, pur sottolineando che vi sono le basi fisiopatologiche per ritenere appropriato un approccio di questo tipo (che dimostrerebbe fra l’altro come il miglioramento non sia imputabile al solo aumento dei livelli di Hb, visto che si ? riscontrato anche nei pazienti non anemici), sono riportate alcune considerazioni metodologiche sullo studio, relative alla validit? pi? o meno acclarata dei questionari di autovalutazione, alla scarsit? della casistica e alla non uniformit? delle cause di HF, elementi che non consentono di consigliare con un’adeguata “forza” tale metodologia terapeutica.
Rimane comunque il problema che troppo spesso il clinico sottovaluta gli aspetti di base del paziente, in questo caso un deficit marziale fino all’anemia, concentrandosi unicamente sulla sola problematica emergente.

ACP Journal Club 2010;152(4).

 667 total views

La qualit? di vita in pazienti con artrite reumatoide

La compromissione della qualit? di vita (QdV) nell’artrite reumatoide (AR) ? considerata elemento prognostico fondamentale, condizionante sia le richieste assistenziali che il tipo di trattamento. Attualmente le maggiori associazioni scientifiche mondiali raccomandano, per valutare il grado di compromissione dello stato di salute del paziente, l’Arthritis Impact Measurement Scales 2 (AIMS2), un questionario autosomministrato, composto da 78 quesiti distribuiti in 12 sottoscale. Mediante l’impiego della versione italiana del questionario, “Reumatismo” ha recentemente pubblicato una indagine volta a valutare l’impatto dell’AR sulla QdV in un’ampia casistica di pazienti reclutati attraverso il coinvolgimento di 300 Medici di Medicina Generale (MMG). Strumenti di rilevazione sono stati: una scheda per la verifica della diagnosi e delle comorbilit?, il questionario di autovalutazione della qualit? di vita, il questionario socio-psicologico di valutazione del tipo di terapia e dei costi. L’analisi dei dati raccolti ha permesso di analizzare il vissuto quotidiano e le difficolt? di questi pazienti, preoccupati per le loro condizioni di salute. Il campione presenta il punteggio medio pi? alto nella scala relativa alla percezione della salute. Il variare del livello attuale di attivit? dell’artrite misurato dal RADAI, con l’avvicendarsi di fasi acute e fasi di remissione, pesa in modo decisivo sulla gestione delle attivit? quotidiane, come mobilit?, cura della casa, della propria persona, funzionalit? delle braccia, delle mani e delle dita. La versione italiana dell’AIMS2 mostra, analogamente alla versione originale, buone caratteristiche di validit? e di affidabilit?. Lo studio ha evidenziato un’ampia variabilit? di condizioni cliniche ma nel complesso ha confermato che la prevenzione e il trattamento della disabilit? dovrebbero essere seriamente pianificati e uno strumento come l’AIMS2, adattato alla situazione italiana, si ? dimostrato utile e a basso costo.

Reumatismo 2010;62(1):12-33.

 491 total views

Sindrome coronarica acuta nei diabetici

I pazienti diabetici che presentano una sindrome coronarica acuta (ACS) hanno una prognosi particolarmente sfavorevole e un aumentato rischio di futuri eventi avversi aterotrombotici in massima parte correlato al maggior contributo di una aumentata reattivit? piastrinica.
Per tale motivo due Colleghi Cardiologi del Saint Luke’s Mid America Heart Institute di Kansas City hanno recentemente pubblicato una interessante review sull’argomento che, partendo da considerazioni fisiopatologiche e valutando nello specifico gli attuali trattamenti, giunge alle seguenti conclusioni (facilmente prevedibili, ma che possono rappresentare una ottima base di conoscenza per il miglior management possibile di questi particolari pazienti)
1.?i pazienti con diabete traggono maggior beneficio da procedure di rivascolarizzazione pi? precoci, e cio? PCI primaria se si presentano con STEMI, precoce angiografia invasiva con rivascolarizzazione se si presentano con ACS senza elevazione del segmento ST
2.?nei pazienti diabetici ? dimostrato che l’applicazione di uno stent medicato in corso di PCI primaria per STEMI riduce significativamente fino a 2 anni il rischio di ri-stenosi
3.?anche un trattamento antiaggregante piastrinico pi? aggressivo ? da preferire
l’associazione pre-procedurale di Clopidogrel Inibitori della GP IIb/IIIa ha dato risultati migliori rispetto all’utilizzo separato dei due antiaggreganti
nel Triton Timi 38 Trial l’efficacia del Prasugrel ? risultata significativamente migliore di quella del Clopidogrel senza alcun aumento di sanguinamenti.
Questi risultati sottolineano la necessit? di terapie individualizzate, strategie di rivascolarizzazione e terapia antipiastrinica pi? aggressiva nei pazienti diabetici che presentano una ACS.

Acute Coronary Syndrome in the Patient with Diabetes: Is the Management Different? Amit P. Amin, Steven P. Marso. Curr Cardiol Rep 2010 May 6.

 437 total views

Voltare pagina: no all’aspirina in prevenzione primaria

Basse dosi giornaliere di acido acetilsalicilico (ASA) sono diffusamente prescritte nella prevenzione primaria e secondaria delle patologie cardiovascolari; tuttavia, mentre nella prevenzione secondaria i dati sono ormai acquisiti, per quella primaria permangono molti dubbi. Dubbi confermati da un lavoro comparso sul BMJ che non a caso ? stato inserito nella sezione “voltare pagina”.
Infatti viene riportata una metanalisi di 6 trial randomizzati e controllati (95.000 pazienti coinvolti), dove si evidenzia come l’ASA utilizzato in prevenzione primaria riduca gli eventi cardiovascolari/anno nella misura dello 0,07% ma a fronte di un incremento del 0,03% di emorragie gastriche maggiori, senza una correlazione significativa a variabili quali et?, sesso, pressione arteriosa, diabete e aumento del rischio cardiovascolare.
Un’altra metanalisi riguardante trial su antiaggreganti nella prevenzione primaria e secondaria in pazienti ipertesi dimostra come l’ASA non riduce l’incidenza di stroke e di tutti gli eventi cardiovascolari rispetto al placebo. Alle stesse conclusioni giunge una review su pazienti diabetici, tanto che la Scottish Intercollegiate Guidelines Network non raccomanda l’uso di ASA come prevenzione primaria in questi pazienti. Tuttavia la British Hypertension Society ha recentemente riaffermato l’uso dell’ASA nella prevenzione primaria e secondaria, ma sottolineando come i fattori di rischio che predicono gli eventi vascolari correlano anche nella predizione di eventi emorragici. In conclusione, attualmente non vi sono evidenze che supportino l’uso dell’ASA nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, anche in sottogruppi con fattori di rischio come diabete o ipertensione arteriosa, ma va da s? che tutti i pazienti andrebbero valutati singolarmente.

BMJ 2010;340:1805.

 443 total views

1 94 95 96 97 98 258

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?