Malattia epatica cronica: elevata incidenza di deficienza di Vitamina-D

La deficienza di Vitamina-D ? stata associata a epatopatia colestatica, cos? come a cirrosi biliare primaria.
Alcuni studi hanno suggerito che la cirrosi pu? predisporre i pazienti allo sviluppo di osteoporosi a causa dell?alterata omeostasi del Calcio e della Vitamina D.

Ricercatori dell?University of Tennessee a Menphis negli Stati Uniti, hanno determinato la prevalenza di deficienza di Vitamina D nei pazienti con malattia epatica cronica.

Sono stati misurati i livelli di 25-idrossivitamina D a 118 pazienti consecutivi ( 43 con epatite C e cirrosi, 57 con epatite C ma senza cirrosi, e 18 con cirrosi non-correlata all?epatite C ).

La gravit? della deficienza di Vitamina D ? stata classificata come lieve ( 20-32 ng/ml ), moderata ( 7-19 ng/ml ) o grave ( inferiore a 7 ng/ml ); i valori normali sono superiori a 32 ng/ml.

E? stato osservato che il 92.4% dei pazienti aveva un certo grado di deficienza di Vitamina D.
Nel gruppo epatite C e cirrosi, il 16.3% aveva una deficienza lieve di Vitamina D, moderata nel 48.8% e grave nel 30.2%.

Nel gruppo non-cirrotico con epatite C, la deficienza di Vitamina D in forma lieve era presente nel 22.8% dei pazienti, in forma moderata nel 52.6% e nella forma grave nel 14%.

Nel gruppo cirrosi non-correlata all?epatite C, la forma lieve di deficienza era presente nel 38.9% dei pazienti, la forma moderata nel 27.8%, e la forma grave nel 27.8%.

Una grave deficienza di Vitamina D era pi? comune tra i pazienti con cirrosi rispetto ai non-cirrotici ( 29.5% versus 14.1%; p=0.05 ).
Il genere femminile, la razza afro-americana, e la cirrosi erano predittori indipendenti di grave deficienza di Vitamina D nella malattia epatica cronica.

La deficienza di Vitamina D ? universale ( 92% ) tra i pazienti con malattia epatica, e almeno un terzo di loro soffre di grave deficienza di Vitamina D.

Arteh J et al, Dig Dis Sci 2009; Epub ahead of print

Link: Epatologia.net

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Cioccolato nero e ipertensione, quali implicazioni?

Molti studi hanno documentato l’effetto favorevole del cioccolato nero sull’insulino-sensibilit?, sulla funzione endoteliale e sugli eventi cardiovascolari. Sembra anche che l’assunzione con la dieta di cioccolato nero (si parla solo di cioccolato nero) abbia un effetto benefico sull’ipertensione e sulla pre-ipertensione, ma gli studi sono ancora poco numerosi e i risultati non sono univoci. Hypertension ha pubblicato nel numero di giugno una revisione critica di 13 studi sull’argomento (8 in aperto e 6 in doppio cieco), da cui risulta che il cioccolato nero ha abbassato la pressione in 6 dei 7 studi in aperto, ma solo in uno degli studi in doppio cieco. ? quindi un effetto placebo? Non sembra, perch? gli studi in doppio cieco hanno utilizzato metodologie criticabili e comunque sono di difficile attuazione in quanto gli elementi bioattivi del cacao sono riconoscibili al sapore. Inoltre intervengono importanti elementi socioculturali, tra cui la percentuale di cacao, la preparazione stessa del cioccolato: i procedimenti non sono tutti uguali, sono in parte segreti, e possono pesantemente influire sui principi attivi. Nel complesso comunque l’effetto favorevole sull’ipertensione sembra esserci, forse per un’aumentata produzione di NO, ma molti quesiti rimangono da definire: quali sono i dosaggi migliori? Quali le percentuali di cacao migliori? A quale tipo di popolazione ci si deve rivolgere? C’? una marca di cioccolato (o un modo di preparazione) migliore delle altre? Quali sono gli effetti avversi? Rispondere a queste domande pu? portare a piacevoli raccomandazioni, una volta tanto, per milioni di soggetti ipertesi e pre-ipertesi.

Hypertension 2010;55:1289-1295.

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Colite collagenosa: trattamento a lungo termine con Budesonide

Un gruppo di Ricercatori in Danimarca ha condotto uno studio per valutare l?efficacia e la sicurezza della terapia a lungo termine con Budesonide per il mantenimento della remissione clinica in pazienti con colite collagenosa.

Lo studio randomizzato, controllato con placebo, ha interessato su 42 pazienti con colite collagenosa confermata istologicamente e diarrea ( pi? di 3 scariche al giorno ).

I pazienti in remissione clinica dopo 6 settimane di terapia orale con Budesonide ( Entocort CIR capsule, 9 mg/die ) hanno ricevuto, in doppio cieco, una terapia di mantenimento con Budesonide 6 mg/giorno, oppure placebo.
In seguito i pazienti sono entrati in un periodo di follow-up di 24 settimane.

La principale misura di esito era la proporzione di pazienti in remissione clinica ( 3 o meno scariche al giorno ) alla fine della terapia di mantenimento.

Un totale di 34 pazienti in remissione alla settimana 6 sono stati assegnati in maniera casuale a ricevere Budesonide 6 mg al giorno ( n=17 ) oppure placebo ( n=17 ).

Dopo 24 settimane di trattamento di mantenimento le proporzione di pazienti in remissione clinica ? stata del 76.5% con Budesonide e del 12% con placebo ( p<0.001 ). A 48 settimane ( fine del periodo di follow-up senza alcun trattamento ) questi valori sono passati, rispettivamente, a 23.5% e a 12%, ( p=0.6 ). Il tempo mediano alla recidiva dopo il termine del trattamento attivo ( 6 pi? 24 settimane nel gruppo Budesonide; 6 settimane nel gruppo placebo ) ? stato di 39 e 38 settimane, rispettivamente. Il trattamento a lungo termine con Budesonide ? risultato ben tollerato. In conclusione, la terapia di mantenimento a lungo termine con Budesonide orale ? efficace e ben tollerata nella prevenzione della recidiva in pazienti con colite collagenosa.
Il rischio di recidiva dopo 24 settimane di trattamento di mantenimento ? simile a quella osservata dopo 6 settimane di terapia di induzione.

Bonderup OK et al, Gut 2009; 58: 68-72

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Pancreatite autoimmune: trattamento steroideo standard

Ricercatori giapponesi hanno portato a termine un sondaggio retrospettivo in 17 Centri in Giappone per stabilire un appropriato regime di trattamento steroideo per la pancreatite autoimmune.

Le principali misure di esito erano i tassi di remissione e di recidiva.

Dei 563 pazienti con pancreatite autoimmune, 459 ( 82% ) sono stati sottoposti a trattamento steroideo.

Il tasso di remissione della pancreatite autoimmune trattata con steroidi ? stato del 98% ed ? risultato significativamente pi? alto rispetto a quello dei pazienti senza trattamento steroideo ( 74%; 77/104; p<0.001 ). Il trattamento con steroidi ? stato somministrato per ittero ostruttivo ( 60% ), dolore addominale ( 11% ), lesioni extra-pancreatiche associate con l?eccezione del dotto biliare (11%) e ingrossamento diffuso del pancreas ( 10% ). Non ? stata osservata una relazione tra il periodo necessario a raggiungere la remissione e la dose iniziale ( 30 mg/die vs 40 mg/die ) di Prednisolone. Il trattamento steroideo di mantenimento ? stato somministrato all?82% dei 459 pazienti trattati con steroidi e la terapia steroidea ? stata interrotta in 104 pazienti. Il tasso di recidiva nei pazienti con pancreatite autoimmune in trattamento di mantenimento ? stato del 23% ed ? risultato significativamente pi? basso di quello osservato nei pazienti che avevano interrotto la terapia di mantenimento ( 34%; p=0.048 ). Dall?inizio del trattamento steroideo, il 56% dei pazienti ha mostrato recidiva entro 1 anno e il 92% entro 3 anni. Degli 89 pazienti con recidiva, il 93% sono stati nuovamente trattati con steroidi e tale trattamento si ? dimostrato efficace nel 97% dei casi. In conclusione, la maggiore indicazione per il trattamento con steroidi della pancreatite autoimmune ? la presenza di sintomi.
E? raccomandata una dose iniziale di Prednisolone di 0.6 mg/kg/die che deve essere in seguito diminuita fino alla dose di mantenimento nell?arco di 3-6 mesi.
Il trattamento di mantenimento con basse dosi di steroidi riduce, ma non elimina le recidive.

Kamisawa T et al, Gut 2009; 58: 1504-1507

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Ulcera peptica, con i Ppi non ? questione di dosi

Dopo trattamento endoscopico, nei pazienti con ulcera peptica sanguinante l’impiego degli inibitori di pompa protonica (Ppi) ad alto dosaggio, rispetto alle dosi non elevate, non riduce ulteriormente i tassi di risanguinamento, ricorso alla chirurgia o mortalit? dopo trattamento endoscopico. L’osservazione, pubblicata da Chih-Hung Wang e collaboratori dell’Ospedale nazionale universitario e del Collegio nazionale universitario medico di Taiwan, a Taipei, che hanno effettuato una revisione sistematica con metanalisi dei dati di 1.157 pazienti con ulcera peptica sanguinante arruolati in 7 studi clinici randomizzati di alta qualit? che hanno confrontato l’impiego di dosi elevate o non elevate di Ppi: per dosi elevate si intende un bolo di 80 mg seguito dall’infusione continua di 8 mg/ora per 72 ore. La meta-analisi ha chiarito in primo luogo che gli effetti sui tassi di risanguinamento non differiscono in base alla quantit? delle dosi utilizzate, definite come elevate e non elevate (Or 1,30); non sono emerse differenze anche per quanto concerne il ricorso alla chirurgia (Or 1,49) o la mortalit? (Or 0,89). Una successiva analisi ad hoc per sottogruppo ha infine mostrato che le misure degli outcome non erano influenzate dalla gravit? dei segni di un’emorragia recente all’esame endoscopico iniziale, dalla via di somministrazione o dalla dose di Ppi.

Arch Intern Med, 2010; 170(9):751-8

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Pi? cadute e fratture con dose annuale di vitamina D

23 Lug 2010 Ortopedia

Nelle donne anziane che vivono in comunit? la somministrazione orale di un’alta dose annuale di colecalciferolo, teoricamente utile a migliorare l’adesione al trattamento, espone in realt? a un maggiore rischio di cadute e fratture ossee. Lo ha stabilito uno studio in doppio cieco, placebo-controllato, condotto su 2.256 donne, di et? pari o superiore a 70 anni e residenti in comunit?, cui ? stata somministrata una dose di 500.000 UI di colecalciferolo oppure placebo. La somministrazione annuale ? avvenuta in autunno o inverno ed ? proseguita per 3-5 anni. Kerry Sanders, del Dipartimento di scienze cliniche e biomediche dell’universit? di Melbourne (Barwon Health), e collaboratori, hanno rilevato un maggior numero di fratture e di cadute nel gruppo colecalciferolo. In totale, infatti, sono state registrate 171 fratture nel gruppo vitamina D e 135 in quello controllo cui hanno fatto riscontro rispettivamente 2.892 cadute in 837 donne e 2512 cadute in 769 donne. Il rischio relativo di incidenza per le fratture nel gruppo colecalciferolo rispetto ai controlli ? risultato pari a 1,26. Analogamente, l’impiego di colecalciferolo, in confronto al placebo, ha mostrato un rischio relativo di incidenza delle cadute pari a 1,31 nei primi 3 mesi dopo la somministrazione e pari a 1,13 nei successivi 9 mesi. L’indagine ha anche previsto un sottostudio in cui 137 donne sono state scelte a caso per un controllo nel tempo dei livelli ematici di 25-idrossicolecalciferolo (25-OH D3) e dell’ormone paratiroideo. Meno del 3% delle donne sottoposte a questi esami aveva livelli del metabolita (25-OH D3) inferiori a 25 nmol/L. La somministrazione della vitamina D ha prodotto livelli di (25-OH D3) pari a 120 nmol/L dopo il primo mese e 90 nmol/L a 3 mesi: i livelli si sono mantenuti pi? elevati, rispetto a placebo, anche dopo un anno.

JAMA, 2010; 303(18):1815-22

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Farmaci che stimolano l?eritropoiesi e mortalit? nei pazienti oncologici

I farmaci che stimolano l?eritropoiesi riducono l?anemia nei pazienti oncologici e potrebbero migliorare la loro qualit? di vita, ma potrebbero anche aumentare la mortalit?.

Un gruppo di Ricercatori dell?Universit? di Berna in Svizzera, ha condotto una meta-analisi di studi randomizzati e controllati nei quali questi farmaci pi? trasfusione di eritrociti sono stati comparati con la sola trasfusione per la profilassi o il trattamento dell?anemia in pazienti affetti da tumore.

I dati relativi a pazienti trattati con Epoetina alfa ( Eprex ), Epoetina beta ( Neorecormon ) o Darbepoetina alfa ( Aranesp ) sono stati ottenuti e analizzati utilizzando meta-analisi ad effetti-fissi e ad effetti-casuali.

Le analisi erano intention-to-treat.

Gli endpoint primari erano la mortalit? durante la fase attiva dello studio e la sopravvivenza generale durante il periodo osservazionale pi? lungo possibile, indipendentemente dal trattamento antitumorale nei pazienti sottoposti a chemioterapia.

Test per le interazioni sono stati utilizzati per identificare differenze negli effetti dei farmaci che inducono l?eritropoiesi sulla mortalit? attraverso sottogruppi prespecificati.

Sono stati analizzati dati relativi a un totale di 13.933 pazienti oncologici da 53 studi clinici.

Durante la fase attiva dello studio sono deceduti 1.530 pazienti e in totale si sono verificati 4.998 decessi.

I farmaci che stimolano l?eritropoiesi hanno aumentato la mortalit? durante la fase attiva dello studio ( hazard ratio combinato [ cHR ] 1.17 ) e hanno peggiorato la sopravvivenza generale ( 1.06 ), con poca eterogeneit? tra gli studi.

Nei 38 studi clinici esaminati sono stati arruolati 10.441 pazienti, sottoposti a trattamento chemioterapico.

L?hazard ratio combinato per la mortalit? nella fase attiva dello studio ? stato pari a 1.10 e quello per la sopravvivenza generale a 1.04.

In conclusione, il trattamento con farmaci che stimolano l?eritropoiesi nei pazienti oncologici aumenta la mortalit? nella fase attiva dello studio e peggiora la sopravvivenza generale.
L?aumento del rischio di morte associato al trattamento con questi farmaci dovrebbe essere bilanciato con i benefici.

Bohlius J et al, Lancet 2009; 373: 1532-1542
e: FDA, 2010

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FDA: dubbi sulla sicurezza degli agonisti GnRH, farmaci comunemente usati nel tu

na revisione preliminare suggerisce che negli uomini trattati con agonisti dell’ormone GnRH, si assiste ad un aumento del rischio di diabete e di alcune malattie cardiovascolari

Secondo un’analisi preliminare e dall’analisi di numerosi studi in corso, da parte della Food and Drug Amministration ( FDA ), l?impiego degli agonisti dell’ormone liberante le gonadotropine ( GnRH ), una classe di farmaci che trova indicazione principalmente nel trattamento degli uomini con tumore alla prostata, ? stato associato a un piccolo aumento del rischio di diabete, di infarto miocardico, di ictus e di morte improvvisa.

Sulla base dei risultati iniziali l’ FDA consiglia:

? Gli operatori sanitari devono essere consapevoli di questi potenziali rischi e valutare attentamente i rischi e i benefici degli agonisti del GnRH quando scelgono la terapia per i pazienti con cancro alla prostata.

? I pazienti trattati con un agonista GnRH devono essere monitorati per lo sviluppo di diabete e malattie cardiovascolari.

? I fattori di rischio cardiovascolare come il fumo e l’aumento della pressione arteriosa, il colesterolo, la glicemia e il peso corporeo, devono essere gestiti secondo la pratica clinica corrente.

? I pazienti non devono interrompere il trattamento con gli agonisti del GnRH se non sotto la guida dello specialista.

Al momento, l’FDA non ? giunta a nessuna conclusione sulla possibilit? che siano gli agonisti del GnRH a causare un aumento del rischio di diabete e di malattie cardiache nei pazienti sottoposti a terapia con questa classe di farmaci per il trattamento del tumore alla prostata.

I farmaci appartenenti alla classe dei GnRH sono commercializzati con i nomi di: Eligard, Lupron, Synarel, Trelstar, Vantas, Viadur e Zoladex. Sono anche disponibili prodotti generici.

La prostata fa parte del sistema riproduttivo maschile. Negli Stati Uniti il cancro alla prostata ? il secondo tipo di tumore pi? comune che colpisce gli uomini, seguito dal cancro della pelle, e di solito si verifica negli uomini pi? anziani. Secondo i CDC ( Centers for Disease Control and Prevention ), si stima che nel 2010 saranno diagnosticati 203.415 nuovi casi di carcinomi alla prostata e circa 28.372 uomini moriranno.

Gli agonisti del GnRH sono farmaci che sopprimono la produzione di testosterone, un ormone coinvolto nella crescita del tumore della prostata. Questo tipo di trattamento ? denominato terapia di deprivazione androgenica, o ADT. La soppressione della produzione di testosterone ha dimostrato di ridurre o rallentare la crescita del tumore prostatico.

Alcuni agonisti del GnRh sono usati anche nelle donne per aiutarle a gestire il dolore provocato dall’endometriosi, per migliorare l’anemia associata ai fibroidi uterini prima dell’intervento di isterectomia e in alcuni casi per il trattamento palliativo del tumore mammario in stadio avanzato. Il tempo di utilizzo di questi farmaci, per le donne, non deve superare l’anno, tranne che nel trattamento del cancro al seno. Non sono noti studi analoghi che hanno valutato il rischio di diabete e di malattie cardiovascolari nelle donne trattate con agonisti del GnRH.

Alcuni agonisti del GnRH sono usati anche nei bambini per il trattamento della pubert? precoce centrale. Non sono noti studi che hanno valutato il rischio di diabete e di malattie cardiache nei bambini che assumono agonisti del GnRH.

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Lattosio, revisione delle dosi massime

La maggior parte delle persone con presunto malassorbimento o intolleranza al lattosio pu? tollerare l’assunzione di 12-15 grammi di zucchero. Allo stato attuale, per?, sono necessari ulteriori studi per valutare l’efficacia del trattamento per i casi reali di intolleranza al lattosio. Queste le conclusioni cui sono giunti Aasna Shaukat, dell’university of Minnesota school of public health di Minneapolis, e collaboratori, dopo aver effettuato una revisione sistematica degli studi randomizzati controllati in lingua inglese che hanno coinvolto pazienti con malassorbimento o intolleranza al lattosio, pubblicati nel periodo compreso tra il 1967 e il 2009. La revisione, l’estrazione dei dati e la valutazione della qualit? degli studi si sono basate sul lavoro indipendente di tre ricercatori. In totale 36 studi randomizzati hanno soddisfatto i criteri di inclusione della review: di questi 26 studi riguardavano integratori di lattasi, latte idrolizzato, prodotti con lattosio rimosso per ultrafiltrazione e soluzioni private di lattosio, sette i probiotici, due la somministrazione di lattosio a dosi incrementali per favorire l’adattamento del colon, e uno l’impiego dell’antibiotico rifaximina. Il primo dato emerso dall’analisi ? che dosi di 12-15 grammi di lattosio, equivalenti a un bicchiere di latte, sono ben tollerate dalla maggior parte dei soggetti adulti esaminati. L’evidenza a supporto dell’efficacia nella riduzione dei sintomi del latte o delle soluzioni a ridotto contenuto di lattosio (0-2 grammi), ? stata giudicata insufficiente una volta confrontata con dosi di lattosio superiori a 12 grammi. Le evidenze di efficacia sono insufficienti anche per probiotici, adattamento del colon e altri agenti. Lo studio riconosce alcuni limiti, tra cui il fatto che la maggior parte degli studi ha arruolato pazienti con malassorbimento piuttosto che intolleranza al lattosio. L’articolo ? liberamente consultabile in full-text sul sito di Annals of internal medicine.

Ann Intern Med, 2010 Apr 19. [Epub ahead of print]

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Pressione portale nella cirrosi Child Pugh A

Ace-inibitori (Acei) e sartani (Arb) riducono la pressione portale nei pazienti con cirrosi Child Pugh A senza aumentare il rischio di eventi avversi. In questi soggetti efficacia e sicurezza possono derivare dall’effetto mirato sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (Raas) epatico locale mentre nei pazienti con malattia del fegato non compensata l’attivazione del Raas sistemico espone al rischio di ipotensione e di insufficienza renale. Le indicazioni emergono da una revisione sistematica di 19 studi controllati, per un totale di 678 pazienti, condotta da Puneeta Tandon, dell’unit? di Epatologia dell’ospedale Clinico di Barcellona e della university of Alberta a Edmonton (Canada), e da suoi collaboratori. Gli autori hanno inoltre eseguito una metanalisi partendo dai dati di tre studi clinici. Rispetto al placebo, Arb e Acei hanno determinato una significativa riduzione del gradiente pressorio venoso epatico (Hvpg). Sono stati identificati come studi di migliore qualit? quelli in cui Arb e Acei erano posti a confronto con beta-bloccanti (Bb). Riunendo i dati di singoli pazienti tratti da tre studi sui quattro di migliore qualit?, si ? dimostrato che i Bb riducono l’Hvpg in modo pi? efficiente rispetto ad Arb e AceEi. Tuttavia, nei pazienti con cirrosi Child Pugh A, la riduzione di Hvpg con Arb e Acei (-17%) ? risultata simile a quella riscontrata con i Bb (-21%). Per quanto riguarda invece i trial in cui venivano sperimentati gli antagonisti dell’aldosterone, non ? stato possibile utilizzarne i dati a causa della significativa variazione dei gruppi di confronto. Infine, anche se l’indagine non ha rilevato differenze nei gruppi per quanto riguarda gli effetti collaterali, alcuni studi selezionati hanno evidenziato eventi avversi di tipo emodinamico nei pazienti con cirrosi scompensata in trattamento con Arb e Acei. Gli autori, a conclusione del loro lavoro, sottolineano l’esigenza di approfondire le ricerche con altri studi per determinare il potenziale di Arb e Acei come risorse alternative o addizionali ai Bb.

J Hepatol, 2010 May 21. [Epub ahead of print]

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