Oncogeni, tiroidite e cancro tiroideo

18 Lug 2010 Oncologia

Si ampliano le conoscenze sulle interrelazioni tra oncogeni, tiroidite e cancro tiroideo, grazie anche agli studi dell’unit? di Endocrinologia della Fondazione policlinico di Milano e del dipartimento di Scienze mediche del locale ateneo. ? noto che gli oncogeni dei tumori tiroidei sono in grado di indurre la formazione di un microambiente infiammatorio protumorigeno. Su questa base i ricercatori del capoluogo lombardo hanno voluto studiare pi? a fondo il carcinoma papillare della tiroide (Ptc), associato a fenomeni di autoimmunit?. Sono stati analizzate le caratteristiche cliniche e molecolari e le espressioni di geni correlati all’infiammazione di pazienti affetti da Ptc, con o senza tiroidite associata (gruppo A, n=128 e gruppo B, n=215). Non si sono registrate differenze significative sotto il profilo clinico e prognostico tra i due gruppi, ma il background genetico era molto diverso, con l’oncogene Ret/Ptc1 maggiormente rappresentato nei pazienti con Ptc associata ad autoimmunit? e il Braf(V600E) pi? presente in quelli con sola Ptc. Un riarrangiamento Ret/Ptc ? stato riscontrato anche nel 41% dei tessuti tiroidei infiammati ma non neoplastici, controlateralmente ai tumori con mutazioni sia Ret/Ptc sia Braf. L’espressione dei geni codificanti per CCL20, CXCL8 e l-selectina ? stata significativamente maggiore nei campioni di Ptc rispetto a quelli di tessuto tiroideo normale. Al contrario, le tiroiditi hanno mostrato livelli di espressione di l-selectina anche superiori a quelli del Ptc, ma i valori di CCL20 e CXCL8 erano paragonabili a quanto rilevato nel tessuto normale. Ricapitolando: esiste un differente retroterra genetico tra Ptc a seconda che sia associata o meno un’autoimmunit?; lo stretto legame tra Ret/Ptc1 e tiroidite evidenzia il ruolo decisivo dell’oncoproteina nella modulazione della risposta autoimmune; infine, studi preliminari indicano una maggiore presenza di molecole infiammatorie nei Ptc, suggerendo una relazione proinfiammatoria e non autoimmune tra tiroidite e cancro mammario.

Clin Endocrinol, 2010; 72(5):702-8

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Cancro mammario, polimorfismi e fattori ambientali

17 Lug 2010 Oncologia

Non si hanno molte informazioni circa gli effetti combinati sull’incidenza del cancro mammario da parte dei polimorfismi di suscettibilit? genetica a bassa penetranza e i fattori ambientali (rischio riproduttivo, ambientale e antropometrico). Per questo motivo, Ruth C. Travis e collaboratori dell’Universit? di Oxford e del Million women study, hanno voluto cercare le prove delle interazioni tra gene e ambiente, mettendo in relazione i rischi relativi genotipici per tumore della mammella con altri fattori in un ampio studio prospettico nel Regno unito. Sono state testate tali interazioni in 7.610 donne che hanno sviluppato la neoplasia e in 10.916 controlli senza la malattia, studiando gli effetti di 12 polimorfismi in relazione alle informazioni raccolte in modo prospettico su dieci provati fattori di rischio ambientale: et? al menarca, parit?, et? alla prima nascita, allattamento, stato menopausale, et? alla menopausa, uso di terapia ormonale sostitutiva (Hrt), indice di massa corporea, altezza e consumo di alcol. Al termine del test multiplo, per?, nessuno dei 120 raffronti ha fornito una prova significativa di interazione gene-ambiente. Contrariamente a indicazioni precedenti, si ? avuta qualche minima evidenza che il rischio relativo genotipico fosse influenzato dall’uso dell’Hrt, indipendentemente dal fatto che la malattia fosse ?positiva al recettore per gli estrogeni. La conclusione del team di ricercatori non pu? che essere una sola: i rischi di tumore mammario associati a polimorfismi di suscettibilit? a bassa penetranza non variano in modo significativo in base ai dieci fattori ambientali presi in considerazione nello studio.

Lancet, 2010 Jun 2. [Epub ahead of print]

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Cuore non a rischio se Bnp elevato dopo calo di peso

16 Lug 2010 Cardiologia

Non sempre un aumento dei livelli ematici del peptide natriuretico di tipo B (Bnp) indica un peggioramento di una malattia cardiaca o ha un valore prognostico negativo. Al contrario, se si registra un incremento di Bnp in soggetti che hanno perso peso in seguito a modificazioni dello stile di vita, si possono osservare vantaggi clinici. ? questo, in sintesi, il messaggio di uno studio condotto da Nita Chainani-Wu, dell’universit? della California a San Francisco, e collaboratori. Sono stati selezionati 131 soggetti, 56 con malattia coronarica (Chd) e 75 ad alto rischio, con tre o pi? fattori di rischio per Chd e/o diabete mellito, ed ? stato effettuato un intervento sugli stili di vita consistente in riduzione dell’apporto di grassi, alimentazione con cibi integrali, esercizio fisico, gestione dello stress e supporto sociale. Al basale e dopo tre mesi si ? effettuata la misurazione del Bnp, del’indice di massa corporea (Bmi) e di altri biomarker. Al terzo mese il valore medio del Bmi era diminuito (da 34,4 a 31,7 kg/m2), quello del Bnp era aumentato (in media da 18 a 28 pg/ml), mentre risultavano ridotti i livelli di lipoproteina a bassa densit?, proteina C-reattiva e apolipoproteina B, la frequenza e la gravit? dell’angina. Inoltre, mentre le limitazioni fisiche delle persone erano divenute minori, il loro funzionamento fisico era migliorato. La modificazione percentuale del Bnp ? apparsa associata in modo inverso con quella dell’insulina e con quella del Bmi e quest’ultima correlazione ? rimasta significativa nelle analisi di regressione multipla controllate per et?, genere, Chd, diabete, percentuale di modificazione nell’indice dello stile di vita e uso di beta-bloccanti. La proposta di utilizzare il Bnp per monitorare la progressione della malattia cardiaca, concludono gli autori, dovrebbe tenere conto dei cambi del Bmi.

Am J Cardiol, 2010; 105(11):1570-6

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Doxazosina, positivi i primi risultati per urolitiasi

15 Lug 2010 Urologia

Positivi i risultati preliminari dell’impiego di doxazosina come terapia medica espulsiva di calcoli ureterali distali: associata a diclofenac, l’alfa-bloccante in un trial clinico randomizzato ha dimostrato di migliorare l’efficienza di eliminazione degli aggregati, ridurre la frequenza delle coliche e far diminuire l’utilizzo di analgesici, il tutto senza provocare effetti collaterali. La sperimentazione ? stata condotta in Pakistan, all’Universit? Aga Khan di Karachi, da Ali Akbar Zehri e collaboratori della Sezione di Urologia. Sono stati inclusi nello studio 65 pazienti portatori di una concrezione sintomatica di 4-7 mm nell’uretere distale, suddivisi in due gruppi. Il primo (n=32), di controllo, ha ricevuto diclofenac sodico 50 mg per controllare il dolore, il secondo (n=33) ? stato trattato con doxazosina (2 mg al giorno somministrati la sera) insieme a diclofenac sodico 50 mg. Il trattamento ? proseguito fino all’espulsione del calcolo e, comunque, per 28 giorni al massimo. Precisato che i due gruppi erano sovrapponibili in termini demografici e clinici, ecco i risultati: i pazienti trattati con doxazosina hanno fatto registrare un tasso di espulsione del calcolo significativamente maggiore del gruppo controllo (70% vs 38%), oltre a un minore tempo trascorso prima dell’eliminazione della concrezione. Durante il periodo di trattamento, inoltre, gli autori affermano di avere osservato differenze significative tra i due gruppi in relazione al numero degli episodi dolorosi e degli analgesici impiegati. In nessun paziente si sono avuti eventi avversi correlati ai farmaci.

Urology, 2010; 75(6):1285-8

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Quadrivalente anti-HPV, vaccino utile anche nell’uomo

Per le persone di sesso maschile il vaccino quadrivalente contro il papillomavirus umano (Hpv) appare un’opzione sicura e in grado di indurre un’efficiente risposta immunitaria. Questa vaccinazione pu? anche ridurre l’incidenza di cancro anogenitale e del pene, seppure al proposito i dati attualmente disponibili sono limitati per numerosit? e durata del follow-up. ? necessario, comunque, approfondire l’analisi sull’immunogenicit? a lungo termine del preparato e valutarne gli effetti sulle complicazioni associate all’infezione da Hpv. A queste conclusioni giungono Abigail Yancey e collaboratori del St. Louis college of pharmacy (Stati uniti), dopo aver preso in considerazione e selezionato gli studi pubblicati in lingua inglese relativi alla somministrazione del vaccino quadrivalente nei maschi. Tre trial clinici hanno valutato immunogenicit? e tollerabilit? del vaccino su pi? di 1.100 persone di sesso maschile con un’et? compresa tra 9 e 26 anni. Pi? del 99,5% di questa popolazione ? andata incontro a sieroconversione per Hpv 6, 11, 16 e 18 dopo un mese mentre i titoli anticorpali sono risultati pi? alti di quelli presenti nelle donne di et? compresa tra 16 e 26 anni. Uno studio, inoltre, ha evidenziato che la risposta immunitaria persiste dopo un anno in pi? del 92,5% dei soggetti di sesso maschile. Un altro dato importante ? la dimostrazione di un’elevata efficacia nel ridurre l’identificazione di nuove lesioni anogenitali nei maschi 29 mesi dopo la somministrazione del vaccino. Dal punto di vista del profilo di sicurezza il prodotto ? risultato ben tollerato. I pi? comuni eventi avversi consistono in sincope, febbre, reazioni sul sito di inoculazione, vertigini, nausea e mal di testa.

Ann Pharmacother, 2010 May 25. [Epub ahead of print]

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Ipertesi Usa: dopo vent’anni controllato il 50,1%

13 Lug 2010 Cardiologia

La prevalenza dell’ipertensione negli Stati Uniti ? diminuita dal 1988 a oggi, a testimonianza di una migliore consapevolezza nei pazienti, della disponibilit? di trattamenti pi? efficaci e di un controllo dei valori pressori sempre pi? completo sulla popolazione, fino a coinvolgere, nel 2007-2008, il 50,1% di tutti i pazienti, obiettivo prefissato da tempo. ? la “morale” che scaturisce dall’analisi svolta da Brent M. Egan e collaboratori della Medical university of South Carolina (Charleston), sui dati di due indagini Nhanes (the National health and nutrition examination survey) relative ai periodi 1988-1994 e 1999-2008, suddivise in cinque blocchi biennali, e riferite a oltre 42mila adulti di et? >18 anni. L’ipertensione ? stata definita come la presenza di una pressione sistolica e diastolica di almeno 140 e 90 mmHg, rispettivamente; valori inferiori identificavano una condizione di controllo pressorio. I tassi dell’ipertensione sono aumentati da 23,9% nel periodo 1998-1994 a 28,5% nel biennio 1999-2000, ma non si sono modificati tra il 1999-2000 e il 2007-2008 (29%). Il controllo dell’ipertensione ? aumentato dal 27,3% nel 1988-1994 a 50,1% nel 2007-2008, mentre la pressione arteriosa tra i pazienti ipertesi ? diminuita da 143,0/80,4 a 135,2/74,1 mmHg. Il controllo pressorio ? aumentato in modo significativamente maggiore in percentuali assolute tra il 1999-2000 e il 2007-2008 in confronto al periodo compreso tra il 1988-1994 e il 1999-2000 (18,6% vs 4,1%). Nel complesso, un miglior controllo ? stato il riflesso di una maggiore consapevolezza (69,1% vs 80,7%), di un migliore trattamento (54,0% vs. 72,5%) e una superiore proporzione di pazienti in terapia con ipertensione controllata (50,6% vs 69,1%). Il ?controllo dell’ipertensione ? dunque molto migliorato, specie dopo il 1999-2000, indipendentemente da et?, etnia e sesso, ma ? stato minore nei soggetti di et? compresa tra 18 e 39 anni e dai 60 anni in su.

JAMA, 2010; 303(20):2043-50

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Meno cadute per gli anziani con le lenti monofocali

La fornitura di occhiali con lenti monofocali agli anziani che solitamente portano modelli con ottica multifocale e che prendono regolarmente parte ad attivit? fuori casa, rappresenta una strategia semplice ed efficace per prevenire le cadute; lo stesso provvedimento pu? invece essere dannoso nel caso di soggetti che stanno prevalentemente in casa. Sono le conclusioni che Mark J. Haran, del dipartimento di Cura e riabilitazione dell’anziano del Royal North Shore hospital di Sydney, e collaboratori, hanno tratto dai risultati del trial Visible, controllato randomizzato a gruppi paralleli e con un follow-up di 13 mesi. Sono stati coinvolti oltre 600 anziani (et? media: 80 anni) regolari utilizzatori di lenti multifocali; i criteri di inclusione sono stati un aumentato rischio di cadute (verificato dagli episodi nel corso dell’anno precedente o mediante un test “time up and go” >15 secondi) e l’impiego fuori casa di lenti multifocali almeno tre volte a settimana. L’intervento ? consistito nel fornire a circa la met? di loro occhiali con lenti per una sola distanza, insieme alla raccomandazione di farne uso soltanto per camminare e svolgere le attivit? all’esterno. Nei 299 soggetti del gruppo intervento, rispetto ai 298 partecipanti controllo, l’operazione ha determinato una riduzione dell’8% nel numero delle cadute (rapporto tra i tassi di incidenza: 0,92). Un’analisi per sottogruppi pre-pianificata ha dimostrato che l’intervento ? stato efficace, nei soggetti regolarmente coinvolti in attivit? fuori casa, nel far diminuire tutti i tipi di cadute (0,60), quelle esterne, e quelle che determinano lesioni. Un significativo aumento di cadute esterne, invece, si ? registrato nelle persone del gruppo intervento che hanno preso parte a piccole attivit? fuori casa.

BMJ, 2010; 340:c2265

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Labelatolo in utero e rischio di sviluppare Adhd

Si apre il dibattito sul rischio di sviluppo della sindrome da deficit di attenzione e iperattivit? (Adhd) nei bambini esposti in utero a labetalolo, utilizzato per il trattamento dell`ipertensione gestazionale. A suggerire l`associazione ? uno studio di PCM Pasker-de Jong e collaboratori del Radboud university Nijmegen medical centre di Nijmegen in Olanda: i ricercatori hanno sottoposto 202 bambini di et? compresa tra 4 e 10 anni ai test standard per determinare quoziente intellettivo, capacit? di concentrazione, sviluppo motorio e caratteristiche comportamentali. Le madri dei bambini esaminati avevano assunto labetalolo, oppure metildopa oppure erano state invitate al riposo a letto a causa dell`ipertensione gestazionale di grado lieve-moderato. I risultati mostrano un aumento del rischio di Adhd nei bambini esposti a labetalolo rispetto a quelli esposti a metildopa (odds ratio, Or 2,3) o ai piccoli nati da madri cui era stato consigliato il riposo a letto (Or 4,1).
Di converso, i disturbi del sonno sono riportati pi? di frequente dopo esposizione in utero a metildopa rispetto a labetalolo (Or 3,2) o riposo a letto (Or 4,5). I punteggi dei test relativi ad altri parametri non differiscono invece tra i 3 gruppi.

In attesa di approfondimenti
Gli stessi autori, in chiusura del loro lavoro, precisano che nuovi studi su una popolazione di adeguata numerosit? sono necessari per determinare gli effetti a lungo termine dei farmaci antipertensivi sullo sviluppo funzionale dei bambini quando raggiungono l`et? della scuola materna o elementare. Un concetto condiviso da Philip Steer, editor in chief dell`International journal of obstetrics & gynecology che ha pubblicato lo studio olandese. Secondo Steer i risultati dell`indagine potrebbero essere frutto del caso. Inoltre, poich? l`ipertensione gestazionale espone a gravi complicazioni come l`ictus, i benefici dei farmaci antipertensivi nella prevenzione della morte del feto o della madre hanno un peso maggiore rispetto alla possibilit? di incorrere in effetti a lungo termine meno catastrofici.

Un possibile bias nella raccolta dati
Su questa linea si schiera anche Michael Belfort, ginecologo dell`university of Utah medical school, autore di un commento a parte sullo studio. ?Fino a quando non arriveranno conferme ? afferma Belfort ? i medici non devono astenersi dal prescrivere questi farmaci alle pazienti ipertese quando sono soddisfatte le indicazioni?. Ma il ginecologo americano va ancora oltre suggerendo la possibilit? che si sia verificato un bias al momento della raccolta dei dati. Solo il 57% delle donne, infatti, si ? reso disponibile al follow-up, un dato che solleva qualche dubbio sulla rappresentativit? del campione esaminato. ?I genitori di bambini con problemi ? ricorda Belfort ? possono essere pi? disponibili a rispondere alle domande sull`uso di farmaci durante la gravidanza rispetto alle mamme di bambini che non manifestano quei problemi?. Infine, lo specialista rileva che i risultati olandesi riguardano l`uso di farmaci orali in donne affette principalmente da ipertensione cronica: i dati quindi non possono essere estrapolati per il management della pre-eclampsia grave con labetalolo somministrato per via endovenosa.
(Journal of Obstetrics & Gynecology, pubblicato online 19 maggio 2010)

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Ictus ischemico, rt-Pa da iniettare entro 270 minuti

I pazienti colpiti da ictus ischemico, selezionati in base ai sintomi e all’imaging tomografico, traggono beneficio dall’impiego di alteplase, attivatore tissutale ricombinante del plasminogeno (rt-Pa), quando la somministrazione endovenosa avviene anche dopo 3 ore dall’esordio dei sintomi, ma entro 4-5 ore. Oltre questo limite di tempo i rischi potrebbero essere superiori ai benefici. Il riscontro ? frutto di un’analisi di dati raggruppati che ha aggiunto i risultati dei trial Ecass III (821 pazienti) ed Epithet (100 pazienti) a un insieme di dati di sei trial che avevano previsto l’impiego di rt-Pa su un totale di 2.775 pazienti con ictus acuto. Gli autori, Kennedy Lees dell’universit? di Glasgow (Western Infirmary), e collaboratori, hanno randomizzato in un gruppo placebo e in un gruppo rt-Pa 3.670 pazienti in cui il trattamento ? iniziato entro 360 minuti dall’esordio dell’evento ischemico cerebrale. Le probabilit? di un outcome favorevole a 3 mesi sono apparse in aumento con la riduzione del tempo intercorso tra l’inizio dell’ictus e l’instaurazione del trattamento (Ott) mentre non ? stato osservato alcun beneficio quando la somministrazione di rt-Pa ? avvenuta dopo circa 270 minuti. Nello specifico, le probabilit? aggiustate di esito favorevole a 3 mesi si sono attestate a 2,55 per un Ott di 0-90 minuti, 1,64 a 91-180 minuti, 1,34 a 181-270 minuti e 1,22 a 271-360 minuti. Emorragie parenchimali massive sono state registrate in 96 pazienti su 1.850 del gruppo rt-Pa (5,2%) e in 18 dei 1.820 controlli (1,0%) ma non ? emersa una chiara relazione tra questo evento e l’Ott. Un’ulteriore osservazione riguarda la mortalit? che ? aumentata in relazione all’Ott: le probabilit? aggiustate di questo outcome sono risultate pari a 0,78 per un Ott di 0-90 minuti, 1,13 per 91-180 minuti, 1,22 per 181-270 minuti e 1,49 quando l’Ott era compreso tra 271 e 360 minuti.

Lancet, 2010; 375: 1695-1703

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HIV-1, infettivit? etero frenata da antiretrovirali

Nelle coppie eterosessuali stabili, un trattamento antiretrovirale efficace nel partner infetto da Hiv comporta un basso rischio di trasmissione del virus al partner non infetto durante i rapporti sessuali. Pertanto, l’instaurazione di una terapia in accordo con i vigenti protocolli nel partner infetto e l’evitamento di rapporti non protetti sono da ritenere misure complementari nell’ottica della prevenzione. Lo studio che ha approfondito la questione ? stato condotto da Jorge Del Romero del Centro sanitario Sandoval di Madrid (Spagna) e collaboratori, e ha misurato, in relazione al trattamento antiretrovirale, sieroprevalenza dell’Hiv all’arruolamento e sieroconversioni durante il follow-up nei partner non infetti (non-index) di soggetti con infezione da Hiv (index). Nelle 476 coppie in cui il partner index non stava assumendo la terapia, la sieroprevalenza di Hiv all’arruolamento dei non-index ? risultata pari al 9,2% mentre nessun caso di infezione nei soggetti non-index ? stato osservato quando il partner index era in terapia antiretrovirale combinata. Durante il follow-up, tra 341 coppie sierodiscordanti in cui il partner index non era in trattamento si sono avuti 11.000 rapporti sessuali non protetti, 50 gravidanze naturali e 5 casi di sieroconversione. Di queste coppie, 294 avevano sempre utilizzato il preservativo in circa 42.000 rapporti sessuali, ciononostante si sono verificate 136 esposizioni al rischio per insuccesso del profilattico (condom failure), oltre a un caso di sieroconversione in un partner non-index. Il rischio relativo associato all’uso del preservativo ? risultato pari a 0,07. In corso di follow-up, tra le 144 coppie in cui il partner index assumeva la terapia antiretrovirale combinata, sono stati registrati 7.000 rapporti sessuali non protetti, 47 gravidanze naturali ma nessun caso di sieroconversione nei partner non-index.

BMJ, 2010; 340: c2205

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